UN RICORDO DI NATALE

Vengono al principio di dicembre e la loro voce squilla ad un tratto per le vie di Napoli come un annunzio festoso, con una nota gaia che penetra e vibra nei petti di tutti.

Vengono! vengono!

Per quanto si sia tetragoni alle emozioni quotidiane della vita, per quanto si cerchi sorridere pietosamente delle convenzioni e delle vecchie abitudini del mondo e si pretenda mostrarsi spiriti superiori, non è possibile reprimere un senso di lieta sorpresa nell’udire il ciaramellio semplice ed ingenuo, con cui si annunziano ai Napoletani i due rozzi strumenti.
Abituati ai godimenti raffinati della musica da teatro e resi difficili dai magistrali concerti giudici severi dell’abilità d’un pianista o d’un violinista, pure accogliamo lietamente questo piffero e questa zampogna, che vengono a ripeterci ogni anno la medesima novena.
Penso talvolta a questi due strumenti così diversi, così semplici nella loro rozzezza e li immagino come due compagni uniti dal destino con vincoli indissolubili per tutta un’esistenza dolce e serena. Lui, il piffero, più svelto, più elegante, espansivo nelle proprie manifestazioni, amante del successo, che esso cerca di ottenere col suo chiacchierio e la variabilità delle note acute e squillanti — lei, la zampogna più modesta, di un carattere dolce, paga del successo di lui, mite, umile, senza audacie, senza aver mai altra aspirazione che quella di contribuire con la sua voce calma e casalinga a far risaltare meglio le modulazioni del compagno. E talvolta, mentre egli, inebriato di sè e dell’arte sua, quasi la dimentica per tener dietro alle fioriture d’una nota tremula, mi pare che dal petto della poverina sfugga, gemendo, un sospiro di dolce rassegnazione.

Nati insieme laggiù, nella misera capanna di un montanaro abruzzese, dopo un lungo viaggio per le campagne brulle, per le vie coperte di neve, vengono qui ad unire le loro voci dinanzi ad una immaginetta sacra, per rimpatriare fra qualche settimana e tornare l’anno venturo. E gli anni passano, i due compagni diventano vecchi, le voci si fanno rauche, ma nulla, nulla può dividerli mai.

Il Natale ritornava.

La città si preparava alla solennità di quei giorni con la più spensierata gaiezza; sui volti dei passanti era dipinta una gioia serena; si-

-sforzavano tutti di mettere, per qualche ora, da parte le inesorabili miserie della vita.
Ed anche Giorgio era uscito di casa con la giovane moglie per fare delle spese. Camminavano sveltamente, chiacchierando, facendo dei modesti disegni, discutendo dell’assoluta necessità di acquistare qualche nuovo arredo per la casa.
A un tratto, sbucando da una cantonata, scorsero sui gradini di una chiesa un vecchio zampognaro che piangeva.
E triste il pianto di un vecchio! Quello di un bimbo o di una donna, di queste creature deboli che soffrono, strazia l’anima; ma il pianto d’un uomo, un tempo robusto e che è divenuto più debole di una donna e di un bimbo, è assai, assai più triste!.
Egli volse altrove lo sguardo e cercò di trarre lontano la sua Matilde, perchè non vedesse. Ma ella vide e volle avvicinarsi.
Il povero vecchio narrò con voce tremante che, appena giunto a Napoli, due farabutti lo avevano aggredito e gli avevano tolto tutto quello che possedeva: dieci lire di carta, due lire di bronzo e la zampogna.
La signora fremette. Come avevano osato derubare quella disgraziata creatura, che volgeva intorno le grigie pupille inondate di lacrime?
— Ne avete informato la polizia? — chiese Giorgio.
Egli scosse il capo, tutto bianco.
— Come volete che alla polizia s’incarichino. di me che sono un povero zampognaro? Oh, eccellenza! non m’importa tanto delle dodici lire quanto della zampogna! La tenevo da trent’anni, era tutta la mia ricchezza! Come farò adesso, mio Dio? che dirò laggiù? Perchè, me ne dovrò tornare a casa, capite! che cosa resto a fare qui? a morire di fame? e la mia povera figlia, con quattro piccini, che aspettava questa occasione per avere un po’ di denaro!…
La giovane signora disse una parolina nell’orecchio del marito e questi trasse di tasca il portafogli.
— Eccovi le dodici lire che avete perdute, povero vecchio… non vi affliggete così…
L’altro lo guardò con un’espressione indicibile.
— Grazie, signore balbettò quanto siete buono! possiate fare un felice Natale, voi e la signora vostra!
La giovane coppia si sottrasse ai suoi ringraziamenti e lo lasciò ancora là, seduto su quei gradini.
Ma Giorgio non poteva cancellare dalla memoria l’immagine del misero che pensava alla sua zampogna. Sentiva di aver fatto troppo poco per alleviare il suo dolore. Non erano le dodici lire che egli rimpiangeva, era il vecchio strumento, tutta la sua ricchezza, il compagno di trent’anni della sua vita laboriosa. Quanto avrebbe pagato per ridarglielo!
Il giorno seguente uscì solo e lo vide ancora seduto su quei gradini. Pareva che non si fosse mai mosso di là: non piangeva più, ma guardava innanzi a sé con uno sguardo fisso e vitreo.
Lo chiamò. Trasalì, guardò ancora una volta il suo benefattore e sorrise.
Allora a Giorgio venne un triste pensiero: quel vecchio sarebbe morto lì, ucciso dal suo dolore, e bisognava soccorrerlo, ridargli la sua unica ricchezza.
— Aspettatemi tra un paio d’ore – gli disse – andò a comperare una zampogna.
Non era molto facile trovarla, come credeva da principio. Nelle botteghe non trovava nulla: interrogò altri zampognari; nessuno, naturalmente, volle cedergli la propria.
Disperava di riuscire, si stizziva, pensava con spavento a ciò che avrebbe detto al poveretto, più tardi.
Alfine, ebbe una buona ispirazione.
Andò a Piazza Francese, laggiù a Porto, dove si vende roba vecchia. Non vi aveva mai posto piede ed osservava curiosamente tutto quell’arsenale di ferri arrugginiti, di attrezzi sgangherati, di utensili di varie forme e di vario uso. Ad un tratto, diede un balzo.

Sospesa all’uscio d’una di quelle botteghe, vide una vecchia zampogna. Ne chiese il prezzo. Il venditore lo squadrava con un’aria di stupore, non sapendo intendere che cosa potesse farsene, un signore, di quell’arnese.
Giorgio riuscì ad averlo per dieci lire e l’affidò ad un monello. Erano trascorse tre ore in quella paziente ricerca e temeva di non trovare più il vecchio.
Ma egli era ancora là, guardando sempre innanzi a sè col suo sguardo fisso, vitreo.
Si riscosse alla nota voce del signore e questi gli consegnò la zampogna.
Egli si mise ad osservarla a lungo, da una parte, dall’altra, cominciò a tremare forte forte, poi si gettò in ginocchio in mezzo alla strada, per baciare i piedi di quel buon signore. Era la sua! proprio la sua! la compagna perduta!
— Siete contento ora?
— Contento? Ne sarei morto, credetemi, e voi mi avete ridata la vita, eccellenza!

Giorgio non disse nulla a casa di ciò che aveva fatto. Ma la mattina appresso sentì picchiare timidamente all’uscio. Era lui.
— Perdonate, signore: non so come esprimervi la mia gratitudine… e vengo a farvi la novena. Non voglio essere pagato, desidero solo che sentiate la voce della mia povera zampogna… non mi dite di no! Andò a collocarsi davanti ad un quadro sacro nella camera da letto, mise il cappello a terra e cominciò a suonare. A lui non occorreva il piffero, aveva unito i due strumenti in un solo, per economia. Giorgio non ricordava di aver mai ascoltato così religiosamente una musica come quella che stette ad udire, insieme a sua moglie, li, in piedi, davanti a quella immagine. Dalla vecchia pelle grinzosa della zampogna, dai forellini dei tubi di legno le note uscivano con delle rozze e primitive cadenze, con degli acuti squillanti e dei bassi profondi e solenni, in cui pareva che il vecchio mettesse tutta l’ingenua fede e la sincera gratitudine del suo cuore.

ONORATO FAVA.

Articolo tratto da: La vita italiana: rivista illustrata, Volume 1
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