Garibaldi – L’anniversario della morte dell’eroe popolare.

Il 2 giugno, anniversario della morte di Garibaldi, non sarà dimenticato mai dove vive intatta l’ammirazione per l’eroismo più puro; non sarà dimenticato in Italia, che a Garibaldi, come ad altri grandi, deve la propria unità.
Noi lo ricordiamo, volgendo il pensiero a due momenti della vita giovanile dell’ eroe, quand’egli combatteva per la libertà nell’America.
Due nostre incisioni li rammentano: quando Garibaldi subì la tortura, e quando in America versava in miserevoli ristrettezze economiche colla sua famiglia.
È noto che Garibaldi coinvolto nella congiura della Giovine Italia nel 1833, fuggì e nel 1836 si recò nell’America de Sud, segnalandosi nel servizio della Repubblica di Rio Grande. Il Governo di Montevideo gli diede la caccia. Nel Rio della Plata esso è assalito da gente armata, che in nome del Governo di Montevideo, gli s’intima la dedizione. Ne succede una zuffa. Garibaldi è ferito da una palla… Ma (lasciamo la parola a Jessie W. Mario):
Garibaldi, ritornato in sè, ma impotente a muoversi, credendosi anzi mortalmente ferito, ripugnandogli l’idea di trovare una tomba “nel ventre di un lupo marino o di un alligatore” implora dai suoi compatrioti:

. . . . . . . . . . un sasso
Che distingua le sue da le infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte!

Essi piangendo promettono. Dopo diciannove giorni di infinite cure, peggiorando la ferita e aggravato dalla febbre, col solo caffè, o poc’altro, per nutrimento, riesce di condursi semivivo a Gualeguay, paese in Entrerios. Per buona sorte, all’imboccatura dell’Ibiqui, braccio del Parana, incontra un bastimento comandato da un Mahonese, Don Lucas Iartaulo, che lo fornisce di tutto il necessario ed anche di lettere di raccomandazione per Gualeguay; specialmente per il governatore della provincia, Don Pasquale Echague.
Frattanto le carte di corsa del governo repubblicano di Rio Grande non sono tenute valide, la bandiera tricolore nemmeno, tutti sono messi in prigione, e Garibaldi, da continua febbre, stava per soccombere alla terribile ferita quando un giovine chirurgo Ramon Delarea gli estrasse la palla ricevuta nel conflitto: la palla, entrando nel lato sinistro sotto l’orecchio, traversato il collo, si era fermata fra gli integumenti dell’orecchio destro.
Grazie alla benevolenza del governatore della provincia, egli non fu tenuto nelle prigioni comuni, ma potè accettare l’ospitalità di uno spagnuolo, Don Giacinto Andreas, e di là scriveva a Cuneo ragguagliandolo del proprio stato.
Il buon governatore di Gualeguay Echaque era partito, e il suo successore Leonardo Millan, non mostrò di prendersi più pensiero di lui. Garibaldi credette ciò che parecchie persone gli venivano susurrando all’orecchio, di essere d’ imbarazzo al Governo, il quale delle udrebbe con piacere la notizia della sua scomparsa.
Vi si accinse egli, ma il suggeritore della fuga era un agente provocatore, una spia la guida. Perciò fu inseguito, e ricondotto colle mani legate alla schiena e i piedi sotto la pancia del cavallo; poi gli fu intimato di denunciare i complici della fuga. Rifiutatovisi, il prigioniero fu trasportato in carcere e quivi torturato con tratti di corda. Ad ossa slogate, gli si presenta il Millan, e gli rinnova l’intimazione. Garibaldi, per tutta risposta, gli sputa sul viso. Già affranto dal viaggio di sessanta miglia, legato sul cavallo, riarso dalla febbre, tormentato da “zanzare grosse come cavallette,” perdette di nuovo i sensi, e quando quel mostro fecelo slegare lo si credette ormai cadavere. Anche questa volta ei fu salvato da una donna. Non molti anni dopo, quello scellerato con tutta la sua famiglia cadde in podestà di Garibaldi; il quale, ben s’intende, proibì ai suoi di torcergli un capello.

Da: L’Illustrazione popolare, Volume 26
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Il 24 maggio i dottori Sirletti e Albanese decisero di lasciare Caprera, e la loro partenza fu fissata per l’indomani. Garibaldi ne manifestò grande rammarico. Si erano appena separati da lui e si erano allontanati di qualche passo dalla sua porta, quando li richiamò dicendo: “Non lasciate un povero vecchio. Chissà quando vi rivedrò, – se mai vi rivedrò!” Il rinnovato addio fu doloroso. Garibaldi fece spingere il suo calesse sulla riva del mare, e prima che i Drs. Sirletti e Albanese salissero sulla lancia a vapore, li chiamò di nuovo e disse: “È piccolo piacere baciare le guance di un vecchio. Baciatemi sulla fronte”. Poi rivolto a Sirletti, disse: “Salutate per me la mia cara Roma”. Sembrava che volesse di dire di più, ma potè soltanto mormorare, “Vai, vai presto”, e con una lacrima negli occhi si allontanò. Poi quando il piroscafo Lombardia si staccò al largo verso il mare con i suoi amici a bordo, li salutò con il fazzoletto da tasca fintanto la nave fu in vista, quindi fu ricondotto a casa e poco dopo si mise a letto, da cui non si è mai alzato.

La fine era davvero vicina. Una settimana dopo ciò era tanto peggiorato che furono mandati telegrammi convocando il figlio Menotti da Roma, e richiamando il dottor Albanese da Palermo. A poco a poco afflosciò, e la notte di venerdì 2 giugno 1882, alle otto e mezza, venne la fine, e l’ultimo Eroe dell’età eroica della Nuova Italia si spense. Morì con la finestra della sua camera spalancata, mentre il sole tramontava dietro la Corsica. Prima che iniziasse l’ultima agonia, un uccello si posò cinguettando sul davanzale della finestra. Garibaldi lo vide e balbettò: “Quanto è allegro “.

Quando si seppe l’oscura notizia della sua morte, grande fu il dolore di tutta Italia. A Roma la notizia cadde come un fulmine. Tutti i teatri sospesero le loro rappresentazioni. Al Valle il comico costrinse il pubblico a piangere invece che a sorridere al suo grido: «Garibaldi è morto».
Alla notizia subito portata al Re dal Segretario generale dell’Interno, il signor Lovito, Sua Maestà, preso dal dolore per la perdita di colui che era sempre stato amico fermo e sincero di suo padre, e aveva sempre, nei più momenti solenni della sua vita, ripetuto le parole “Italia e Vittorio Emanuele”, si sedette e scrisse di sua mano il seguente telegramma: – “Il dolore che provo per la morte del tuo illustre padre è proporzionato al lutto della nazione. Mio padre mi ha insegnato fin dalla prima giovinezza ad onorare nel Generale le virtù del cittadino e del soldato. Dopo essere stato testimone delle sue gesta gloriose, provai per lui un profondo affetto e ancora più gratitudine e ammirazione. Questi sentimenti, ed il ricordo di quelli manifestati dal valoroso Generale verso la mia famiglia, mi fanno sentire doppiamente la gravità della nostra irreparabile perdita. Partecipando al supremo dolore del popolo italiano, e al lutto dei familiari del defunto, vi prego di essere loro interprete delle mie condaglianze, che sono condivise da tutta la Nazione. UMBERTO.”

Un corrispondente di giornale a Milano fornisce il seguente resoconto grafico della ricezione della notizia della sua morte nel nord Italia: –

Mai, credo in verità, il sole ha guardato il dolore angoscioso come ora si abbatte sul popolo italiano di ogni ceto e credo, alto e basso, ricco e povero, dalle Alpi innevate alla soleggiata e triste Palermo, per la morte del loro amato capo. La notizia mi giunse all’alba, in un paesino incastonato tra le colline del Mincio, indisturbato da tram o ferrovie, dove solo la diligenza che fa due volte al giorno la spola tra Mantova e Brescia rompe la tranquilla monotonia della vita quotidiana.
Era giorno di mercato, e molto intenso, poiché la campagna dei bachi da seta è quasi finita, e prevaleva la più viva ansia per il prezzo dei bozzoli. Intanto l’incaricato che portava il mio telegramma aveva diffuso la notizia: Garibaldi è morto! Il silenzio cadde su tutto, poi le contadine, portando indietro i loro prodotti di pollame, tornarono piangendo alle loro case, sentendo ciascuna che il capo di ogni famiglia non c’era più.
Mentre andavamo verso la stazione più vicina, a quattro miglia di distanza, tutti i negozi erano chiusi, su ciascuno era scritto o scarabocchiato “per lutto nazionale” o “Garibaldi é morto, ” tutti coloro che possedevano una bandiera l’avevano stesa con un velo crespo o uno straccio nero. Da Desenzano a Milano la gente si attardava nelle stazioni sperando contro ogni speranza che la notizia non fosse vera, o per carpire particolari della catastrofe. Ad ogni stazione salivano sul treno veterani o giovani reduci della patria battaglie, intenzionati a raggiungere Caprera con un mezzo o con l’altro; se non ci sono piroscafi ci saranno le navi costiere, mancando queste, le barche da pesca. Con noi c’era il maggiore Carriolati, uno degli ufficiali preferiti di Garibaldi ferito a Calatafimi, che ci chiese se ricordavamo come Garibaldi, nel 1867, fosse sceso dal treno per andare a trovare la sua vecchia madre cieca.
Arrivati ​​a Milano la città sembrava deserta, poteva essere che la pestilenza l’avesse investita, si poteva ben immaginare che come ai tempi descritti dal Manzoni nei Promessi Sposi, solo il Lazzaretto, tuttora esistente, era popolato. Un manifesto firmato da ventotto diverse associazioni aveva convocato il popolo al cimitero monumentale, dove era stato portato in processione il ritratto di Garibaldi, drappeggiato di nero.

“Strano, ” disse un venuto da uno dei paesi più piccoli del territorio veneziano, “qui in questa grande città commerciale, questo centro della vita materiale d’Italia, i segni esteriori del dolore sono gli stessi che nel mio piccolo paese natale, botteghe chiuse, sospese tutte le occupazioni ordinarie, verrebbe da pensare che il telegrafo avesse emanato un ordine comune: ‘per lutto nazionale‘.” E in verità il lutto nazionale è il lutto individuale in questo caso, ogni famiglia piange il suo capo, rifiutandosi di essere consolato perché Garibaldi non c’è più.

Questa mattina (lunedì) il sole splendente si affaccia sulla stessa scena di desolazione – bandiere velate di crespo, negozi chiusi, tutti vestiti di nero. Da palazzo reale, dal municipio e da altri edifici pubblici il tricolore pende desolato nel aria afosa d’estate a mezz’asta. Sul Corso Garibaldi tutti i balconi sono drappeggiati di nero; il ritratto di Garibaldi è lì, circondato di fiori freschissimi sempre rinnovati; sulla facciata del Teatro Fossati il ritratto è quasi nascosto da ghirlande sempre rinnovate L’unico commercio esercitato è quello dei giornali, tutti emessi con i bordi neri, i venditori con il crespo nero sulle braccia.

“Devo aggiungere un episodio caratteristico. A Milano, come negli altri capoluoghi d’Italia, tutte le scuole Statali e Comunali sono chiuse; ma in una scuola privata femminile, dove predominano i sacerdoti, le classi sono state tenute aperte questa mattina, e i genitori pii hanno mandato i loro figli. Le giovani fanciulle così arringavano le loro mistress: – ‘Quando volete commemorare la festa di Santa Maria, Santa Teresa o Santa Luca, chiudete le scuole e ci portate a messa; ebbene, ora chiudiamo chiudiamo per San Garibaldi, ‘ e su hanno girato il tavolo sulle sue gambe e ritornarono a casa”.

E non solo in Italia si sentì il dolore; in Inghilterra, Francia e Germania la stampa espresse i profondi sentimenti di ammirazione e di apprezzamento suscitati dalla scomparsa di Garibaldi. Perfino dall’Austria, e dagli organi papali di Roma, giunsero encomi al suo puro patriottismo, al suo coraggio e al suo carattere altruista.

Garibaldi is dead, and

“From the dawn it seemed there came, but faint

As from beyond the limit of this world

Like the last echo born of a great cry,

Sounds, as if some fair city were one voice

Around a king returning from his wars.”

Stampato da WALTER SCOTT, “The Kenilworth Press,” Felling, Newcastl

Articolo estrapolato da: Vita di Giuseppe Garibaldi, eroe e patriota italiano
Di Howard Blackett
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