I TRE DI’ DELLA MERLA

In questo scritto si sono esposte le varie opinioni che parecchi si emisero su tal proverbio.

Era la sera del terz’ultimo gennaio dell’anno passato, ed io mi trovavo in compagnia d’una brigatella d’amici in una di quelle agiate case di Milano che, nonostante le esigenze delle odierne costumanze, conducono tuttavia una vita alla carlona. Figuratevi dunque un semicircolo composto da sei persone prostese innanzi ad un vivificante fuoco, sotto un’ampia cappa di camino, intente a favolare, senza però offendere co’nostri discorsi il povero prossimo, come si usa in molte radunanze, nelle quali penetrarono le leggi del buon costume! Il discorso cadde d’argomento in argomento; si parlò di letteratura , di scienze e di tant’ altre belle cose che tenevano in moto l’attenzione degli ascoltanti.
Chi faceva la prima figura in quel piccolo crocchio di persone era il signor Aristotile, gran buon uomo che per far del bene si sarebbe buttato, come si suol dire, sul fuoco; ed era forse in causa di questa sua buona tendenza che ognuno di leggeri gli sapeva perdonare certi piccoli difettucci, che del resto non portavano pregiudizio al ben essere della società.
Dovete sapere che il signor Aristotile era uno di que’ vecchi letteratoni della forza di mille letteratuzzoli di que’ che vediamo sbucare a centinaio tuttodì, come i funghi la state; uno di que’sapienti della buona antichità che passano studiando intere notti per far dire a qualche poeta ciò ch’egli non ha mai tampoco sognato, per far credere certe cose scipite siccome bellezze di primo ordine; insomma, per dirla breve, uno di quegli uomini di buona volontà, biblioteche ambulanti, che passano la vita in mezzo ai dizionarii, che citano ad ogni passo poeti greci, latini ed ebraici, che ti ripetono a memoria le centinaja di stanze e terzine e dell’Ariosto, e del Tasso, e di Dante, e di Petrarca, che imbestialiscono vedendo in un libro stampato intermessa una virgola, o messo fuori di posto un punto, o un mezzo punto. Vedete bene che non la era mica la più gran bella cosa di questo mondo il discorrere con costui, tanto più che spesse volte, anzi sempre, bisognava stare in su le viste per iscansare di lanciargli la benchè minima contraddizione, chè altrimenti quel galantuomo sarebbe montato su tutte le collere, le quali; per vero dire, si dissipavano di li a poco. V’ho schizzato cosi alla bell’e meglio il ritratto di costui, perchè cosi tornava a bene per chi si fa a leggere queste carte. Per non tirarla tanto per le lunghe, dunque, vi dirò che dopo molto ciaramellare, si venne a dire dell’intenso freddo che faceva quella giornata.

— Cospetto! (cosi parlava il signor Tommaso, il capo di casa, accomodando i ciocchi e riattizzando le fiamme) quest’oggi fece il freddo di Russia: non mi ricordo d’aver passata una giornata cosi agghiacciante.
— Oh! Ma oggi è l’ultimo di della Merla, soggiunse la signora Amalia, una bella donnina in sui trent’anni, la moglie del signor Tommaso.
— Oh! Giusto appunto… Chi di loro mi sa dire a che mai allude questo proverbio?… Mi è passato per la mente anche l’altra sera di chiederti buon papà, perchè questi ultimi giorni del mese si chiamano della Merla, eppoi me ne sono scordata. Queste parole venivano proferite dalla vezzosa e vispa Luigia, giovinetta in sui quindici anni che era la gioja di quella buona pasta del signor Tommaso.
In verità, aggiunse la madre, desidero anch’io da qualche tempo saperne alcunchè, giacchè m’han raccontato tante diverse cose in proposito; e alcuni dicono che una volta facesse tanto freddo che il Po gelasse in modo che un certo capitano Merlo potė attraversarlo con le truppe ed i cannoni….
— Oh! oh! che frottola: Oh Dio buono! Come si ponno mai digerire simili favole?… Chi ha mai sentito dire di questo signor Merlo, capitano, che passava il Po colle soldatesche e co’cannoni?… — Così esclamava il signor Aristotile.
— Che il Po però qualche volta siasi agghiacciato, soggiunsi io, è cosa di cui niuno può mover dubbio; ed io potrei mostrarle, signor Aristotile, un giornale parmigiano, in cui, fra gli altri fenomeni, è registrato anche questo.
— Io non dico nulla in contrario, io, — che il fiume Po, siasi congelato, nol niego, ma che il signor capitano Merlo abbia passato il Po, lo replico, la è una frottola tanto fatta. — Cosi dicendo il signor Aristotile dimenava il capo, e crollava le spalle alquanto indispettito.
— lo mo, quand’ero un garzoncello, cosi il signor Tommaso, sentiva dire, che il freddo era giunto a tanto che ne agghiacciarono i merli che svolazzavano sopra il fiume.
— Ehm! ehm !… vi dirò io qualche cosa in proposito: bisogna aver studiato per decifrare certe cose… non tutti sono alla portata…
— Sentiamo dunque il signor Aristotile, sclamarono tutti ad una voce…
Qui il nostr’uomo s’appanciolò meglio sulla sua poltrona, raccolse le falde del suo abito, ripulì il naso, si soffregò bellamente le mani, e cominciò a fare sfoggio di una portentosa erudizione.
— Non è alcuno tra noi, incominciò a dire il signor Aristotile in tuono cattedratico, non è alcuno tra noi che non conosca, o, per meglio dire, pretenda conoscere l’origine di questo antico proverbio. Abbiamo per tradizione che negli ultimi tre di dì questo mese di un cert’anno, non si sa quale, lo stridore del verno avesse fatto gelare il Po sì solidamente che il Duca di Mantova ebbe il coraggio di passarlo a cavallo sopra di una puledra, a cui egli avea apposto il nome di Merla.
Dal memorando passaggio della Merla, del signor Duca, si vuole derivato il proverbio in discorso, il quale verrebbe a significare un freddo eccessivo.
Ma io credo fermamente che questa sia una di quelle tante bubbole che ci vennero, bellamente tramandate dalle nostre nonne. Ella è cosa facilissima il provare che la nostra Merla non può aver dato vita ad un proverbio, il quale non è nè mantovano, nè lombardo, ma sibbene fiorentinesco, e di una data più antica che non sia quella dei marchesi e dei vicarii imperiali da cui quella città fu in diverse epoche signoreggiata.
E basta a convincerci di ciò leggere il Pataffio di Ser Brunetto Latini, in cui si leggono queste precise parole: E valicato egli ha la merla il Po.
L’autorità del Pataffio, a cui siamo ricorsi, potrebbe venire impugnata, giacchè alcuni misero in dubbio che quell’opera sia veramente del maestro di Dante, e la vogliono affibbiare ad uno dei Mannelli che viveva nel secolo XV.
Lasciando adunque da un canto il Pataffio ed il suo autore, rivolgiamoci a messer Petrarca — il quale pure fe’ uso di modi proverbiali, e fra gli altri questo, che è fratello carnale di quello che abbiamo poc’anzi riportato. “E già di là del rio passato è il Merlo“.
Questo proverbio si legge nella seconda strofa della canzone che comincia: “Mai non vo’ più cantar come solea…“; di quella misticissima canzone che ha fatto buttar via il capo a tutti que’ somari, cui saltò il grillo di volerla interpretare.
Alcuni di questi signori espositori, a cui non bastarono le forze d’entrare nello intendimento dell’autore, conchiusero essere una tale poesia una filza di proverbi, un lavoro grottesco, che Merlino medesimo e l’interprete di Burchiello non avrebbero saputo cavarne costrutto.
Altri all’opposto vollero in essa ravvisare un’ invettiva contro la corte di Roma, e a questo fine a bella posta così artificiosamente adombrata, li Biagioli, finalmente, da quel grosso somaro che era, commendò per bellissima quella minchioneria di messer Petrarca. Per altro poi in tanta contrarietà d’opinioni, quasi tutti i commentatori convengono nel dar la spiegazione a questo proverbio, il quale, a loro giudizio, non altro significa in quel luogo, che, dopo aver sfuggito il pericolo, esser venuto a buon fine. — nato della merla (così il Gesualdo) la quale, giunta all’altra riva del rio, ha fuggito lo impedimento delle reti dei cacciatori per prenderla.
Il solo commentatore che siasi in ciò discostato dagli altri, è un certo Giambattista Castiglione, il quale pretende che con tale proverbio si dica di una donna la quale, come dice quel messere, abbia rotto di vergogna il nodo. Altri (continua quel buon uomo) lo intendono che madonna Laura fosse vecchia; ma il primo più mi piace, non che voglia intendere (è sempre lui che parla) che madonna Laura avesse compiaciuto a desiderii libidinosi, ma che avesse lasciato alquanto quella sua solita temperanza e modestia e per questo dubitasse per lei. — E con questo sì fino giudizio quel gentiluomo veniva, trecento anni sono, dichiarando o meglio, ingarbugliando, i luoghi difficili del Petrarca!
Se ci facciamo a sfogliazzare il famoso vocabolario della Crusca, il quale non di rado prende le cose pel verso della coda, alla voce Merlo registra tutt’ e due i proverbi spiegandoli per mancare il fiore dell’esser suo in chicchessia, come la bellezza nella donna, e simili, e ne adduce ad esempio i versi di Brunetto e di Petrarca, ne’ quali è tutt’altra la significanza di tale proverbio.
Questo volatile, del quale a’ tempi d’Orazio Flacco, correva l’altro detto popolare, che l’uccellatore intento ai merli casca nel fosso:

«. . . . . Merulis intentus decidit anceps
In puteum foveamque»

trovasi pure menzionato in modo proverbiale dal nostro Alighieri nel tredici del Purgatorio, ove parla di Sapia, gentildonna sanese: la quale essendo stata sbandita dalla sua patria, e come intese che i suoi concittadini erano stati battuti e rotti da’ firentini presso a Colle,

«Prese letizia a tull’altre dispari;
Tanlo che volse in sull’ardila faccia,
Grıdando a Dio: omai più non ti temo,
Come fe’il Merlo per poca bonaccia.»

I commentatori, per una specie di raro prodigio, non discordano questa volta tra loro nel far la glossa di quest’ultimo verso. — Giorni della Merla, dicono essi, si appellano in Lombardia i tre ultimi di gennaio; e favoleggiasi che tali si chiamino, e sieno, come d’ordinario sogliono essere, molto freddi, a cagione di vendetta che dura tuttavia a far gennaio contro della Merla, la quale sentendo una volta intorno a que’ dì mitigato il freddo, si fuggi dal padrone cantando: Non ti curo Domine, chè uscita son dal verno; ma se ne penti presto, perchè poco tempo dopo, essendo nevicato, la stagione tornò ad incrudelire.
E qui il signor Aristotile aggiunse non so quante citazioni in proposito di tal proverbio, che intralasciamo per non fastidiar più a lungo il lettore; e da ultimo conchiuse dicendo:
— Quanto all’origine vera del proverbio — La merla ha passato il Po — essa non è propiamente conosciuta. Il raccoglitore dei Modi toscani ricercati nella loro origine, non seppe aggiungere nulla a quanto in via di conghiettura lasciò scritto su tal proverbio il Tassoni nel libro nono de’ suoi Pensieri diversi. —«Io non ho letto autore, dice egli, che dichiari questo proverbio; ma direi che essendo il Merlo uccello che non muta mai clima, nè fa gran volo, come quello che si va d’albero in albero riposando, e che agevolmente si conosce tra le frondi, per essere di piuma nera, perciò la sua caccia non sia malagevole molto, se non se il cacciatore, non valendosi del tempo si lascia condurre al passo di qualche rio o di qualche fiumana, di là del quale volandosene il Merlo, egli perde l’occasione di più arrivarlo. E perchè vi sono de’ fiumi e dei rii che pur anche il cacciatore potrebbe passare e seguirlo, quando si dice ch’egli ha passato il Po, che è il maggiore fiume d’Italia, e vuol dire che la speranza e l’occasione è spedita affatto.
E tanto pare che questo proverbio cada a proposito, quanto che sulle vie del Po, per la quantità dell’uva e delle frutta e degli albereti evvi continua copia di tali uccelli. »
Non è a dire come venisse accolta questa cantafera di messer Aristotile: il buon Tommaso era lì li tra il sonno e la veglia; la bella Luigia tratteneva a mala pena lo sbadiglio; la signora Amalia faceva magnanimi sforzi per dimostrare attenzione.
— La è una storia molto imbrogliata quella di questo proverbio, saltò su a dire la Luigia: per me, se ho da dire il vero, ci ho trovato poco diletto.
— Taci, scioccherella; certe cose noi non le possiamo gustare perchè non siamo abbastanza addottrinate, n’è vero, signor Zecchini?
— Voi dite bene, signora Amalia, rispose l’interrogato, che infino a quel punto non avea ancor proferito parola; certe cose appaiono un po’ astruse a noi che siamo profani alle belle lettere. Ma giacchè il nostro signor Aristotile si è dichiarato incapace di sciogliere il nodo gordiano, giacchè egli pure ha confessato che è tuttavia dubbia l’origine di tal proverbio, mi faccio lecito di raccontarvi una storiella, scritta da quel brioso colto letterato ch’era il signor Defendente Sacchi, la quale forse spiegherà a dovere il motivo che suggerì il proverbio della Merla che ha passato il Po.
— Oh! Bravo, signor Zecchini! La ci racconti la storiella della Merla che ci prendrò piacere.
Il signor Zecchini era un vecchietto che godeva l’amicizia di quella buona famigliola, e ne era tanto prediletto che guai s’egli avesse mancato un sol giorno di venire a passarvi la sera. Egli aveva veduto a nascere la bambina, e si può dire che l’amasse come fosse sua; e la vezzosa Luigia dal canto suo portava grande affetto a lui, affetto che si era acquistato con certe piccole premure che facilmente s’imprimono nel tenero cuore della adolescenza.
Conviene sappiate, incominciò a dire lo Zecchini, che il Po fra Pavia e Piacenza corre non molto lunge da una catena di colli che fanno pedale agli Apennini: ove lontano da Pavia forse sei miglia stanno quasi a fronte lungo il Po due paesi, di qua sulla riva Porto-Albera, e di là, quasi un miglio discosto dal fiume, Stradella. Questo paese è al piè di amenissime colline feraci d’uve squisite: una di queste si chiama Montalino, sulla cui sommità sorge un palazzo detto la Rocca, e fu, per molti secoli, de’ vescovi di Pavia, che ivi avean diritto feudale. Vicino al palazzo ove si avvalla il colle, erano poche casucce di contadini: fra questi, molti e molti anni passati, uno si chiamava il Merlo, giovine di venticinqu’anni, ben formato della persona, lesto di gambe, destro e facile a prestar servigi altrui: era perciò molto caro alla famiglia del vescovo ed anche al prelato, che quando villeggiava, si valeva di lui ogni volta che gli bisognava di mandare alcuno a Pavia.
Il Po si passava allora come adesso, sur una barca che lo attraversava per un giuoco di corde, e si chiama Porto, e ve n’era uno appunto che dalla sponda di Stradella approdava a Porto-Albera. Merlo teneva in questo ultimo paese alcuni parenti dello stesso suo cognome, i quali avevano una bella fanciulla da marito. Ora esso soleva, o nell’andata o nel ritorno, visitare que’ congiunti, e talvolta prendere da loro qualche refezione, e quasi sempre la giovine Merlo gli sporgeva la tazza di vino, o se mangiava, gli apparecchiava sul deschetto un po’ di tovagliuolo, ed il formaggio: brevemente, dalli, va, ritorna, un saluto, un ringraziamento, una buona parola, i due giovani s’innamorarono, e si pensò a fare un bel par di nozze.
Vi era il guai del parentado; ma Merlo, un dì andò dal vescovo a Pavia, se gli gettò innanzi ginocchioni, e il pregò perchè gli ottenesse il permesso di sposare la cugina; il savio pastore il fece di buon animo, e quando giunse la licenza da Roma, che era in autunno, e quindi in tempo che Monsignore villeggiava a Montalino, fece chiamare nella Rocca il giovine, gliela diede, e gli aggiunse che ormai vedendo che ordinava la casa, lo avrebbe fatto fattore di alcuni fondi della mensa, che erano ivi vicini. A tanto favore Merlo fu, l’uomo più felice del mondo, volò a Porto-Albera a dare la buona novella alla sposa, e fu stabilito di far le nozze in carnevale.
Tutti applausero a quel matrimonio, perchè la cordialità del giovane e la bontà della fanciulla s’avevano acquistato l’amore di tutti, sicchè a vicenda si davano la notizia del matrimonio dei due Merli, que’ di Stradella e di Porto-Albera, e aggiungevano sorridendo: Ei sono due uccelli che faranno buon nido.
Venne il carnevale e il verno; Merlo aveva allestito in nuovo la casa, e la fanciulla la sua piccola dote, e fu ordinato, di celebrare le nozze l’ultimo di gennajo, che era una domenica.
Faceva di molto freddo, anzi crebbe a tanto, che ai 29 di gennajo agghiacciarono le acque del Po, quindi non fu più modo di movere il porto, e restavano tolte tutte le comunicazioni; per fortuna però il ghiaccio era di tanto spessore che i contadini lo attraversavano passandovi sopra fino colle loro bestie e carri.
Anche Merlo fece questa strada nel rendersi dalla sposa, e nel ritornare lo passò col carro con cui trasportava a Stradella la dote. Alla dimane andò pure passando sul ghiaccio con alcuni amici a Porto-Albera, dove il padre della sposa banchettò co’ congiunti e conoscenti.
Finalmente venne l’ultimo del mese; e alla mattina di buon’ora Merlo era a Porto-Albera con molta comitiva di persone: si andò alla chiesa, il parroco benedì gli sposi: quindi la compagnia fece una buona refezione e si misero tutti in via per Stradella. Il cammino era breve; conveniva valicare il Po col ghiaccio, sicchè si stabilì di farlo a piedi senza carri, nè cavalcature.
Una brigata che si mette in via con due buoni sposi è certamente lieta: infatti que’campagnoli erano tutti esultanti; chi poneva nel cappello dei fiori o delle foglie di martello, chi andava strimpellando un armandolino, o suonava pifferi e zampogne, chi agitava su bastoni fazzoletti, chi cantava, chi faceva evviva ai Merli. In breve giungono al fiume che presenta una strada di cristallo; ed essendo alto il sole e sereno, ne ripercuoteva i raggi, sicchè pareva che tutta disfavillasse.
La novità accresce l’allegria, e tutti precipitano sul ghiaccio come in una sala da ballo; chi scivola, chi corre, chi tombola perchè perde l’equilibrio, o perchè urtato dal vicino: si alzano alte grida ripercosse sul fiume e dalle vicine colline; insomma un trambusto, un rumore curioso e nuovo. Molti abitatori dei paesi vicini erano ivi accorsi per vedere gli sposi, e rapiti da quell’allegria, dalle monfrine che strimpellavano i suonatori, si ponevano anch’essi a ballare e correre sul ghiaccio, sicchè pareva che ivi si fosse apparecchiata una festa.
Ma ecco che percuote un lungo disperato grido; tutti si acquietano, tacciono, guardano a una parte, e vedono Merlo solo colle mani ne’ capelli. Attraversando il fiume colla sposa al braccio, a un tratto si ruppe il ghiaccio sotto i piedi di lei; si apri; dessa vacillo, si sprofondò nell’ampia voragine, e scomparve. Merlo udì ad un tempo un lamento della sposa, come gliela strappassero dal braccio, e più non la vide… Scosso, leva un ululato, la chiama, si china sul margine dell’apertura, vi stende le mani, cerca… Invano… Disperato già tenta gittarsi in quella tomba, ma è trattenuto dagli amici, e trasportato altrove.
Subitamente molti, ivi presenti, cercarono di rompere i ghiacci, di trovare la disgraziata; fu inutile: dessa, precipitata fin dove era la corrente del fiume, fu trascinata sotto i ghiacci; e solo dopo tre giorni, verso Piacenza, si trovò la di lei salma colle mani congiunte sul petto. Cosi la povera Merlo: ebbe nel di più lieto della vita il più miserabile fine!
Fu universale il compianto che levarono gli abitatori dei paesi vicini per la sgraziata sposa, e nessuna delle fanciulle di Stradella e di Porto-Albera volle per quel carnevale movere il piede ad un ballo.
Il misero sposo e vedovo ad un tempo destò poi sempre la compassione di que’ tutti che il vedevano: riavutosi dallo svenimento in cui era caduto quando gli amici il rapirono alla voragine fatale, diede in furente delirio per alcuni giorni; quindi fa preso da una melanconia sì forte che parve pazzia: ei non rispondeva che a tronche parole, camminava a capo chino, non si curava delle proprie faccende, e solo ogni mattina ed ogni sera andava alla sponda del Po, stendeva supplici le mani, e chiamava la sposa con sì doloroso lamento che commoveva al pianto.
Però l’infelice non penò a lungo in que’ patimenti che ogni di più il consumavano, e dopo un anno gli amici gli pregavano l’estrema pace.
Dopo quel tempo gli ultimi tre giorni di gennajo furono di triste melanconia ne’ paesi prossimi al Po, ne’ quali i contadini si univano a ricordare la sventura della povera Merlo.
A poco a poco poi quel voto di pietà si converti in una usanza, in una specie di festa, che si propagò in molte terre, e in alcune i giovani e le fanciulle da marito usano ancora unirsi sull’ aje, salire qualche eminenza, e cantare una mesta canzone popolare, che è il lamento del Merlo, alla quale tutti que’ che sono presenti rispondono con questo ritornello in flebile coro:

E di sera e di mattina,
La sua Merla poverina
Piange il Merlo e piangerà.

Non è a dire con quanta attenzione fu ascoltata quella tenera storia dei due Merli’, e con quanto commovimento della signora Amalia e della gentile Luigia, la quale fu sì fortemente tocca di quel caso pietoso che per qualche tempo non fe’ che rasciugare gli occhi fatti umidi dal pianto.
Anche il signor Tommaso rimase edificato di quel pietoso racconto, tanto che mi affidò l’incarico di provvedergli tutte le opere del signor Defendente Sacchi, che per lui era in quel momento un altro Manzoni. Il solo che non rimase gran che soddisfatto di quella novella fu il signor Aristotile, il quale restò alquanto bruciato che da quella specie di sconfitta, e mentre non osava di protestare contro la generale e sentita commozione degli astanti, andava dimenando irrequieto la testa, e s’azzardò anche di borbottar qualche parola, — Quale impressione poi sia per produrre la storia dei due Merli su gli animi dei nostri garbati lettori, noi nol sappiamo; tuttavia però vogliam lusingarci che non sarà mal accolta; e qualora, come spero, riuscisse a produrre qualche piacevole sensazione, vogliatene esser grati anzitutto al troppo presto dimentico signor Defendente Sacchi, poi a me che ve l’ho presentata.

Luigi Viganò

Tratto da: Cosmorama pittorico – 1859

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