IL GIUDIZIO FINALE

Dipinto di JACOPO PALMA JUNIORE, nella sala dello Scrutinio del Palazzo Ducale in Venezia.

La rinomanza, di cui godeva Jacopo Palma juniore tra i più valenti pittori, meritamente trasceglier lo fece dal senato per affidargli il lavoro d’un soggetto il più grandioso e sublime. Accingiamoci a darne una rapida descrizione, ed insieme, colla scorta d’una critica intelligente, giudichiamo, se il pittore abbia pienamente corrisposto all’espettazione.

Cominciamo dal risguardare il dipinto dal lato primieramente della invenzione.

Vedesi in capo a tutti Cristo giudice, che siede sopra un gruppo d’angeli, in atto di accennare colla destra la sede beata del cielo pegli eletti, e colla sinistra il tormentoso abisso pe’ reprobi.

Ha veste di giustizia sugli omeri svolazzante a destra, e giù procedente a sinistra ad involgere parte del braccio, e del venerabil suo corpo. Il volto e gli occhi di lui volgonsi in atto tremendo ed irato contro i maledetti. Alla destra sta la Vergine Santa, che, prostrata, prega il diletto suo figlio, colle braccia conserte al petto; alla sinistra prostrato ugualmente il Battista.

Fanno corona d’intorno al giudice inesorabile i Profeti, i Martiri, i Confessori, le Vergini; ed a destra si riconoscono a’ noti simboli Pietro, Giovanni, Andrea, Marco apostoli; i santi Antonio, Benedetto abati, e s. Francesco; i martiri Stefano e Giorgio. Alla sinistra veggonsi schierati, in alto Adamo, Noè, David –

– Moisè, Giobbe; poi Antonio da Padova, Gregorio Magno, Agostino, Girolamo. Indi Maddalena, Sebastiano, Lorenzo, Barbara, Giustina, Marina, Caterina, Lucia, Eufemia, ed altri molti celesti comprensori sino che giungesi agli ordini angelici nell’estrema e più riposta parte de’ cieli, quali in atto di adorazione, quali in atto di contemplazione verso il supremo Regnatore di tutti i viventi.

Nel piano più prossimo allo spettatore, appariscono primi nel mezzo i quattro Angeli, custodi delle regioni terrestri, ciascun de’ quali imbocca la tuba meravigliosa, il cui squillo terribile chiama gli uomini morti al giudizio. Questi si veggono al basso, in mezzo, da lungi sbucare, quali dal mare, che aveali ingoiati, quali sbalzar fuori dall’ urna, che tenevali racchiusi, quali dalla terra. Alcuni fra essi hanno già rivestite le loro carni; altri non hanno ancora assunto che i muscoli, ed altri le ossa soltanto. Sta eretta sopra di essi la fatale bilancia che dee pesare i loro delitti, nella mano dell’arcangelo Michele. Già si conosce anche avanti la sentenza dalle forme, che hanno prese, se appartengono a’ buoni, ovvero a’ tristi. Scorgonsi giovani e belli i primi, deformi e schifosi i secondi.
Muovonsi tutti incalzati dall’irresistibil suono della tromba verso l’arcangelo. Questi scrutina i meriti e le colpe. I buoni, ringraziando l’Eterno procedono pel sentier a dritta, che mette capo al cielo. Scendono gli angeli custodi di quelle anime elette per reggerle nel volo al paradiso. Ciò avviene con varietà d’incontri, e di atteggiamenti: ormai già questa tocca il limitare celeste; l’altra è ad esso vicina, un’altra prega per giungervi presto.

Più abbasso, i risguardanti restano spaventati alla vista di que’ miseri, la cui condanna è fissata. Ne sono segno due Angeli esecutori della divina giustizia, che coll’ultrice spada gl’ incalzano verso l’avvampante voragine. Alcune di queste anime infelici vengono particolarmente dal pittore distinte, l’ una piomba capovolta con ambe le mani aperte indizio di prodigalità, l’altra tutta nuda, indizio di avarizia. L’anima d’una donna dissoluta, mostrasi in singolar modo da’ demoni avvinghiata. Questa, a sinistra, fa contrapposto con un’altra, a destra di bellissima sembianza, la quale colle mani conserte al petto, tutta piena di giubilo si avvia alla patria celeste. Dicono taluni, che il pittore abbia voluto in questa raffigurare la propria amante; e nell’ altra che va tra i dannati, colei che verso lui fu sleale.

Non può negarsi, che la fantasia pittorica non avesse qui uno de’ campi più vasti per ispaziare in un mondo senza limiti, ma per sventura trascurò l’artista di cogliere tutti i vantaggi, ragione per cui al Tintoretto diè giusto motivo di censurarlo, col chiamare farragginosa la di lui composizione. E primieramente, Cristo giudice in questo giorno del suo furore e delle sue vendette non comparisce con tutto l’esteriore di quella terribile maestà, colla quale significano le sacre pagine, che dovrà pur comparire. Non v’è il trono, in cui dee sedere tra sfolgoranti splendori. Manca il segno trionfale della Croce, per la cui vista devono riempiersi di confusione e di terrore tutte le tribù della terra.
È fuor di tempo ed insieme di verità quel presentar Maria santissima, ed il Precursore Battista in atto di pregare. Quello è giorno di giustizia, o di beatitudine eterna pegli eletti, ovvero eterno fuoco pe’ condannati. Questi due sono termini fissi assolutamente.
Quanto poi agli stuoli de’ Beati, che fan corteggio al giudice supremo, sono questi stranamente scelti, più stranamente distribuiti. Dopo Giobbe perchè viene Antonio di Padova, indi Gregorio Magno? Trovansi tra le vergini frammischiati i martiri. Che fa s. Giorgio, il quale in bizzarra positura brandisce la lancia a cavalcione d’una nube? Perchè dimenticar s. Paolo il vaso di elezione? In generale affermarsi potrebbe, che il quadro intero manchi di unità e coerenza.
Rappresenta il giudizio universale: dunque tutti i peccati, siccome tutte le opere buone devono essere fatte palesi agli occhi di tutto il mondo. Ma qui propriamente il giudice non sembra Cristo il figlio di Dio, ma sibbene l’Arcangelo che colle bilancie pesa le azioni degli uomini.
Questo esame ancora non si fa dinanzi agli occhi di tutti; poichè quando la loro sorte è decisa per molti, che veggonsi o volare verso la patria celeste, o, al contrario, piombare negli abissi; scorgesi da lunge un’ altra gran moltitudine che allora allora risorge; poi se ne scorgono uscire tuttavia dal mare, e da’ sepolcri, e non pochi fra essi essere nell’ atto di rivestire le carni e le ossa. Queste anime non hanno veduto nè udita la sentenza delle altre.

Ma, posti per veri tutti i difetti notati, domanderassi come, ciò non ostante, il dipinto sempre siasi in pregio tenuto sì alto, che il Boschini giunse a chiamarlo opera maravigliosa! Facile è la risposta. Palma il giovane avea impressi dinanzi alla fantasia i bei modelli di Roma, ed il vivace colorito di Venezia. Egli dà a divedere la sua anatomica scienza nell’offrirci bellissimi ignudi di ambi i sessi; robusto e splendente il colorito. Perciò si distinguono i piani con giusta degradazione, sono trasparenti le ombre, impastate le carni.

Nel chiudere poi questa descrizione, non dobbiamo omettere, che in mezzo del quadro, nella parte interiore di esso, è incavata una tavola di marmo vicini alla quale appariscono primi i 4 Angeli, che imboccano la terribil tromba. Su quella leggesi un’iscrizione che dell’intutto dee giudicarsi sconvenevole al terribile soggetto del quadro, ed importuna pel luogo dove vedesi collocata. L’argomento della inscrizione si ricava dalla prima linea dalla quale comincia: Qui patriae pericula suo periculo expetunt hi sapientes putandi sunt.
S’aggira tutta cioè sull’amore della patria, e sul merito di quelli, ch’espongono per essa la propria vita. Ciò va bene, ma si potrebbe ripetere quel detto di Orazio: Et fortasse cupressum?.. ec. quid hoc. Dalla altezza delle idee celesti, rotta ogni illusione, siamo tanto più trascinati alle cose terrene e caduche, perché la tabella vedesi sormontata dallo scudo gentilizio del doge Francesco Foscari, sotto cui fu compiuta e decorata questa sala.
Noi lodiamo che si abbia voluto serbarne memoria, ma non lodiamo, che ciò abbiasi voluto fare frammischiando cool’inferno e col paradiso.

(G. P.r B.)

Articolo tratto da: L’Emporeo artistico-letterario, ossia Raccolta di amene lettere, novità…
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