I GIUOCHI A VENEZIA NEL MEDIO-EVO

Ercole e Venezia. – Fin dove può discendere la politica. La rivalità dei Castellani e dei Nicolotti. – La battaglia del Giovedi grasso. – Le Forze d’Ercole. – Un’architettura in carne ed ossa.

Che sotto un cielo tetro e nebbioso gl’Inglesi si divertano ne’ giuochi, in cui la forza e la destrezza costituiscono il sommo vanto e la somma bravura dei giocolieri, non fa meraviglia. I divertimenti d’un popolo sono in ragione diretta del suo carattere, o il carattere dei popoli dipende ordinariamente dalle latitudini che abitano.
Gli Inglesi sono fedeli alla loro natura, amando la carne sanguinante, la poesia un po’ selvaggia e gli esercizi violenti. Ma chi direbbe che a Venezia, la folleggiante e sorridente Venezia, abbia preso gusto per molti secoli, dal medio-evo fino all’epoca della Rivoluzione, a distrazioni di tal genere? Da che proviene che in quelle splendide feste, dove le mascherate, le danze, l’amore e la musica non avevano spazio bastante pei loro sollazzi; in quel celebre carnevale che una volta attirava gli stranieri da tutte le parti d’Europa, s’ introducessero dei giuochi di cui la sola forza fisica faceva le spese, e fra gli altri quelli che chiamavansi Le forze d’Ercole?

Che aveva a che fare Ercole in mezzo a quel popolo frivolo e leggiero? Ercole che filava ai piedi d’Onfale, alla buon’ora; non già Ercole che domava i lioni e le idre. Ma quegli spettacoli, d’origine antichissima, avevano uno scopo, di cui i visitatori stranieri non si rendevano forse ragione, ma che il Governo sospettoso di Venezia sapeva apprezzar giustamente.
Il Senato manteneva cosi la rivalità fra due potenti fazioni – i Castellani e i Nicolotti, – che prendevano parto a quei giuochi, e gareggiavano di forza e di destrezza. Si chiamavano Castellani e Nicolotti dal quartiere ch’essi abitavano, dalle contrade di Castello e di San Nicolò, poste alle due sponde del Canal grande e separate da un ponte, specie di terreno neutro fra i due campi nemici. Quel terreno diventava talvolta un campo di battaglia vivamente conteso. S’ignora qual fosse l’origine nell’ardente rivalità che regnava fra i Castellani e i Nicolotti.
Gli uni pretendono che abbia cominciato nei primi tempi di Venezia, quando le isole, che compongono attualmente la città delle lagune, non essendo fra loro riunite, e i diritti reciproci non bene determinati ed incerti i confini delle proprietà, vi si disputava un tratto di mare per la pesca o un angolo di terra per la caccia. Gli altri la fanno risalire ai tempi in cui gli abitanti d’ Equilio a di Eraclea, cacciati dalla invasione dei barbari, andarono a cercarsi un rifugio in mezzo alle lagune, e si stabilirono sulla riva opposta del Canal grande. Codesti emigranti sarebbero stati dei nemici accaniti; o mescolandosi cogli indigeni, avrebbero trasfuso in essi il loro spirito di gelosia e di rancore, il quale non avrebbe fatto che crescere col tempo (1).
Il Governo di Sparta spingeva la gioventù a simili lotte, ma si aveva almeno lo scopo di addestrarla alla guerra; mentre in questa occasione non trattavasi che che di spargere e mantener viva la discordia nel popolo. Difatti, se i cittadini, invece di astiarsi, si fossero uniti; e se unendosi, si fossero contati, l’autorità dei patrizii non avrebbe durato un giorno; giacchè avrebbero veduto di quanto erano superiori per numero a quell’aristocrazia, che voleva solo per sè la ricchezza e il potere. Dividere per regnare, era questa la politica del governo di Venezia all’interno.


(1) Queste due opinioni sono riferite e confermate dell’autorità dell’illustre Giustina Renier Michiel nella sua dotta opera dell’Origine delle Feste Veneziane, da cui togliamo il Brano.

I Castellani ed i Nicolotti non s’accorgevano d’assodare con le rivalità un potere geloso dei suoi privilegi e nemico dei diritti del popolo, potere che essi avrebbero potuto, se uniti,, ridurre a nulla. Un’altra causa di gelosia era il diritto che avevano i una Nicolotti di eleggere un doge particolare, un artigiano del quartiere di San Nicolò, che i Casteilani facevano segno delle loro beffe e dei loro sarcasmi. Massime poi nei giorni solenni l’animosità si appalesava pubblicaente, e passava dalle parole ai fatti.
Il Giovedi grasso era una di queste occasioni autorizzato dalle leggi, e che gli opposti partiti coglievano avidamente. In quel giorno vi era gran pugilato tra le due fazioni; l’arena era il ponte di cui abbiamo parlato; i Castellani o i Nicolotti, posti sulla sponda che formava il confine del loro rispettivo quartiere, se ne partivano, slanciandosi sul ponte sul cui mezzo avveniva lo scontro, trattavasi di forzare il passaggio e di arrivare sulla sponda occupata dagli avversari. Aggiungasi che il ponte non aveva parapetto, donde nasceva il lato comico della lotta, la quale non terminava mai, senza effusione di sangue; qualche volta si dovevano persino ripescare i morti.
Le Forze di Ercole non lasciavano traccie così sanguinose. A quest’uopo si faceva una scelta degli uomini più robusti, mentre per la Guerra dei pugni, il primo venuto bastava.
Le Forze d’Ercole erano piramidi umane, formate d’una trentina d’uomini ben tarchiati e robusti; circa una ventina ne formano la base, ed il numero andava diminuendo fino alla sommità, che per solito era terminata da un fanciullo, il quale faceva in aria mille temerarie ed ardite evoluzioni. Terminate queste, il fanciullo s’ inchinava dinanzi al doge, o saltava di tutta l’altezza della piramide su di un materasso o semplice cuscino, che veniva espressamente collocato al di sotto; dopo di lui saltava l’uomo che lo sorreggeva, poi un secondo, poi un terzo, e cosi di seguito fino all’ultimo. Quando una fazione aveva terminati i suoi esercizii, sottentrava l’altra, che voleva mostrare la sua forza ed abilità; e la vittoria restava a quella che aveva formato la piramide più alta, oppure si era tenuta più lungamente in equilibrio. Coloro che eseguivano siffatti esercizii erano per la maggior parte artigiani, cioé a dire non ne facevano un mestiere.

Ma la loro abilità non limitavasi a questo; essi si dedicavano ad esercizi molto più maravigliosi. Essi avevano, dicesi, il talento di costrurre in un batter d’occhio dei templi o dei palagi, di formar delle volte arditissime, di alzare delle colonne, e fra quelle edificare delle facciate, insomma di riprodurre i capolavori dell’architettura, imitando, per esempio, Palladio, senza pietra e senza calce – soli materiali gli uomini,
Un quadro sullo smalto, attribuito a Giovanni Cousin – celebre pittore della scuola francese, molto stimato sotto il regno di Francesco I, Enrico II e Carlo IX, – rappresenta una scena di questo genere. Cosi almeno lo spiega Landon nei suoi Annali nel Museo (Tom. III, Parigi 1862, in 8.°, pag 65). Il quadro, che allora apparteneva a un dilettante distinto, il signor Cambry, autore di opere archeologiche raffigura, al dire di Landon, «una specie di ginnastica, conosciuta in Italia sotto il nome di Forze, e praticata in Venezia.
Le sei figure, che compongono il dipinto, sono notevoli per l’ardimento e la pieghevolezza delle pose. Se il disegno non è molto corretto, ha però una certa grandiosità quella specie d’eleganza che sembra somigliante alla scuola fiorentina…» In ogni modo, la composizione è originale; e non ci fa punto stupore che quel dipinto sia stato, come afferma lo stesso critico, «ricercato per l’originalità ed il genere dell’esecuzione.,»

LE FORZE D’ERCOLE A VENEZIA

Le forze d’Ercole avevano luogo a Venezia il Giovedi grasso ed erano precedute dal sacrificio del toro e dal volo dell’uomo armato d’ali. Ecco come del primo giuoco da noi accennato parla la Giustina Renier nel suo stupendo libro: Origine delle feste veneziane.

… A questa scena venivano dietro le Forze di Ercole, che così i Veneziani solevano chiamare certa gara tra Castellani e Nicolotti. Di esse non puossi formar idea giusta senza averle vedute. Immaginiamoci però di scorgere sopra un apposito palco costrutto in sul fatto, perché il popolo anche da lungi tutto mirar potesse, erigersi a vista d’occhio un bellissimo edificio composto di uomini, gli uni sovrapposti agli altri sino ad una grande altezza. Mercè delle loro positure e scorci diversi, questo edificio rappresentavasi sotto diferenti forme, a norma del loro immaginato modello, ora era una piramide egizia, ora la famosa torre di Babilonia, ora ciò che può offrire alla vista di meglio l’architettura navale e civile. Nel far ciò non si valean d’altro che delle proprie braccia, degli omeri loro, ed alcune volte di certi lunghi assi, che posavansi sulle spalle, o su qualche altra parte del corpo, onde vieppiù legare e stringere tutti i membri di questa fabbrica equilibrata, di cui essi medesimi erano gli architetti, inventandone il disegno, ed erano anco i materiali, somministrandovi i loro corpi, e la combinazione delle loro forze. Volevano, por esempio, innalzare una sublime piramide? Essa veniva formata da quattro o cinque file d’uomini gli uni montati sulle spalle degli altri, che poi terminava in un solo.
Sull’ultimo apice di questa piramide colossale arrampiccavasi con somma destrezza un giovinetto, il quale, poichè vera giunto, si tenea ritto e fermo in piedi sulla testa dell’ultimo uomo in un modo maraviglioso. Nè ciò bastava ancora. Vedessene un altro salire velocemente d’ordine in ordine fino a quest’ultimo e volto il proprio capo in giù, ponealo sul capo di quello, facendosi puntello delle sue mani sulle mani dell’inferiore, agitava pei campi dell’aria i leggieri suoi piedi, e faceva dando con essi galloria.
Talora anche rivolgevasi, e stando ritto sull’estremo apice ne formava il cimiero, o coll’agitar delle braccia, e col batter delle mani dava il segnale della comune allegrezza. Gli spettatori che temere non potevano pericolo in quelli atleti, perché vedevano non temerne essi alcuno, gli rispondevano battendo anch’essi le mani, vociferando o gridando maravigliati, e tutti ebbri di gioia.
Ma già l’altro partito preso da’nobile emulazione ardeva di voglia di ottenere anch’esso gli stessi applausi, nè intralasciava nulla per sorpassare giorni in destrezza la fazione rivale. Quindi que’prodigj e quegli sforzi che non si potrebbero nè narrare, nè credere, ma che pur succedendosi da banda a banda quasi per incanto, raddoppiavano le apparenza di un’architettura superiore a ogni livello, benchè passeggiera e fittizia.
Il popolo in tal guisa ammaestrato, quando occasione gli si fosse offerta, non avrebbe avuto mestieri, come gli altri popoli, di ricorrere al comun aiuto delle scale per ascendere ad una fortezza; potéa pur anco di leggieri manovrare un vascello in burrasca, montare sull’estremità degli alberi e dei cordaggi per quanto soffiasse il vento; tenersi saldo su piedi, o piegare il corpo in modo, che secondasse le scosse del bastimento e l’agitazione dell’onde sbattute o burrasca o dal combattimento; e tutti questi vantaggi preziosisimi per lo stato erano l’effetto delle sue gare da scherzo.

Giustina Renier Michiel

Tratto da L’Illustrazione popolare

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