IL TIZIANO PERDUTO

“Una bugia con una circostanza”.

WALTER SCOTT

L’ultimo tocco era stato dato. Il grande pittore si trovava di fronte al capolavoro dell’epoca, il capolavoro della sua vita.
Non c’era più nulla da aggiungere. Il drappeggio arancione era perfetto nella sua intensità di colore simile a quella di un frutto; ogni foglia di vite era ricurva, ogni viticcio contorto, come sventolato dal soffice vento del sud; la luce del sole covava sonnolenta su ogni buca e su ogni altura rigonfia: ma una sonnolenza dieci volte maggiore dormiva nelle ombre dei cedri. Guardate un attimo, e quei cembali devono suonare, quella pantera avanzare; avvicinatevi, e il canto di quelle labbra mature e vinose deve diventare udibile.
Il traguardo della sua vita brillava sul cavalletto e Tiziano era soddisfatto.
Accanto a lui, testimoni del suo trionfo, c’erano i suoi due amici: — Gianni, l’affermato, e Giannuccione, la delusione universale.
Gianni era il secondo a Venezia; secondo nella maggior parte delle cose, mai primo in nulla. Il suo colorito impallidiva solo di fronte a quello dell’illustre rivale, la cui supremazia, tuttavia, egli ostentatamente rivendicava. Così come in altre questioni. Solo il rinomato Messer Cecchino era un cantante più altisonante; solo il Principe Barbuto, mangiatore di fuoco, è uno spadaccino migliore; solo Arrigo il Biondo un ballerino più fine o una bellezza più scultorea; Persino Caterina Suprema, in quella gara di galanteria che è stata celebrata da tante penne e matite, pur assegnando la rosa d’onore a Matteo Grande, l’arguto, staccò una foglia per tutti tranne per l’affermato Gianni.
Un passo dietro di lui ciondolava Giannuccione, che aveva promesso tutto e non aveva adempiuto nulla. All’apparizione del suo primo quadro — ‘Venere che frusta Cupido con piume strappate dalla sua stessa ala’, — Venezia risuonò delle sue lodi e Tiziano presagì un rivale; ma quando, anno dopo anno, le sue opere apparvero ancora riluttamente imperfette, sebbene sempre quasi perfette, Venezia si placò in un silenzio apatico e Tiziano sentì che nessun successore al suo trono aveva ancora raggiunto la porpora.
Così questi due erano al fianco del grande maestro nell’ora del suo trionfo: Gianni il vistoso, e Giannuccione caloroso, nei suoi applausi.
Solo questi due stavano con lui: ancora Venezia non sapeva cosa avesse prodotto il suo favorito. Si diceva, infatti, che Tiziano fosse da tempo al lavoro su un dipinto che egli stesso considerava il suo capolavoro, ma il suo soggetto era segreto; e mentre alcuni ne parlavano come di un’indubbia Vendemmia di uva rossa, altri sostenevano che si trattasse di una Danza di ninfe dei boschi, mentre un vecchia pettegola sussurrava che, qualunque altra cosa potesse contenere il dipinto, sapeva di chi sarebbero stati i capelli color tramonto e la fronte bianca in primo piano.
Ma l’ignoranza generale contava poco; perché, anche se le parole avrebbero potuto dare un nome al tema, nessuna parola avrebbe potuto descrivere un quadro che combinava la morbidezza del petto di una colomba con l’intensità di un tramonto di ottobre: un quadro in cui la luce quasi scaldava, e i frutti in realtà fiorivano e tentavano.
Tiziano guardò la sua opera e ne fu soddisfatto: Giannuccione guardò l’opera dell’amico, e fu soddisfatto: solo Gianni guardò l’amico e la sua opera, e fu invidiosamente insoddisfatto.
‘Domani’, disse Tiziano, — ‘domani Venezia vedrà ciò che ha a lungo onorato con la sua curiosità. Domani, con musica e festa, l’ignoto sarà svelato; e voi, amici miei, ritirerete il sipario.’
I due amici acconsentirono.
‘Domani’, continuò, mezzo divertito, mezzo pensieroso, ‘saprò di chi saranno le sopracciglia bianche aggrottate e le labbra rosse di chi saranno imbronciate. Bene, avranno il loro turno: ma gli occhi azzurri non sono sempre di stagione; anche gli occhi nocciola, come le nocciole, hanno la loro stagione’.
‘È vero’, disse il coro.
‘Ma stanotte, continuò, dedichiamo le ore alla sacra amicizia. Proviamo con canti e canzoni i festeggiamenti di domani, e lasciamo che le vostre congratulazioni prevengano i trionfi’.
‘Sì, evviva!’ restituì il coro, vivacemente; e ancora ‘evviva!’
Così, con sorrisi e abbracci, si separarono. Così si incontrarono di nuovo al gradito arrivo della notte ‘dagli occhi di Argo’. (avere gli occhi acuti, vigili).
Lo studio era elegante con mazzi di fiori, sontuoso con tendaggi cremisi bordati d’oro e lussuoso con cuscini e profumi. Dalle pareti facevano capolino frutti raffigurati e facce simili a frutti, tra le tende e negli angoli brillavano statue color chiaro di luna; mentre sul cavalletto riposava la bellezza della sera, sovrastata da rami in boccio, e illuminata da una lampada di alabastro che bruciava olio profumato. Sparsi per l’appartamento c’erano strumenti musicali e mazzi di carte. Sul tavolo c’erano piatti d’argento, pieni di foglie e frutti di prima scelta; meravigliosi vasi di vetro veneziano, contenenti vini rari e acque ghiacciate; e calici senza piede, che non lasciavano altra scelta all’ospite che scolare il suo bicchiere.
Quella notte i bicchieri traboccarono. Brindisi dopo brindisi si beveva al successo del domani, all’esaltazione della bellezza svelata, al trionfo del suo autore.
Alla fine Giannuccione, arrossato e frizzante, si levò: ‘Beviamo,’ esclamò, ‘al successo del nostro ospite domani: che sia maggiore del passato, e minore del futuro!’

‘Non è così,’ rispose improvvisamente Tiziano; ‘non è così: sento la mia stella giungere al culmine.’ Lo disse gravemente, spingendo indietro la sedia e alzandosi da tavola. Il suo spirito sembrò in un momento svanire, e divenne pallido alla luce della luna. Era come se la piaga del malocchio fosse caduta su di lui.
Gianni vide la sua inquietudine e si sforzò di rimuoverla. Prese un liuto dal pavimento e, accordandolo, esercitò la sua abilità nella musica. Strappava alle corde grida di passione, desolati singhiozzi, un lamento come di “uno abbandonato”, lamentoso, toni tenerissimi come di solitario passero. L’incantesimo funzionò: una vaga inquietudine si stava sciogliendo in una deliziosa malinconia. Raddoppiò i suoi sforzi; estraeva note tintinnanti e gioiose come i piedi dei ballerini; battè note come fuoco e, unendo la sua voce allo strumento, cantò le glorie di Venezia e di Tiziano. La sua voce, piena, suadente, esultante, vibrava per la stanza; e, quando cessò, i ‘bravo’ dei suoi amici risuonarono in un coro entusiasta.
Poi, più agitato dello schiocco di nacchere su dita abili; più affascinante, più inquietante del sonaglio di un serpente, risuonò la musica della scatola dei dadi.

La posta in gioco era alta, sempre più alta; la marea della fortuna si diresse costantemente verso Tiziano. Giannuccione rideva e giocava, giocava e rideva con sconsiderata bonarietà, raddoppiando e raddoppiando apparentemente a casaccio le sue puntate. Alla fine, però, si fermò, sbadigliò, posò i dadi, osservando che gli sarebbe costato ben sei mesi di lavoro duro per ripagare le sue perdite – un’osservazione che suscitò uno strano sorriso di sottigliezza parte dei suoi compagni — e, tornando a sdraiarsi sui cuscini, si addormentò profondamente.
Anche Gianni era stato un perdente: Gianni l’imperturbabile, che vinceva e perdeva allo stesso modo con mano ferma e colore uniforme. Diceva che una sera perse, riconquistò, perse ancora, e infine riconquistò impassibile tutto il suo patrimonio: abbandonando infine solo il gioco, che lo affascinava, ma non poteva eccitarlo, per mancanza di avversario.
Allo stesso modo ora gettava i suoi averi, freddamente come se fossero di un altro, a pezzi nell’abisso. Prima se ne andarono i soldi, poi la sua collezione di schizzi scelti; seguirono la sua gondola, il suo vasellame, i suoi gioielli. Finiti questi, per la prima volta rise.
‘Andiamo,’ disse, ‘amico mio, lanciamo il getto del coronamento. Scommetto io stesso; se vinci, puoi vendermi domani al Moro, con il resto del mio patrimonio; vale a dire, una casa, contenente vari articoli di arredamento e abbigliamento; sì, se altro mi rimane, anche questo scommetto: contro questi poni la tua bellezza appena nata, e lanciamo per l’ultima volta; perchè non si dica a Venezia si usino i dadi truccati, e che io sia schernito con il vero proverbio: — ‘Salvami dai miei amici e mi prenderò cura dei miei nemici.’
‘Così sia’, rifletté Tiziano, ‘Quantunque. Se guadagno, il mio amico non soffrirà; se perdo, non posso che ricomprare il mio tesoro con le vincite di questa notte. Tutto il suo patrimonio servirà a Gianni più del mio quadro; la fortuna mi favorisce. Inoltre, può solo darsi che il mio amico scherzi e metta alla prova la mia fiducia’.
Così argomentava Tiziano, riscaldato dal successo, dal vino e dal gioco. Ma per questo, avrebbe liberamente restituito la fortuna del suo avversario, anche se fosse stata decuplicata, e di nuovo decuplicata, piuttosto che rischiare il lavoro di una vita nell’azzardo dei dadi.

Lanciarono.

La fortuna era girata e Gianni aveva avuto successo.
Tiziano, non dubitando, rise alzando lo sguardo dal tavolo verso il viso del compagno; ma non c’era ombra di scherzo. I loro occhi si incontrarono e lessero il cuore dell’altro con uno sguardo.
L’uno, scorgeva l’invidia mordace di una vita sazia: mille mortificazioni, mille inferiorità, compensate in un attimo.
L’altro, leggeva un’indignazione che ancora non si rendeva conto del tradimento che l’aveva accesa; un’indignazione nobile, che rimproverava più il falso amico che il distruttore della speranza di una vita.
Per nove giorni a Venezia ci si chiese che fine avesse fatto il capolavoro di Tiziano; chi l’avesse portato via, — perché, quando e dove. Alcuni spiegarono il mistero alludendo al fatto che Clementina Beneplacida, avendo avuto accesso segreto allo studio del grande maestro, avesse lì, a forza di forbici, vendicato la sua bellezza offesa e deturpato in effigie la sua rivale color nocciola. Altri dissero che Giannuccione, rendendo omaggio alticcio alla performance del suo amico, ne aveva rovinato la superficie ancora umida. Altri ancora sostenevano che, in un momento di impazienza, la stessa spugna di Tiziano, scagliata contro la tela, avesse irrimediabilmente offuscato la figura principale. Nessuno sapeva, nessuno indovinava la verità. La meraviglia compì il suo piccolo giorno, e poi, placandosi, fu dimenticata: avendo, forse, dopo tutto, divertito volubilmente Venezia quanto qualsiasi opera d’arte avrebbe potuto fare, pur avendo privato il tramonto del suo splendore, della sua gloria e del suo fuoco.

Ma perché l’infamia di quella notte fu tenuta segreta?
Da Tiziano, perché, sbandierando il tradimento del suo compagno, si sarebbe sottoposto alla pietà di coloro dai quali accettava a malapena l’omaggio; e, bollando Gianni come traditore, si sarebbe esposto come uno stolto.
Da Gianni, perché se la verità si fosse diffusa, il suo iniquo premio avrebbe potuto essergli strappato, e la sua malizia sarebbe stata frustrata nel momento del trionfo; senza contare che la vendetta ha un sapore più sottile quando trattiene un rivale di successo dall’apice della fama, rispetto a quando si limita a esporre un amico all’umiliazione. Come artisti, avrebbero potuto essere considerati rivali; come astuti uomini di mondo, mai.
Giannuccione non aveva assistito a tutte le operazioni di quella notte. A causa del suo sonno ubriaco, sapeva poco; e di ciò che aveva intuito, l’insistenza di Tiziano lo aveva indotto a reprimere. Si notò infatti come, da quel momento in poi, due dei tre inseparabili apparissero in un certo senso estranei al terzo; eppure tutte le osservanze esteriori di cortesia erano continuate e, se gli abbracci erano cessati, gli inchini e i saluti non erano mai mancati.
Per settimane, addirittura per mesi, Gianni tenne a freno il suo amore per il gioco e, dipingendo diligentemente, si impegnò a ricostruire il suo patrimonio in frantumi. Tutto prosperò nelle sue mani. I suoi schizzi si vendevano con una rapidità senza precedenti, i suoi epigrammi incantavano i commensali più nobili, i suoi versi e le sue ariette piccanti lo facevano entrare nei circoli più esclusivi. Con ciò, sembrava che si stesse stabilizzando. Il suo nome non faceva più pensare a storie di baldorie da ubriachi nei bassifondi della città, di scommesse folli nelle compagnie più meschine, di duelli spericolati con avversari senza nome. Se ora commetteva delle follie, le commetteva nella migliore società; se peccava, era, in ogni caso, in una casa patrizia; e, sebbene la sua morale non fosse ancora impeccabile, il suo gusto era ineccepibile. I suoi compagni stretti brontolavano, ma non potevano permettersi di fare a meno di lui; i suoi amici più cari ravvivavano speranze che da tempo si erano spente nella disperazione. Era il periodo di massimo splendore della sua vita: sia la fortuna che Venezia lo corteggiavano; non aveva che da prendere il sole nei loro sorrisi e accettare i loro favori.
Così, senza indugio, lo fece e per un po’ prosperò. Ma quando gli stimoli straordinari si esaurirono, l’energia straordinaria si esaurì con essi. Tornò il tempo libero, e con esso il fascino delle vecchie attività. In proporzione all’aumento delle spese, i suoi guadagni diminuirono; e, proprio quando tutte le sue proprietà, in realtà, appartenevano ai creditori, diede il colpo di grazia alla sua evidente rovina, puntando e perdendo al tavolo da gioco ciò che non era più suo.
Quella notte Gianni fu visto grave, dignitoso, imperturbabile e mendicante. Il giorno dopo, i suoi creditori, principeschi e plebei, gli sarebbero stati addosso: tutto doveva sparire; non un pezzo, non un frammento, poteva essere trattenuto. Persino il capolavoro di Tiziano sarebbe stato rivendicato; quel premio per il quale aveva messo in gioco la sua anima, con il quale, forse, aveva sperato di acquisire una fama mondiale, quando il suo potente autore sarebbe stato messo a tacere per sempre nella polvere.
Ma domani, non stanotte, sarebbe stato il giorno della resa dei conti; stanotte, quindi, era la sua. Con mente fredda concepì e con mano ferma eseguì il suo proposito. Prendendo dei pigmenti grossolani, che, a suo piacimento, potevano essere facilmente rimossi, spalmò su quelle figure che sembravano vivere e su quello sfondo meraviglioso, che non lo stesso Tiziano era in grado di riprodurre; poi, sulla superficie bianca, dipinse un drago, fiammeggiante, artigliato, assurdo. Un giorno avrebbe recuperato il suo drago, avrebbe recuperato il suo Tiziano sotto il drago, e il mondo avrebbe visto.

La mattina dopo arrivò la crisi.

Dopo tutto, gli effetti personali di Gianni valevano più di quanto si pensasse. Comprendevano la Venere di Giannuccione che frusta Cupido, — ottenuta chissà come;? — una coppa curiosamente lavorata da un orafo fiorentino che si stava facendo notare; nell’incavo del piede era inciso Benvenuto Cellini, sormontato da una mano tesa, simbolo di benvenuto e pittorescamente allusivo al nome; un tocco di Giorgione, uno scarabocchio del pennello di Tiziano e due piedi quadrati di vero Tintoretto. I creditori si illuminarono; non c’era abbastanza per l’onestà, ma c’era molto per la produzione di un fallimento molto decoroso.
Il suo guardaroba era uno studio del colore; i suoi ninnoli, pochi ma di prima scelta, erano di inestimabile buon gusto. Inoltre, il suo contegno era irreprensibile e le sue delinquenze venivano alla luce con la migliore grazia immaginabile. Alcuni lo definirono un inadempiente, ma tutti ammisero che era un vero gentiluomo.
Tiziano era In prima fila tra gli ostili; Tiziano che ora, per la prima volta da quella sera fatale, varcava la soglia del suo rivale. Il suo sguardo cercò avidamente tra il mucchio di tele senza nome una bellezza indimenticabile, che gli aveva procurato un così doloroso dolore; ma cercò invano; solo che in primo piano si stendeva un drago, fiammeggiante, artigliato, assurdo; sogghignante, scintillava, ergeva la coda e lo sbeffeggiava.
‘Sì’, disse Gianni, rispondendo con gli sguardi, non con le parole, ma sembrando rivolgersi all’intero circolo, ‘Signori miei, questi compongono tutta la mia galleria’. ‘Uno schizzo immortale, opera di Messer Tiziano’ — qui un inchino di cortesia — ‘un vero e proprio Giorgione; un’opera vostra, Messer Robusti, che non ha bisogno di commenti da parte mia per fissare il suo valore. Alcune produzioni di mani più deboli, ma non per questo prive di merito. Questi sono tutti. La parte più preziosa della mia collezione è stata distrutta (non c’è bisogno di dirlo, accidentalmente), tre giorni fa da un incendio. Quel drago, ancora umido, era stato progettato per il mio ospite, Bevilacqua Mangiaruva; ma stamattina ho saputo, con profonda preoccupazione, della sua improvvisa scomparsa’.
Qui si fece avanti Lupo Vorace dell’Orco decapitato. Lui, come spiegò a lungo, era un uomo di poche parole (questo, senza dubbio, in teoria); ma per farla breve, era così affascinato dal mostro squamoso che avrebbe cambiato il suo cartello, accettando il drago senza proprietario, e quindi cancellando il conto salato che era a carico del suo debitore. Gianni, con cortese ringraziamento, spiegò che il drago, ancora umido, non era idoneo al trasporto immediato; che sarebbe dovuto rimanere in studio ancora per poco tempo; e che, non appena la sua sicurezza lo avesse permesso, l’avrebbe portato lui stesso all’albergo del suo creditore liberale. Ma su questo punto Lupo fu inflessibile. In termini confusi ma immutabili rivendicava l’immediato possesso del colpo da maestro di Gianni. Lo afferrò, lo sollevò a faccia in su sulla sua testa, e con la sua uscita ruppe il conclave dei creditori.
Ciò che rimane può essere brevemente raccontato.
Tiziano, naufragata la sua ultima speranza in questo senso, tornò a raggiungere, sì, nuove grandezze: ma non per questo tornò alla noia di sforzarsi dopo un ideale già raggiunto, ma ora perduto per sempre. Giannuccione, mezzo divertito, mezzo mortificato, per l’indegno accenno alle sue prestazioni, si vendicò in un epigramma, di cui la seguente è una libera traduzione: —

‘Gianni il mio amico e io ci siamo sforzati entrambi di eccellere,
ma, mancando di meglio, ci siamo accontentati.
Entrambi falliamo, in effetti, ma non allo stesso modo.—
Il mio forte è il volto di Venere, il suo la coda del drago’. —

Gianni, nella sua rovina, si rifugiò presso un vecchio amico; e lì, trattato quasi alla stregua di un collega, impiegò il suo sovrabbondante tempo libero a inventare un drago superiore in ogni punto al suo predecessore; ma, quando questo fu quasi compiuto, quella che doveva riscattare il suo insospettato tesoro dalle grinfie di Lupo, le grinfie più implacabili della morte si strinsero su di lui.

Il suo segreto è morto con lui.

Un tradizione orale in un qualche luogo esistente, di un Tiziano perduto, sopravvissuto a ogni accuratezza storica, e quindi passato a un’altra epoca, ha indotto l’erudito dottor Landau ad acquistare un’opera spuria per la Galleria di Lunenberg; e ancora più recentemente ha indotto il dottor Dreieck a spendere una grossa somma per un Tiziano nominale, che ha poi lasciato in eredità al Museo Nazionale di Saxe Eulenstein. Il soggetto di quest’ultimo dipinto è una Vendemmia di uva rossa, piena di vita e di vigore, di spiccato talento, ma chiaramente riconducibile all’inizio di un secolo successivo.
Rimane, tuttavia, la speranza che qualche felice incidente possa ancora restituire al mondo il capolavoro di uno dei suoi figli più brillanti.

Lettore, se ti capita di scorgere sopra una locanda o un albergo metropolitano un pendente di drago, o se trovi un’effige simile tra il legname della bottega di un broker, che sia rossa, verde o pezzata, chiedila con importunanza, pagala generosamente, e nella privacy di casa puliscilo. Può darsi che da dietro il drago ne emerga uno bello, più bello di Andromeda, e che a te spetterà l’onore di esaltare ancora di più la grandezza di Tiziano agli occhi di un mondo.


Da: Commonplace, and Other Short Stories
Di Christina Georgina Rossetti
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Sir Walter Scott, 1° Baronetto FRSE FSAScot (15 agosto 1771 – 21 settembre 1832), è stato uno storico, romanziere, poeta e drammaturgo scozzese. Molte delle sue opere rimangono dei classici della letteratura europea e scozzese, in particolare i romanzi Ivanhoe (1819), Rob Roy (1817), Waverley (1814), Old Mortality (1816), The Heart of Mid-Lothian (1818) e The Bride di Lammermoor (1819), insieme ai poemi narrativi Marmion (1808) e The Lady of the Lake (1810). Ha avuto un impatto importante sulla letteratura europea e americana. (Wiki).