È fatto il becco all’oca

L’allegria poi che si sviluppa, anzi che scoppia, dal cuore di chi è riuscito a vincere grave difficoltà, si esprime col proverbio È fatto il becco all’oca, il quale tutti fin da fanciulli abbiamo imparato, e forse tutti fummo sempre curiosi di sapere da che derivò. Ce lo faremo dire da Francesco Cieco da Ferrara con una novella narrata nel suo Mambriano, Canto II (Libro d’arme e d’amore nomato Mambriano composto per Francisco Cieco da Ferrara novamente stampato. Ven. per Giorgio de Rusconi a di IX agosto MCCCCCXI).
Ed essendo questo poema fra i tanti cavallereschi poco conosciuto, non sarà disgradita cosa, che mi serva degli stessi versi del poeta, compendiando quanto meglio saprò e dovrò per iscansar la licenza procace, ch’era troppo di moda al tempo del sor Francisco.
Si descrive un convito, in cui, all’usanza degli antichi Greci, una donzella conta la seguente storia:

Cominciò poi costei certa novella
D’un re che si chiamava Licanoro:
Ne l’isola di Cipri ancor s’appella.
Regnò costui copioso di tesoro,
Ebbe una moglie a meraviglia bella,
Con la qual fece gran tempo dimoro;
Ma ben che bella fosse a maraviglia
Non ebbe altro di lei ch’una sol figlia.

Lucanoro volle sapere da indovini ed astrologi che sorte s’avrebbe ella. Sentenziarono ad una voce, che la finirebbe con poco onore, se a tempo non fosser temprate le sue voglie.
Figuratevi come il povero babbo ne restasse dolente ma quel re aveva quattrini a pala, e non si sgomentò.

Il re già cauto del danno futuro
Alla sorte fatal si volse opporre,
E intorno al suo giardin fe’ fare un muro
Ch’era più alto assai d’una gran torre:
Ma rare volte è in terra uom sì securo,
Il quale possa contra il ciel disporre;
E costui si pensò, tanto era pieno
De audacia, con un mur ponerli il freno.

Cento cinquanta braccia fu l’altezza
Del mur, che quel giardin cingeva intorno
Fondato a modo d’una gran fortezza:
Dentro gli fece un casamento adorno
Con stancie e logge di summa bellezza,
Terminando che quivi notte e giorno
La già nata fanciulla si nutrisca
Tanto ch’il fatal corso preterisca.

Una matrona vedova e lattante
Fu con costei nel bel giardin riposta,
Con diece fanciullette accompagnante
La figliuola del re quivi nascosta.
Poi fe’ far un statuto minacciante
A ciaschedun, che qualunque s’accosta
Al mur di quel giardin laj pena è questa,
Che senza indugio perderà la testa.

Per una porta a quel giardin se intrava,
De la qual sempre il re tenea le chiavi,
E una sua balia di cui si fidava
Volea che nel giardin con atti gravi
Portasse il cibo, e ciò che bisognava.
E spesso al porto ove giungean le navi
Del statuto avisava e forastieri
Per obviar i casi aspri e stranieri.
Questo modo observò ben quindic’anni.

Ma nel durarlo più a lungo stette il busilli. Avvenne che in quel regno morì un tal Giovanni ricchissimo, e stato tanto avaro, che lasciò all’unico figlio Cassandro un tesoro più che da re. Il giovane non simigliando al padre si dette allo spendere, alle generosità e alle grandezze; e per prima cosa fece costuruire un magnifico palazzo con giardino ec.

Sì largamente aprì costui le borse,
Ch’il padre già solea tener serrate,
Che dall’infamia a vera fama corse,
Tante eran l’opre sue a ciascun grate.
Il re, che a questo son l’orecchie porse,
Si mise a cavalcar per le cittate,
Fingendo di voler gir a solazzo:
Con tutti i suoi pervenne a quel palazzo.

Come Cassandro intese la battuta
De’ cavalli, si fece in sulla porta,
E graziosamente il re saluta:
Poi d’invitarlo a cena si conforta.
Il magnanimo re già non rifiuta,
Anzi smontò con tutta la sua scorta,
E mentre che in tal opra ognun si specchia.
La sontuosa cena si apparecchia.

Si mangia e si beve, e poi si va a visitare il giardino, deve ammiravasi una magna fonte con statue e allegorie stupende, e tre grandi vasi, che ricevevano le acque spumose, di pregiati marmi.

Vedeasi in una di quelle figure
De littere intagliate un piccol breve
Il qual dicea: «Chi vuol che al mondo dure
Sua fama largamente spender deve,
E in avarizia mai non s’assicure,
Perch’el fin degli avari è duro, greve.
Sian pur le voglie a spender larghe e pronte,
Che omnia per pecunia fatta sonte.»

Lo lesse il re; la superbiola ne fu punta, e inconsapevole si ordì una rete, da cui vedremo come uscirà.

Il re sorrise, e poi fra sè dispose
Voler veder, anzi toccar con mano
Se per danar se fan tutte le cose.
Essendoli Cassandro prossimano,
A lui rivolto subito gl’impose
Dicendo: «Se tu voi, giovene insano,
Campar da morte, il tuo ingegno assottiglia
Tanto che per danari abbi mia figlia.
Tu sai com’ io la guardo, e ch’ io la tegno
Serrata in quel giardin già son tant’ anni:
Adopra ben la moneta, e lo ingegno,
Se tu non voi provar gli ultimi affanni.
Un anno acciò per termine t’assegno,
E se quel passa che tu non me ne inganni:
In fumo vada tutta la mia gesta,
E me, se non te fo tagliar la testa.»

Ciò detto, la cavalcata torna alla reggia, e Cassandro riman di stucco, pensieroso, afflitto, e non sa che si fare; finchè risolve di perdere la miglior roba, e salvar la vita con la fuga. Ma, come il cacio su’maccheroni, giunge la sua nutrice, vecchia astutissima, la quale vedendolo così sbalordito e disperato, lo racconsola, e gli dà sicurtà del felice riuscimento dell’impresa.

«Io ti condurrò quivi un mio nipote,
El qual ha tanto ingegno in sè raccolto
Che del giardin le stanze più remote
T’aprirà certo senza indugiar molto:
E non saranno mai tal cose note
Ad alcun fin che non ti trovi sciolto
Da l’obbligo che ognor ti stringe e lega,
E che sovente a lagrimar ti piega.»

Cassandro fu riconsolato alquanto
Ponendo in costei tutta sua speranza,
La qual poi per aitarlo operò tanto,
Ch’el nepote condusse a quella stanza,
Ne la qual giunto, disse: «Io mi do vanto
Con si bel modo terminar la danza,
Ch’el detto del tuo breve adimpirai,
E ‘l tiranno confuso lasciarai.»

E l’abilissimo meccanico ridottosi in luogo segreto lavorò con somma maestria, indovinate che? un’Oca di legname.

E tanto la fece ampia e spaziosa,
Che un uomo in essa asconder si potea:
L’entrata sotto l’ale era nascosta
Tal che commesso alcun non si vedea,
E con due rote opra meravigliosa
Al tirar d’una corda si movea,
Fatta d’un legno stagionato e secco
Ogni parte avea l’Oca, in fora il becco,

Cassandro, che sapea d’ogni instrumento
Mirabilmente cantando sonare,
Più e più volte si gli ascose drento
Per potersi nell’ opra accomodare.
Poi una notte senza impedimento
Trasportò l’oca cautemente al mare
In un certo naviglio megarese,
Ch’era quivi condutto alle sue spese.

La balia tolse sopra sè la soma
De guidar l’oca in abito moresco,
Lassando tutto il consueto idioma.
Mostrò nel porto esser giunta di fresco
Dal Cairo costei si dice, e noma
Esser figliuola d’ un vecchio arabesco,
La cui fama nel mondo è tanta e tale
Che fra mortali è tenuto immortale.

E detto questo, in man tolse una verga,
Con la qual l’oca tre volte percosse.
Cassandro che nascosto ivi s’alberga
Per tal segno avvisato il canto mosse,
E ogni suspizion da se posterga,
Come liberamente sciolto fosse;
Poi la voce col son talmente univa,
Che tutto il popol drieto gli seguiva.

L’astuta balia, e con la lingua sciolta,
Disse: Brigata, el vi conviene offrire,
«Se non che l’armonia vi sarà tolta.»
Il popol ch’era bramoso d’udire
Molta moneta insieme ebbe raccolta,
Che onesto non gli parse il contradire,
Anzi ciascun dicea nel suo proemio,
Questa maestra è degna d’ogni premio.

D’una in altra strada la fama dell’ Oca che suona e canta giunge alla reggia, e il re vuol vederla con la regina e i cortigiani. Immaginate come ne trasecolasse.

Un angelico canto, un divin suono
Parea ch’uscisse da quell’ oca allora.
Il re posto ogni dubbio in abbandono
Ivi ascoltando, è già passata un’ora.
Poi disse alla regina: «Sarà buono
Che noi mandiamo ove Alcenia (la figlia) dimora
Questa mora gentil col suo instrumento,
Chè lei d’udirlo arà sommo contento.»

La regina assentì: furono prese le debite precauzioni sul conto della Mora che non ascondesse qualche inganno: e svanita ogni dubbiezza, la Morà e l’Oca furono introdotte nel giardino.

Questo non era il caval di Sinone,
All’ingresso del qual fu rotto il muro
De la gran Troja ove tante persone
Morirno per quel caso orrendo e scuro.
Ne l’oca solamente era un garzone
Gentil, discreto, animoso e sicuro,
Che per salvar la robba e la persona
Ogni rispetto in quel punto abbandona.

E gionto alla presenzia di colei,
Per cui era mandato, non fu pegro:
Concordando la voce a quattro e a sei
Del suo instrumento, più che mai allegro
A cantar cominciò, tal ch’ io vorrei
Esprimer, ma non posso, il gaudio integro
Che ricevette Alcenia in questo die
Per odir tante e si dolce armonie.

Ultimamente Alcenia innamorata
Di questa oca, col padre impetrò tanto,
Che per un mese non gli fu negata,
A ciò che gustar possa il dolce canto.

E qui, a non farvela tanto lunga, già s’intende, che in pochi giorni la vecchia Euripide, e l’Oca Cassandro lavorarono in guisa, che il giovanotto scappò fuori dell’Oca: non cantò più, ma parlò, ed entrò si bene nelle grazie della fanciulla, che si promisero di farsi gli sposi. E il poeta, ragionando da dottore in astrologia, continua:

E tal fin ebbe il sonar di costoro,
Che la sorte fatal restò adempita
Contra l’opinion de Licanoro,
Qual si pensava d’averla impedita
Con l’opra sua; ma pazzi son coloro,
Che van cercando in questa mortal vita
De intender più che non se gli conviene,
Però che spesso mal gliene interviene.

Venne poi il giorno, che l’Oca maschio fu forza partisse fra i pianti e i giuri della povera innamorata; e partì.

E perchè già s’appropinquava l’anno,
In fin del qual Cassandro conveniva
A il re manifestar l’occulto inganno,
E provar che il suo breve non mentiva,
Incontinente il becco a l’oca fanno:
Il che poi fatto, il termine finiva;
Onde dal re Cassandro allora fue
Citato a mantener le ragion sue.
Levato via il timor e ogni altro ostacolo,

Cassandro a presentarsi non fu pegro.
Il re, ch’ha ordinato un bel spettacolo
Fra’ suoi, veggendol comparir si allegro,
A sè il chiamò, dicendo: «Ove è il miracolo
Che far ci dei? passato è l’anno integro.»
Cassandro a guisa d’om che vince e gioca,
Disse, «Signor, l’è fatto il becco a l’oca.»

Rispose il re: «Che significa questo?
Io non t’ intendo: parlame più chiaro.»
Cassandro dal bisogno ivi richiesto
Subito venne a l’ultimo riparo,
E per l’Oca mandò, con la qual presto
Fe’noto a tutti il suo ingegno preclaro.
Il re pien di stupor bassa le ciglia,
Ne sa che dir, tanto si maraviglia.

Cassandro confessa tutto, spiega l’enigma, e conclude:

Ch’ogni animal naturalmente elegge
Di servar l’esser suo quanto è possibile
Per non venire all’ ultimo terribile.

Considerando il re l’astuzia grande,
E la virtù che in Cassandro si trova,
Tutto placato con parole blande
Gli disse: Figlio mio, non ti commova
Alcun timor, che verso te si spande
La grazia mia, come dal ciel la piova,
Tal che rinverdirai, se fusti secco
Poscia che a l’oca veggo fatto il becco.

E la storia finisce, che lo fece suo genero, che furon celebrate le nozze con trionfi e conviti, e l’allegria fu in Cipri universale.

Cosi Alcenia, la qual stette rinchiusa
Tanti anni, ebbe d’ amor grazia non poca,
Dove nacque il proverbio, ch’ ancor s’usa
Tra noi, e non pur quando si gioca,
Ma quando un’opra è del tutto conclusa,
Ch’el si dice, l’è fatto il becco a l’oca.


C’e chi dice, che il fatto di questa novella s’assomiglia un poco alla favola della trasformazione di Giove in Cigno, mutatis mutandis: ne giudichi il lettore.
G. B. Fagiuoli poi doveva saperla questa origine, attesochè nell’Ast. Balor. At. I. 1. fa dire da Meo ad un innamorato: – “Ve lo dirò io; la si fa chiedere a suo padre; egli ve la dà; ecco fatto il becco all’oca – ” E Crispo risponde: “Oh bel proverbio in negozio di sposalizio. – “
C’è ancora chi assegna diversa origine al prov. ed è, Che uno scultore prese a fare il ritratto d’ un’oca, e spesso domandato se l’oca era finita, rispondeva sempre che mancava il becco. Finalmente, dopo lungo aspettare, disse ch’era fatto il becco: il che saputo, il committente esclamò, È fatto il becco all’oca!

Il più largo significato del prov. è Compimento e Conseguimento di una cosa qualsiasi, buona o rea. Gli es. seguenti dimostreranno il vario uso che se s’è fatto dagli scrittori. Nella Rappr. di due Pellegr. (vol. III. pag. 486) un podestà ordina che sia posto alla tortura un assassino dicendo:
Or mandami costui insino a Sesto.

Chè un tratto sol di corda saria poca:
Perchè da uno a sei cinque è di resto
Acciò che sia fornito il becco all’oca.

Il discorso qui è amaramente ironico. Salv. Granch. (Prol. come fu recitato in Mant. nel 1578), parlandosi del recitarsi la Comm. di nascosto dell’autore, cui si finge sia stata sottratta, la Persona che fa il Prologo dice:

Do d’ unghia,
E sbietto e pianto il zugo a piuolo.
A raggiungermi avrà egli un bel correre
Di poste; e non verrà prima che sia
Fatto, come diciamo, il becco all’oca.

E nel Granchio stesso At. I. 4. un manutengolo, spianata la via ad un amante, gli dice: – “In tanto tu avresti agio a fare Il becco all’oca, e poi che la Pasquina Fosse entrata in Arezzo, che avresti Tu bisogno di star quivi a musare? – ” Lalli, En. Trav. II. fa dire ad Ettore, che appare in sogno ad Enea:

Troja nostra è spedita; ahi sorte rea!
Tutta ruina, ed arde insino ai tetti;
Ne vanno tutti, il marcio ora si giuoca;
Non v’è rimedio, è fatto il becco all’oca.

Baldov. Chi la sor. ha nem. At. II. 6. Ventura servo dice:
Padron mio, per la mente in util vostro
Ho negozj stupendi;
E se mi date ajuto
Da far venire i miei disegni all’atto,
Credete pur che il becco all’oca è fatto.

Modi di dire proverbiali e motti popolari italiani
Di Pico L. di Vassano

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Ndr – Chi volesse leggerlo in prosa, c’è questa bella versione di Defendente Sacchi.

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