L’OLIVO DI NONNO CENCIO

Angelo Gatti

« Se Gesù avesse pietà di lei le salverebbe il figliolo; non le era rimasto che quella creatura a consolarla della morte d’altre due e del marito! ».
Il malatino rantolava penosamente nella penombra della stanzuccia; il respiro gli usciva dal petto come da un mantice e la febbre gli bruciava la pelle arida e dura.
Tratto tratto delle spasmodie convulsive agitavano quel povero corpicciolo, quasi l’avessero toccato i conduttori d’una corrente elettrica, e allora la madre s’affannava a tenerlo quieto, a ricoprirlo con le coltri lacere, a ninnarlo con la voce, mentre i singulti le rompevano la cantilena ad ogni istante e le lacrime le rigavano le guancie.
Comare Santa spinse l’uscio socchiuso e susurrò: – Come sta?
– Ah, comare Santina, e che lo so? Brucia come un ferro rovente, smania, trema come se fosse ammaliato e mi dà in ciampanelle. O Vergine, questo è uno strazio troppo forte!
– Via, non vi disperate in cotesta maniera; Gesù e Maria ve lo guariranno, non dubitate. Date retta a me, è meglio raccomandarsi a loro e dire un po’ di corona.
Comare Caterina s’asciugò gli occhi col grembiale, rincalzò le coltri al figliolo e cavò di tasca il rosario, dicendo mentre s’ inginocchiava: per me andrei a Roma ginocchioni se fossi certa d’avere la grazia. E voi, Santina, siate benedetta, che ora mi parete l’angiolo custode, … in nomine patri et filii, …
– et spiritus sancti, amen; in questo modo s’ha a reggersi l’un l’altro,
Ave Maria gratia plena, … oh se potessi vederlo guarito!
– Guarirà non dubitate, Sancta Maria Mater dei. … O il medico l’avete chiamato?
– Sicuro, fino da ieri; ma con noi poveretti ognuno fa il suo comodo, Gloria patri. …
– Chetatevi, non parlate a questo modo, ora che si dice l’orazioni; poveretto, anche lui ha molto da fare, c’è tanti malati!
Pater noster qui es. …
Il bambino interruppe il chiacchiericcio e le preghiere mettendosi a gridare e sobbalzando in guisa che quasi ruzzolò dal lettuccio. Le donne spaventate lasciarono cadere le corone per correre a trattenerlo e quietarlo.
– Mamma, gridava il poverino, mamma, mandali via, mandali via! …
Sta bonino, amore, vedi son qui da te.
– Mandali via, mandali via!
– O Signore! no caro, dà retta alla mamma non c’è nessuno.
– Mandali via, la casa è piena di soldati, piovono dal palco coi fucili… mi pigliano… ho paura!
– O Vergine aiutatemi! … Santina gli è belle ito. Sta quieto amore, c’è qui la mamma tua, c’è la Santina, vedrai che vanno via.
– No che non vanno via, … c’è una buca in terra, una buca nera, … e mi vogliono buttare di sotto, mamma aiuto, … o mamma!
La Caterina si cacciava le mani ne’ capelli, singhiozzando: – è ito, è ito; e la Santina le dava sulla voce, mentre anche lei procurava d’acquietare il malatino facendogli carezze e mormorava: – date retta o Caterina, non vi spaventate, è la febbre che lo fa dare in ciampanelle. Piuttosto che disperarsi è meglio segnarlo; via pigliate un po’ d’olivo benedetto e bruciatelo.
– Ma se lo dico che tutte le mi vanno alla rovescia esclamava la Caterina, non me n’è rimasto punto punto.
– Oh fece la Santina sconcertata, anch’ io l’ho finito, e fu quando venne quel tempaccio il mese scorso.
– E a chi si ricorre ora? La Cura è tanto lontana e qui presso non vi sono case.
– Chetatevi – l’interruppe contenta la Santina, – Signore vi ringrazio che ho trovato chi ha l’ulivo; quassù dalla fonte v’è nonno Cencio; lui n’ha di certo perchè glie n’ho visto un gran ramo a capo del letto, e sarà forse un par di settimane, andate a chiederne un pochino.
– Per me andrei – diceva l’altra titubando, ma mi fa paura; che vorreste andar voi Santina? Dio vi benedirà.
– Chetatevi – gridò la Santina con vivacità, ma si corresse tosto e proseguì con voce più rimessa: – V’è bisogno di dirlo? Vado subito, e voi fatevi coraggio, or ora sarò qui.
E frettolosa uscì dalla stanzuccia e si mise a correre verso la casa di nonno Cencio, mentre la Caterina si rimetteva a pregare, confortata alquanto della quiete succeduta al delirio, e più ancora dalla fiducia in quell’olivo con che segnare il bambino.
– O nonno Cencio, siete in casa? – gridò la Santina appena fu presso la casuccia.
– Chi è, – rispose dal di dentro una voce ruvida.
– Son io, sono la Santa.
La porticciuola s’aperse e nonno Cencio apparve sulla soglia. Il suo corpo, ancora robusto a dispetto degli anni, era incorniciato dallo sfondo nero della stanzetta, che faceva risaltare le ciocche bianche dei capelli e la candida collana di barba, piovente dalle guancie e dalla gola.
– Che cosa volete – egli domandò.
– Mi raccomando alla vostra carità, per i vostri poveri morti. C’è il figliolo della Caterina che sta male, noi si voleva segnarlo, ma per l’appunto non s’ha più un briciolo d’olivo benedetto e se voi…
– No, – tuonò nonno Cencio, – non ve ne darò manco una foglia.
– Oh nonno! – riprese supplice la Santa, – abbiate carità per quella povera donna che si vede morire il figliolo.
– No ripetè il vecchio, – no, se anco si trattasse di salvare l’anima sua, – e nel dir così il suo volto divenne sì minaccioso, che la Santa scappò via impaurita, mentre brontolava fra sè: Oh che birbante! Oh che birbante!
E ora chi salva quel povero figliolo?
Nonno Cencio, non appena la donna si fu scostata d’un passo, sbatacchiò l’uscio in modo da fracassarlo, cacciò il paletto negli anelli e tornò presso il focolare.
Bruciare il suo olivo! egli pensava; se il papa gliel’avesse chiesto per celebrare la Pasqua avrebbe ricusato. Erano cinquantasette anni che pendeva da quel chiodo, e lui aveva fatto voto di non staccarlo mai.
Ogni foglia caduta l’aveva raccolta con diligenza, con venerazione, e l’aveva deposta in un sacchetto appeso lì sotto sì che non n’aveva perso una sola. Bruciarlo! E per chi? Per quel ragazzo moccioso? Che!
E nonno Cencio, accostandosi al letto e guardando quella reliquia conservata con riverenza superstiziosa, tremava come un paralitico e rivedeva un passato, già lontano più che mezzo secolo. Il tempo aveva bensì potuto cancellare tanti ricordi dalla sua memoria, ma quello era sempre vivo, e gli faceva scorrere il sangue per le vene, come quando aveva vent’anni.
Poi l’occhio vivido del vecchio si spense e diventò vago come quello d’un estatico; nonno Cencio era preda d’una fantasmagoria di rimembranze, ravvivate da comare Santa, le quali si destavano una dopo l’altra, come al più lieve spiro di vento si ravviva il fuoco covante sotto la cenere.
Cinquantasettanni prima d’udire una domanda cotanto aspra, i pensieri di nonno Cencio s’erano rivolti, quasi per intero, ad una meteora politica, che ora è diventata come leggenda.

La fortuna guerresca di Napoleone I s’era spenta nell’esilio all’Elba, ma quell’eroe era tuttavia vivo sebbene umiliato, tanto vivo che in que’ tempi di mania bellicosa non v’era giovane il quale non anelasse di rivederlo, o almeno di saperlo ancora imperatore e fulmine di guerra, come ad Austerlitz, e a Wagram.
Le rapide fortune militari di Murat, di Bernadotte, di Junot erano tuttavia l’invidia e lo sprone della gioventù; per l’Europa volava come un alito di quell’aura che agitò le penne piantate sui moriori de’ cavalieri del re Artù. Non era più la lotta contro i Saracini a incitare gli animi, non le spavalderie cavalleresche per la dama; era invece la potenza irresistibile d’una volontà di ferro, che creava gli eserciti e portava la vittoria in ogni dove.
Nonno Cencio allora era un robusto giovanotto imberbe, che coltivava i campi ne’clivi aprichi del Valdarno, che in que’ giorni erano tuttavia romiti e privi de’ mezzi di comunicazione odierni, cioè gazzette e ferrovie; ma la magia del nome di Napoleone aveva vinto le distanze e le strade malagevoli, portando anche in quelle pendici appartate l’eco de’ fasti del leone corso, resi più maravigliosi dalle frangie attaccatevi dall’ammirazione superstiziosa delle genti.
L’impero era caduto, Napoleone viveva nell’isola d’Elba, circondato dai frantumi di quel potere che i vincitori per anco non avevano osato di togliergli, ed ai popoli ingenui delle vallate quello spegnersi repentino d’una gloria creduta eterna pareva una calunnia ed un inganno. Fra i giovanotti erano vivi il desiderio e la speranza di sapere risorto il gigante, mentre fremevano ascoltando il racconto delle battaglie dalla bocca de’ rarissimi tornati dal disastro di Russia.
Cencio pertanto s’era entusiasmato per Napoleone ed in tale misura da fondare le speranze del suo avvenire sopra il probabile risveglio di quella potenza. Egli era un povero bracciante orfano, ma la povertà non gli aveva impedito di subire il fascino comune a tutti i giovani, il fascino dell’amore.
Sotto i lunghi filari degli olivi, oppure in mezzo alle distese di spiche egli vedeva ogni giorno e per tutto il giorno la figlia di Michele, l’agiato coltivatore presso di cui lavorava. Le feste egli l’aspettava sulla piazzetta della chiesa per vederla entrare ed uscire dalla Messa, scegliendo ogni volta una bella rosa ovvero un garofano vistoso da incastrare fra l’orecchio e la tempia; ma tutte le sue gioje si fermavano a quel punto, perchè a lui povero non era lecito di discorrere colla figlia di Michele. E mentre gli altri giovanotti s’allontanavano dalla chiesa per accompagnare la dama a casa, egli seguiva da lungi la figlia di Michele, pensoso e malinconico, invaso dal triste cruccio di non poter chiedere la mano della sua Lucia.
Però la giovane non era rimasta indifferente alla lunghe occhiate di Cencio. Quando a desinare ed a cena gli porgeva la minestra, aveva cura che la scodella fosse ben colma e frattanto lo guardava di sottecchi per non farsi scorgere dal padre e per non far cacciare dal podere quel poveretto, cui mai aveva osato parlare di cose che non sapessero di mietitura e di vendemmia.
Un giorno mentre Cencio coglieva fichi sulla ficaia piantata a ridosso della cinta del podere, la vide venire e mettersi a far l’erba proprio lì sotto, cantando come una calandra.
Cencio era uno de’ più famosi stornellatori de’ casali all’intorno, e nelle cocenti giornate estive la sua voce poderosa distraeva gradevolmente i bifolchi ed i coltivatori. Spesso aveva stornellato da solo intorno al suo amore senza speranza; ma in quel giorno, quando si vide senza testimoni presso alla Lucia, si senti invaso da una brama sfrenata di sfogare la passione con un diluvio di rime, nascesse quello che voleva nascere.

Fiore di trifoglio.
Son poveretto e so che poco i vaglio,
ma se sapeste il bene che vi voglio!

Fiore d’acanto
Voi siete il sole del mio firmamento,
ed io del bene ve ne voglio tanto.

Ma presto Cencio si fermò a riprendere fiato, poichè lo sforzo e la commozione lo avevano sopraffatto, e sentì che gli stornelli continuavano a volar per l’aria, alzandosi da quel prato, che egli avrebbe percorso a carponi perchè Lucia lo pestava co’piedi. La Lucia dava la stura a’ suoi pensieri stornellando a sua volta:

Fiore di menta.
L’amor mio s’è nascosto in una pianta,
lo chiamerò finchè il mio canto senta.
Fiore fiorello.
Che abbia i quattrini non m’importa nulla,
se non è ricco è però buono e bello.

Cencio all’udire l’ultimo verso si senti dare un tuffo al sangue, e guardò la ragazza che continuava a cantare raccattando manate d’erba, poi non potendo più stare alle mosse, urlò con quanto n’ aveva in canna:

Fiore di rosa.
Quant’è vero il Signor, cara Lucia,
vi giuro che sarete la mia sposa
.

Il vento frattanto era entrato a fare da terzo incomodo, ma se era sua intenzione di portare all’orecchio di Michele il suono degli stornelli, per quella volta la fece bassa; i cantori s’erano taciuti, confusi del tanto cammino percorso ad un tratto.
Cencio fissava la paniera colma di fichi e si domandava che cosa doveva fare. Restare lassù sull’albero? Tanto gli girava la testa e v’era il caso di dare uno stramazzone; era meglio scendere.
Si calò adagio adagio fino a terra, posò il paniere, guardandolo come per chiedergli le parole che non trovava, indi fregandosi i fianchi con le palme, s’accostò alla giovane, che continuava a far l’erba, e le disse:
– Sentite, Lucia, io gli è vero che vi vo’ bene più che alla luce degli occhi, ma vostro padre non vi vorrà dare mai a uno, che com’io, vive sulle braccia. Ho bell’e deciso: Napoleone è scappato dall’ Elba, è tornato a casa sua, là in Francia, di dove l’avevano mandato via, e sapete, con lui si fa sempre la guerra per davvero, e io vi prometto che tornerò presto ufiziale. Io vo’ via, vo’ a farmi soldato, e voi m’aspetterete se è vero che mi volete bene. Voi m’aspetterete, vero?

Ohooo! … Luciaaa… !

Il babbo mi chiama esclamò la ragazza rizzandosi in fretta e disponendosi a tornare a casa, e soggiunse – questa sera potremo parlarci dopo cena presso al bindolo.
E corse via voltandosi indietro ad ogni tratto, mentre Cencio si buttava sul prato e nascondeva tra l’erba fresca la faccia infocata.
Il proponimento d’andare soldato da un pezzo si frametteva ai pensieri di Cencio.
I racconti uditi da un veterano tornato invalido dalla Beresina, insieme all’ammirazione per Napoleone e per i suoi soldati, gli avevano pure fatto nascere il desiderio di prendere parte a tanta gloria.
Quando poi il suo amore spuntò e crebbe, allora, convinto che il suo era un sogno senza speranza di cambiarsi in realtà se non avesse mutato condizione, pensò più volte di dare un addio all’ aratro, alla marra, ai solchi, per andare con Napoleone. Tanti erano morti, ma altri erano tornati, dunque il rischio si poteva tentare.
E nella foga della mente inesperta, che mandava un fiotto d’idee tumultuose a cozzare nel suo cervello, s’immaginava d’essere già soldato, di combattere, di vincere, di vedere Napoleone attaccargli al petto la croce della Legione d’Onore; s’immaginava di vedersi promosso ufiziale e di tornare al suo paese, guardato con rispetto da tutti.
Che giorno, pensava nel trasporto di quel sogno ridente, che giorno doveva essere quello in cui, vestito dell’assisa coperta di galloni e di medaglie, si sarebbe presentato a Michele per chiedergli sua figlia in moglie. Allora Michele non avrebbe messo nessun ostacolo alla loro unione, anzi avrebbe fatto Gesù con cento mani, vedendo che po’ po’ di fortuna toccava alla sua figliola.
E l’ammirazione de’ compaesani, che prima pareva manco s’accorgessero che lui era al mondo? Eh! allora si sarebbero sberrettati tutti in sua presenza. E lui a salutarli, a chiamarli per nome, a dire a Menico che andasse a pigliare un di que’ fiaschetti che sapeva lui. Si figurava di raccontare le battaglie viste, le città nelle quali era entrato con l’arme in pugno, lo scontro in cui un nemico gli aveva fatto quella ferita nel viso, mentre lui l’inchiodava al suolo con la baionetta.
Gli sembrava d’udire un concerto d’esclamazioni di stupore; s’atteggiava, ridendo da sè a sè come se avesse avuto davvero la sciabola, beato d’essere fissato con tanto d’occhi da Lucia, d’essere giunto a toccare la sua meta.
Così di fantasia in fantasia, s’era abituato a tenere come fatti avvenuti i suoi sogni, e nel suo cervello si ribadiva ognora meglio la sua decisione di farsi soldato. Soltanto aspettava l’occasione d’aprirsi con la ragazza, e poichè la fortuna volle farlo contento, non volle differire l’esecuzione del disegno.

Tre dì appresso Cencio partiva alla volta della Francia per arrolarsi volontario e correre dietro all’ ultimo balzo del colosso mortale. Parti portando seco alcune foglioline staccate da un ramo d’olivo benedetto che Lucia gli aveva donato perchè lo guardasse dai pericoli, e che egli appese a capo del letto nella sua casuccia, come a far fede del giuramento de’ giovani.
Ma i sogni di gloria, le speranze d’amore vagheggiate da Cencio, dovevano subire una disfatta completa ne’ campi di Waterloo.
Napoleone era vinto da Wellington, gli alleati entravano in Parigi, e l’astro era relegato sullo scoglio di Sant’Elena, ad espiare la colpa gloriosa delle sue vittorie.
Cencio tornò a casa dopo otto mesi d’assenza; tornò sconfortato, avvilito, e appena giunto trovò ad aspettarlo il colpo più forte d’ogni altro. Lucia era stata costretta dal padre a sposare il figlio del ricco fattore Furtunato, il quale, divenuto fattore anch’esso, era andato a stabilirsi alla Vallombrosa.
Da otto mesi nessuno aveva udito gli stornelli ed i rispetti di Cencio, ma anche dopo che fu tornato la sua voce non si levò più dai campi pieni di sole e di vaghezza. I fiori di prati e delle siepi più non andarono ad agonizzare fra l’orecchio e la tempia di Cencio: Cencio divenne cupo, ruvido, solitario. Serrò lo spasimo in sè stesso consacrando ogni cura a conservare la mummia del suo amore, il ramo inaridito dell’olivo, che lasciava cadere di tanto in tanto una fogliolina accartocciata su quel letto, che doveva essere un talamo ed era rimasto il covacciolo d’un misantropo.

E dopo cinquantasette anni egli s’era udito chiedere quella reliqua per arderla: dopo cinquantasette anni di culto egli avrebbe dovuto profanarla? Che discorsi!
Lucia era morta da molti anni: oh se la sua Lucia fosse stata sua davvero egli avrebbe avuto de’ figliuoli, de’ nipoti, non sarebbe invecchiato solo come un cane, malvisto da tutti per la sua asprezza abituale!
Nonno Cencio si sentiva ardere la fronte. Si rizzò lentamente ed usci di casa serrando con violenza la porticciuola sconnessa.
S’incamminò per la strada bianchissima, stampando orme profonde sul polverume soffice che calpestava, e che volando qua e là andava a ricadere sull’erba del fosso e sulle siepi. Scorgeva da lungi una nube di polvere che gli veniva incontro radendo il suolo, dentro la quale si intravedevano le forme indecise d’una donna. Quando le fu presso riconobbe la Santina, la quale correva trafelata, esclamando con voce interrotta: – Oh povero figliolo! oh povera donna!
Nonno Cencio si fermò su’ due piedi e domandò: – che cosa c’è?
– C’è – l’ altra rispose – che quel poverino è spacciato. Ah se voi aveste avuto un po’ di carità per quella povera vedova! … – E senza finire si rimise a correre.
Nonno Cencio si sentì sconvolgere tutto da una specie di rimorso e – comare Santa – gridò – fermatevi, l’olivo ve lo darò.
– Siate benedetto – rispose quella tornando indietro – ma fate, fate presto per carità.
Il vecchio tornò in casa a precipizio, montò sopra un panchetto e staccò alcuni ramicelli del suo olivo, poi, senza badare alla Santa, che diceva d’essere capace di portarli da sè, tornò fuori in furia, e si diresse verso la casa della Caterina.
Quando esso e la Santa entrarono il bimbo s’agitava gemendo e la madre lo abbracciava, lo baciava, pazza di dolore. La Santa disse: – Via, ora fatevi coraggio, chè l’olivo s’è trovato, l’ha portato il nonno da sè, e vedrete che il figliolo guarirà.
– Presto, presto – brontolò nonno Cencio – datemi la paletta, lo brucierò io.
E quel vecchione dal corpo erculeo prese l’olivo senz’ascoltare le benedizioni della Caterina, lo spezzò, riunì i frantumi in un mucchietto sul piatto della paletta, indi vi diè fuoco. Poi segnò il malato, tracciando gran segni di croce per l’aria col fumo azzurro che profumava la stanza. Quella figura rigida e seria, con gli occhi levati al cielo, sembrava un profeta intento ad offrire un sacrifizio a Jehova.

La fede non ha occhi per la realtà, e la fede fece vedere a que’ esseri, che spiavano ansiosi il malato, come un’espressione di pace spargersi a poco a poco sul volto del bambino, via via che i fuscelli si dileguavano in fumo. E quando l’ultimo tizzoncino su spento, essi si riunirono attorno al lettuccio, ponendo mente al respiro più calmo del fanciullo, muti, ma confortati dalla speranza rinascente.
Al di fuori la calma estiva ninnava il sonno del bimbo con un concerto stridente di cicale.
Ma poi s’udi giungere il tintinnio lontano d’una sonagliera, che si faceva ognora più distinto, finchè cessò di botto davanti alla casuccia.
Entrò il medico. S’accostò in fretta senza salutare, senza parlare: guardò gli occhi e la lingua del bimbo, gli tasto i polsi, il corpo, indi scrisse sul suo taccuino. Poi staccò il foglietto su cui aveva segnata la ricetta, e lo porse alla Caterina dicendo: – animo, animo; è un febbrone ma non c’è pericolo, e questo figliolo è sano; fra una settimana farà da capo il chiasso per la strada purchè lo teniate riguardato e gli facciate prendere questa roba.
– Dio sia lodato – esclamò comare Santa, baciando divotamente il crocifisso che pendeva dal suo rosario. La madre non ebbe voce per Cencio parlare e si buttò ginocchioni piangendo.
Ma nonno Cencio, poichè ebbe udito come il medico dava per guarito il fanciullo per via della ricetta, senza tener conto della benedizione data col suo sacrosanto olivo, gli scagliò un’occhiata torva e uscì sgarbatamente tornando tosto a casa.
Appena fu entrato si buttò sul letto cacciando il capo fra le coltri e pensando che non valeva la pena di sacrificarsi per nessuno. Ma tra le idee che gli turbinavano nel capo agitato da un fiotto di dolore iroso, gli passò davanti agli occhi l’immagine della sua Lucia, quale era dato a sognarla da poi che era morta. La vide curva a pregare, in quell’atto istesso in cui l’aveva lasciata mentre andava a farsi soldato, e l’ira gli cadde dall’animo; e guardando con gli occhi lacrimosi il ramo d’olivo mormorò: – il medico è un eretico, quel figliolo l’ha guarito l’olivo della mia Lucia.

Ciampanelle – vaneggiare, dire o fare cose strane o assurde.
Moriori – Corvus moriorum era un uccello passeriforme estinto della famiglia Corvidae.
Aprichi – Aperto soleggiato
Covacciolo – Luogo di rifugio


Angelo Gatti (Capua, 9 gennaio 1875 – Milano, 19 giugno 1948) è stato un generale, saggista e romanziere italiano.