FESTA DEL GIOVEDI’ GRASSO A VENEZIA

Origine delle feste veneziane
Di Giustina Renier-Michiel

In particolare l’ultimo giovedì di Carnovale, detto volgarmente Giovedì Grasso, le due fazioni de’Nicolotti e Castellani facevano i maggiori sforzi per superarsi a vicenda. Seguiva lo spettacolo nella piazza di san Marco sotto gli occhi del Doge vestito a gala, della Signoria, del Senato e degli Ambasciatori, collocati dignitosamente nella galleria del palazzo ducale che guarda la piazza.

La Festa cominciava dal sacrificio del toro; cerimonia che teneva dell’antico e la sola che si conservasse della prima instituzione… Ciò che eravi di più osservabile pel popolo, ciò ch’eccitava per parte sua i maggiori gridi di gioia, gli applausi i più vivaci, si era la destrezza di quello che decollava l’animale, la cui testa dovea cadere e rotolare sulla terra ad un sol colpo di sciabla, ed il ferro non doveva, malgrado la violenza del colpo, toccare il terreno.

A questo spettacolo succedeva il volo di un uomo armato di ali, che vedevasi partire da una barca ancorata alla sponda della piazzetta, ed innalzarsi sino alla camera del gran campanile di san Marco. Traversava costui sì grande spazio di aria, mercè di una gomena fortemente assicurata da uno dei cavi alla barca, dall’altro al comignolo del campanile. Egli veniva legato a certi anelli infilzati nella gomena, e col mezzo di un’altra fune e di parecchie girelle lo si faceva ascendere e calare con gran velocità e agevolezza, come se adoperasse le sue ali. Il suo cammino aereo era tracciato in modo, che dopo essere asceso al campanile, calava sino all’altezza della galleria del palazzo, dove presentava al Doge un mazzetto di fiori ed alcuni sonetti; indi ritornava all’alto della torre, e quinci di nuovo scendeva alla sua barca.
Usavasi scegliere a tal fine un uomo di professione marinaio, forte di petto e di reni, che potesse lungamente resistere ad un viaggio sì violento e sì strano: perciocchè gli anelli non lo ritenevano se non ai piedi e alle spalle, affinchè agli occhi degli spettatori si presentasse, per quanto potevasi, sotto il vero aspetto del messaggiere celeste, che fende l’aria per eseguire i comandi di Giove. Il leggiero farsetto ond’era vestito, i nastri che gli svolazzavano indosso, i sonetti che per l’aria spargeva, il suo volto composto a letizia, i suoi gesti, le sue voci di gioia, tutto giovava alla illusione, ed inspirava nella moltitudine spettatrice ammirazione, premura, trasporto.

A questa scena venivano dietro le Forze di Ercole, che così i Veneziani solevano chiamare certa gara tra’ Castellani e Nicolotti. Di esse non puossi formar idea giusta senza averle vedute. Immaginiamoci però di scorgere sopra un apposito palco costrutto in sul fatto, perchè il popolo anche da lungi tutto mirar potesse, erigersi a vista d’occhio un bellissimo edificio composto di uomini, gli uni sovrapposti agli altri sino ad una grande altezza.
Mercè delle loro positure e scorci diversi, questo edificio rappresentavasi sotto differenti forme, a norma del loro immaginato modello. Ora era una piramide egizia, ora la famosa torre di Babilonia, ora ciò che può offrire alla vista di meglio l’architettura navale e civile. Nel far ciò non si valean d’altro aiuto che delle proprie braccia, degli omeri loro, ed alcune volte di certi lunghi assi che posavansi sulle spalle, o su qualche altra parte del corpo, onde vieppiù legare e strignere tutti i membri di questa fabbrica equilibrata, di cui essi medesimi erano gli architetti, inventandone il disegno, ed erano anco i materiali, somministrandovi i loro corpi e la combinazione delle loro forze.
Volevano, per esempio, innalzare una sublime piramide? Essa veniva formata da quattro o cinque file d’uomini gli uni montati sulle spalle degli altri, che poi terminava in un solo. Sull’ultimo apice di questa piramide colossale arrampicavasi con somma destrezza un giovinetto, il quale, poichè v’era giunto, si tenea ritto e fermo in piedi sulla testa dell’ ultimo uomo in modo maraviglioso. Nè ciò bastava ancora. Vedeasene un altro salire velocemente d’ordine in ordine fino a quest’ ultimo, e volto il proprio capo giù, ponealo sul capo di quello, facendosi puntello delle sue mani sulle mani dell’ inferiore, agitava pe campi dell’aria i leggieri suoi piedi, e faceva con essi galloria.
Talora anche rivolgevasi, e stando ritto sull’estremo apice ne formava il cimiero, e coll’agitar delle braccia, e col battere delle mani dava il segnale della comune allegrezza. Gli spettatori che temere non potevano pericolo in quelli atleti, perchè vedevano non temerne essi alcuno, gli rispondevano battendo anch’essi le mani, vociferando e gridando maravigliati e tutti ebbri di gioia.

Ma già l’altro partito preso da nobile emulazione ardeva di voglia di ottenere anch’esso gli stesi applausi, nè intralasciava nulla per sorpassare in destrezza la fazione rivale. Quindi que’ prodigii e quegli sforzi che non si potrebbero ne narrare, nè credere, ma che pur succedendosi da banda a banda quasi per incanto, raddoppiavano le apparenze di un’architettura superiore ad ogni modello, benchè passeggiera e fittizia.
Il popolo in tal guisa ammaestrato, quando occasione gli si fosse offerta, non avrebbe avuto mestieri, come gli altri popoli, di ricorrere al comun aiuto delle scale per ascendere ad una fortezza; potea pur anco di leggieri manovrare un vascello in burrasca, montare sull’estremità degli alberi e dei cordaggi per quanto soffiasse il vento, tenersi saldo su piedi, o piegare il corpo in modo che secondasse le scosse del bastimento e l’agitazione delle onde sbattute o dalla burrasca o dal combattimento; e tutti questi vantaggi preziosissimi per lo stato erano l’effetto delle sue gare da scherzo.

Compiuto questo spettacolo, tantosto ne veniva un altro, motivo anch’esso di nuova emulazione tra i due partiti. Era desso una specie di lotta o scherma tolta dai Saracini, che volgarmente dicevasi la Moresca, la quale non men dell’altra esigeva agilità, pieghevolezza di membri e gagliardia. I combattenti si accignevano con sì grand’ardore, che avresti detto trattarsi dei loro interessi più cari e del loro più importante trionfo.
Gli spettatori cogli occhi ed i cuori fissi sui bravi atleti, osservavano il principio di questo esercizio guerriero, ne seguivano i progressi, ne aspettavano l’esito con quella inquietudine piacevole, con quel palpito, con quell’ impegno, che fa sospendere il respiro, quasi per tema di turbare con picciolo sussurro l’azione de’ lottatori.
Ma lo stato di estasi, d’immobilità e di silenzio che teneva tutti i moti dell’anima in freno, ben presto cessava e scioglievasi in un immenso scroscio di viva, di applausi, di trasporti, di cui rintronava la piazza, e che a poco a poco mancando, cangiavasi in quel cupo mormorìo che nasce dal contrasto di tante migliaia di uomini, che si sforzano colla voce di attribuire la vittoria a quella fazione che ciascun favorisce.
Questa Festa era infine la festa di tutti, ed ogni cittadino portava impressa nel volto una porzione del diletto comune; e chi non v’interveniva, chiedeva almeno con ansietà le nuove agli altri e se ne facea narrare gli accidenti. La nobiltà stessa, che pur ai nostri di affettava di sdegnare la popolarità di tai giuochi, e, per mostrarsi superiore alla plebe, riguardava lo spettacolo come un decrepito avanzo di ridicola barbarie, non poteva alla fin fine rimanere indifferente. Stupiva di se stessa in sentir, suo malgrado, un occulto diletto, che attaccavala a que’ giuochi.

Terminava questa Festa una superba macchina di fuochi d’artificio, che pur destava i popolari viva, malgrado allo stravagante costume di accenderla a chiaro giorno. Anticamente la ragione ne fu per lasciar il tempo necessario alla nobiltà di apparecchiarsi ad un ballo che la medesima sera il Doge dava nel suo palazzo. Questo ballo non ebbe più luogo in appresso, ma non per tanto non si cangiò l’ora de’ fuochi, poichè si tiene il più che si può alle abitudini. Il sole, è vero, scemava il loro splendore, pure non distruggeva il loro effetto sulle anime di un popolo sempre disposto ad applaudire con trasporto a tutto ciò che facevasi in nome della patria e che aveva qualche legame colla gloria della nazione. Esso gioiva perchè era felice; abbandonavasi ad una dolce e vera ilarità, perchè aveva cittadino il cuore e lo spirito, e perchè l’amor patrio e que’ sentimenti che da esso provengono, sono una fonte inesausta di piacere, di grandezza e di prosperità.

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Di Giustina Renier-Michiel
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