Le maschere italiane

Tutte le cose avendo un termine o una trasformazione quaggiù, anche le maschere dovevano decadere a poco a poco, fino a tanto che non scompariscano affatto dalla umana società. E come i costumi, le usanze e le instituzioni, che mettono una radice profonda nel cuore del popolo, hanno una vita lunghissima, cosi le maschere, le quali per tanto tempo formarono la delizia del volgo italiano, durarono per secoli e secoli, e non sono ancora del tutto spente fra noi.
La maschera dell’ Arlecchino, per esempio, avrà un’antichità almeno almeno di diciannove secoli, poichè sia dal nome generico di Zanni, come dai vari atteggiamenti della sua persona, si può quasi con certezza argomentare che l’Arlecchino non sia altro che un rampollo degli antichi Sanniones, i quali, al dire di Cicerone, facevan tanti lazzi e con la bocca e col volto e con tutta la persona da rendersi oltremodo ridicoli. Ma la cosa più singolare delle maschere, a mio avviso, è questa, che il loro trionfo segni sempre la decadenza della civiltà e della letteratura di una nazione.
Di mano in mano che ogni più turpe corruttela andava penetrando nel cuore dei Latini, la buona commedia languiva. Al sorgere e al trionfare dell’Impero Romano acquistarono vie più credito i Mimi che finirono per avere il sopravvento quando la società latina giunse a tanto avvilimento da soggiacere al ferro dei Barbari. Perdutasi ogni traccia della buona commedia di Plauto e di Terenzio, i Mimi e saltimbanchi rimasero i padroni del campo scenico, e continuarono essi soli a dare spettacolo di sè nelle pubbliche piazze.
I Mimi chiamavansi pure planipedi, e vestivano un abito pienamente conforme a quello del nostro Arlecchino, con la sola differenza che invece di portare la maschera al volto, si tingevano la faccia con fuliggine. I Mimi furono dunque gli attori che tennero sempre vivo lo spettacolo scenico in Italia anche nei tempi più calamitosi e più avversi ai pubblici passatempi.
Nello scorcio del secolo decimoquinto e in principio del decimosesto, rinacque la commedia classica per opera del Bojardo, di Bernardo Dovizio, dell’Ariosto, del Machiavelli e di altri; ma codeste commedie non si rappresentavano in teatri pubblici, bensì nei palazzi dei Principi, e nelle sale delle Accademie letterarie, che andavano sorgendo in Italia. Questo fatto giovò grandemente ai comici di professione, i quali, per divertire la moltitudine popolare, rappresentavano anzi farse che commedie, e all’improvviso.
Mentre adunque i signori privilegiati assistevano alla recita di commedie classiche, il popolino prendeva un grande sollazzo alle rappresentazioni a soggetto, in cui il personaggio più importante era sempre Arlecchino. Laonde la fortuna di una compagnia comica era tutta riposta nell’abilità di codesta maschera, la cui parte, fino allo scorcio del secolo passato, fu sostenuta da uomini valentistisimi. Infatti il Ruzzante, Flaminio Scala, il Cecchini, l’Andreini, il Biancolelli e il Sacchi furono uomini di raro ingegno, e alcuni di loro ottennero favori singolarissimi da Re e Imperatori.
Oltre dell’Arlecchino, cominciarono ad incontrare il favore del pubblico nel secolo decimosesto anche il Pantalone di Venezia, e il Dottore di Bologna. Il primo ad introdurre sulle scene questi personaggi, pare che sia stato il Ruzzante da Padova, il quale nel 1530 diede sei commedie in prosa e in cinque atti, in cui fa parlare a ciascuno de suoi personaggi un dialetto differente. Pensando forse che i vecchi per loro natura sono freddi, egli per renderli più comici e piacevoli, credette bene di presentarli al pubblico, l’ uno sotto la maschera di Pantalone, cui diede il vestito e il dialetto veneziano, l’ altro sotto la maschera del Dottore, che parla il dialetto bolognese.
In bocca dei servi fu messo il dialetto bergamasco, perchè dicevasi allora che il popolino di Bergamo fosse più che qualunque altro un misto di sciocchi e di furbi. L’Arlecchino che faceva la parte del servo, secondo che era furbo o balordo, pigliava nomi differenti. Ecco intorno a codeste maschere come si esprime il nostro Goldoni:
«Il primo (Pantalone) è un negoziante, perchè Venezia in quei tempi remoti era il paese che faceva il più esteso e ricco commercio d’Italia. Questo personaggio ha conservato sempre l’antica foggia veneziana: infatti la veste nera, e il berretto di lana che in Venezia sono tuttavia in uso, unitamente alla camicioletta rossa, ed i calzoni tagliati a mutande, con calze rosse e pianelle, rappresentano al naturale il vestiario dei principali abitanti delle lagune adriatiche.
La sola barba, riguardata in quei secoli come uno dei più belli ornamenti dell’uomo, è stata modernamente figurata con un po’ di caricatura e perciò resa ridicola. Il secondo vecchio poi, chiamato il Dottore, fu preso dal ceto dei curiali per far così il contrapposto dell’uomo dotto all’uomo commerciante, e fu scelto bolognese, perchè malgrado l’ignoranza di quei tempi, esisteva in Bologna un’università che conservava sempre gli impieghi e gli onorari dei professori.
L’abito pertanto del Dottore ritiene tuttora l’antica foggia dell’università e della curia di Bologna, che è l’ istessa a un dipresso di quella che si pratica al giorno d’oggi, e la maschera singolare che gli copre la fronte e il naso è stata immaginata in conseguenza di una macchia di vino che deformava il volto d’un giureconsulto di quei tempi.
Così porta una tradizione che vive tuttavia nei dilettanti delle commedie dell’arte. Finalmente il Brighella e l’Arlecchino, che in Italia hanno anche il nome di Zanni, furono presi da Bergamo, poichè il primo essendo sommamente furbo, ed il secondo completamente balordo, tali estremi non si trovano se non nella classe del popolo di codesta città.
Brighella rappresenta un servitore imbroglione, furbo e birbante, e il suo vestito è una specie di livrea, con maschera nerastra, indicante con caricatura il colorito degli abitanti di quelle montagne tutti bruciati dall’ardore del sole. Vari comici hanno preso il nome in questa parte di Finocchio, di Fichetto e di Scappino, ma sotto questi nomi esiste sempre il servo medesimo ed il medesimo bergamasco.
Anche gli Arlecchini sono stati chiamati diversamente: vi sono Traccagnini, Truffaldini, Gradellini e Mezzettini, ma sempre però gli stessi balordi, i medesimi bergamaschi; il loro abito figura quello di un povero diavolo che va radunando i pezzi di differente roba e colore, che trova casualmente per via, rassettando con essi il suo vestito; il cappello pure corrisponde alla sua mendicità, anzi, la coda di lepre che n’è l’ornamento, si usa ancora al giorno d’oggi per l’abbigliamento ordinario dei contadini di Bergamo».
Tutti gli altri capicomici, che vennero appresso, veduta la fortuna incontrata dalle commedie del Ruzzante, che dai contemporanei fu decantato superiore a Plauto e a Roscio, cominciarono a introdurre nelle loro commedie a soggetto personaggi che parlassero il dialetto proprio di un dato popolo. Così in Bologna venne in voga, oltre del Dottore, Dessevedo de Malalbergo; nella Romagna Bastaggio e Don Pasquale, in Milano Beltrame: in Napoli lo Scaramuccia e il Pulcinella; in Calabria i Giangurgoli; in Piemonte il Gianduja; in Firenze lo Stenterello.
Con la dominazione spagnuola andarono di nuovo decadendo le lettere in Italia, ed ivi e in Francia tornarono a fiorire più che mai le commedie a soggetto, in cui facevano una splendida prova le Maschere, specie quella dell’Arlecchino. Il capitano Spavento rappresentava un fanfarone, uno spaccamondo, e compariva in scena con viso gonfio, con la bocca larga, armato d’uno spadone e d’una corazza o maglia a trafori.
Gli spagnuoli portarono con sè in Italia i capitani che parlavano un linguaggio misto di spagnuolo e italiano, cioè Spavento, Matamors, Sangre e Fuego. Chiunque abbia letto le Memorie del Goldoni, sa quante lotte e quanti dispiaceri abbia dovuto sostenere il nostro grande commediografo allorchè volle introdurre una sana riforma nella commedia, allontanando cioè dalle scene le rappresentazioni a soggetto. Il Biancolelli in Francia, e il Sacchi in Italia chiusero le porte ai valenti Arlecchini.

Domenico Biancolelli, arlecchino famoso dei suoi tempi (secolo XVII), si procacciò una grandissima stima, sia per la dignità della vita e per la modestia delle maniere, come per l’amor suo allo studio. Recitava in una compagnia italiana nella capitale austriaca, quando Luigi XIV lo chiamò a Parigi, raccomandatogli dal Duca di Parma. A 22 anni s’ ammogliò con una certa Eulalia, bella e giovane attrice, e n’ebbe dodici figliuoli. Domenico aveva una casina di campagna a Bièvre, dove aveva fatto mettere il ritratto di sua moglie con un paniere in mano, in cui stavano due colombe. Con ciò alludeva alle sue figliuole, delle quali una si chiamava Colombina, e da lei vuolsi che avesse origine il soprannome di Colombina, personaggio scenico femminile. Il Biancolelli fuori del teatro non faceva buffonate come lo Scaramuccia, ed era venuto in grande famigliarità con Luigi XIV. Un giorno, Domenico assisteva a un pranzo del Re. V’erano sulla mensa reale due pernici su d’un vassojo d’argento, alle quali, mentre i servi sparecchiavano, Domenico dava delle furtive occhiate. Il Re se n’avvide, e disse al cameriere che sparecchiava: Quel piatto è per Domenico. Come, Sire? anche le pernici? Si, anche le pernici, rispose sorridendo il Re. Chiuderemo questo articolo citando le parole scritte dal Goldoni intorno al merito del Sacchi.
«Questo attore, conosciuto sul teatro italiano sotto il nome di Truffaldino, aggiungeva alle grazie naturali e proprie della sua parte, uno studio continuato sull’arte comica e sui differenti teatri dell’ Europa. Antonio Sacchi possedeva una viva e rara immaginazione, e recitava a meraviglia le commedie dell’arte; laddove gli altri arlecchini non facevano che ripetere le stesse cose, egli, internato sempre nel fondo della scena, per mezzo di facezie affatto nuove e inaspettate risposte, manteneva sempre viva la scena, sicchè si accorreva da ogni parte in folla per sentire il Sacchi. I suoi tratti comici e le sue lepidezze non eran tratte dal linguaggio del popolo, nè da quello dei commedianti. Aveva messo a contribuzione gli autori comici, i poeti, gli oratori, i filosofi; si udivano, nelle parti di lui all’improvviso, pensieri degni di Seneca, di Cicerone, del Montaigne; ed aveva l’arte di appropriare in modo le massime di quei grandi uomini alla semplicità del carattere del balordo, che la proposizione stessa, degna di ammirazione nell’autor serio, faceva sommamente ridere, quando veniva dalla bocca di questo attore eccellente».

F. COSTERO.

L’Illustrazione italiana, Volume 4
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Segue uno stralcio dal libro:
Il carnevale italiano, ovvero, Teatri, maschere e feste presso gli antichi e…
Di Ignazio Cantù.

ZANNI E ARLECCHINO

Ma tutto scompare (giullari e pagliacci) d’innanzi al personaggio d’Arlecchino. Credete voi che sia un personaggio inventato? Tutt’altro. Abbiamo già citato qualche volta lo Zanni, messo in scena dai Romani, e si crede che ne provenisse il nome dal Sanio, provincia latina, d’onde derivò questa goffa caricatura.
Anche gl’italiani avevano perciò questo Zanni; ma da sciocco diventò astuto presso di loro.
A cambiargli il nome venne un valentuomo di san Giovan Bianco in Val Brembana sul Bergamasco detto Arlecchino. Costui tolse a rappresentare il carattere dello Zanni in modo cosi nuovo alla corte di Madrid, che da quel momento in luogo di Zanni si disse Arlecchino. Anche dopo scorsi varj secoli conserva tuttora una reliquia del suo abito nazionale. Il cappello e il vestito sente ancora delle vallale dalle quali era nativo quel primo di cui parliamo.
Insegnò egli a’ suoi successori a portare la maschera nera, l’abito a scacchi di vario colore. Molti si distinsero rappresentando questa parte; fra gli altri Domenico da Bologna, capo d’una compagnia comica, che recitò in Parigi a’tempi di Luigi XIV, e levò rumore di sé. La folla accorreva ad ascoltare le fiabe che egli cantava, le spiritosità che diceva, le avventure che soleva contare: il suo nome divenne famoso in ogni parte, ed imitatori ed emuli sorsero a ritentare le sue pedate. Egli s’armava d’un coltello di legno simile a quello col quale si scotola il lino.
In appresso, dalla somiglianza dell’abito suo tutto a rappezzi di vario colore, furono detti arlecchini quegli uomini che non sono d’un solo sentimento, sia in fatto di politica, sia in fatto di religione, o modo di pensare, e che riguardati in diverse parti presentano diverse apparenze. Altri nomi furono accordati di poi a questa lieta maschera rappresentante il Bergamasco: come sono il Traccagnino, il Truffaldino, il Trappolino, il Mezzettino, tutti titoli consacrati anche nelle pagine de’ più illustri scrittori italiani. (Ndr – zanni era anche il bergamasco Scapino).

PULCINELLA

Pulcinella! essere reale o fantastico che diverte tante volte la nostra fanciullezza e che ci rallegra ancora mediante le memorie, quando il tempo pose la sua mano di piombo sulla nostra testa. Chi non lo vide sulle piazze di Napoli, non può concepire sino a qual grado arrivi la sua lepidezza! Tutti i popoli si contendono l’onore d’averti dato il giorno, pure non ponno rapire all’ Italia il pregio d’esserti stata culla; la Calabria ti insegnò il suo allegro dialetto, e Silvio Fiorillo e Andrea Cannuccio, vestendosi de’ tuoi panni, ti resero carissimo nel 1600 a’ Napoletani.
Anticamente lo chiamavano Macco, poi d’un tratto, a motivo del suo naso somigliante al becco d’ un pulcino, gli cambiarono il nome in Pulcinella. Chi il crederebbe? egli vagò per tutti i popoli; il seriissimo tedesco, il gelato olandese, l’inglese melanconico sorrisero alle sue moine, all’ agilità veramente rara e prodiga con cui fa lavorare il suo bastone. Chi nega un soldo a questa spiritosa figura? Il canonico Francesco de’ Petris napoletano, scrisse commedie per lui; il Porta nel suo linguaggio milanese gli tributò una delle sue immortali poesie; lo nominò più volte il Giusti nelle sue satire; si pubblicò poc’anzi a Parigi un libro nè tutto buono, nè tullo cattivo, intitolato Platone Pulcinella. Naso lungo, berrello a coda, abito bianco, voce nasale, ecco i suoi connotati.

PANTALONE

Ha fatto sempre la sua buona figura anche questo personaggio veneziano sui teatri d’ Italia. Era un vecchio che parlava il veneziano; uomo d’affari, non sempre accorto, e obbligato spesse volte a far le spese delle beffe e trufferie altrui. Alcuni ne attribuiscono l’invenzione ad un tal Francesco Cherea comico e poeta, che lavorò molt’anni a Venezia, e l’origine del suo nome la trovano nell’ accozzamento delle due voci Pianta e Leone, che era la bandiera veneta, e che i Veneziani voleano piantare da per tutto.
La maschera caratteristica di Venezia consisteva nel tabarro, o bautta; o domino, cappello a tre punte se uomini, zendado in testa se donne, e maschera a mezzo viso. Era permessa dal 5 ollobre al 16 dicembre, poi da santo Stefano a tutto il carnovale; quindi il dì di san Marco, quindi il giorno della fiera dell’ascensione, i giorni della creazione del doge, dei solenni banchetti, alle venute dei principi, e in qualche festa straordinaria. Sotto quest’abito troppe volte si commettevano azioni triste, spionaggi, intrighi, scroccherie d’ogni specie.

BRIGHELLA

Antonio del Molino inventò un’altra maschera destra, furba, spiritosa, che parla il greco e lo schiavone mescolato coll’italiano, e ravvolto in mille intrighi, si insinua volentieri nelle viscere delle famiglie, manipola matrimonj segreti; vive di scrocco, canta, suona il liuto, e per le cento brighe fra cui è trascinato, lo nominò il Brighella. Calzoni bianchi colle costole tutto abbottonate, camiciotto legato alla cintura, cappa, berretto in testa, figura svelta, ecco il Brighella.

MENEGHINO

Il Meneghino è il soprannome caratteristico del popolo milanese. È antica a Milano la Badia dei meneghini, e si vorrebbe istituita nel 1560. Era una piacevole congrega che godeva de’privilegi accordatile dai governatori; aveva statuti, con un piovano, un abate, un dottore, un cancelliere e fino un poeta. Dovevano parlare il dialetto, portavano giubboncino, calzoni, calze e in testa un cappello triangolare bigio con ampj pennacchi che davano loro bizzarra figura; un grembiale alla cintura ricamato in oro e argento; in spalla un sacco, maschera al volto con smorfie nuove e capricciose. Posta sul teatro ebbe qualche modificazione, per esempio il codino, ma è sempre destinato a far ridere la gente.

MARIONETTE E GIROLAMO

Uniamo quì due nomi che sono una cosa sola. Mariannetta, bella ragazza napoletana, pratica di canto, di suono, di declamazione, di musica, saranno ormai cinquecento anni, caduta in disgrazia di Giovanna Il regina di Napoli, fuggi in Francia, e con suo padre se la campò con un castellotto di burattini. Codesti piccoli figurini erano un’antica invenzione che servivano già presso i Romani di trastullo puerile. Orazio, millenovecento anni fa, li chiamava legni movibili. Uomini d’ingegno si giovarono anche di essi per satirizzare allegramente il mondo. I nostri padri si ricordano aver sentito a Milano il Romanino, che colle arguzie, coi frizzi attirava la folla sulla piazza del Duomo arrestando dinanzi al suo nómade teatro anche uomini di grave natura.
Or bene tornando alla Mariannetta, dopo aver molto dato nel genio ai Francesi, ingrandì la sua famiglia di fantocci molto più che non si fosse, praticato fin allora. Nè tardò a destar concorso a vedere i fantocci della Marion, che in francese vuol dire Mariannetta, e facendosi una cosa sola dell’inventore e dell’invenzione accorrevasi a veder le Marionette. Se non che la brava ragazza caduta in fama di strega andò in pericolo di essere bruciata viva; si salvò tornando in Italia ov’ebbe vita più quieta.
I Piemontesi s’ impadronirono della bella invenzione; al Pulcinella napoletano sostituirono un loro personaggio nazionale, il loro Girolamo della Crigna; e questo Girolamo fu quello appunto che pel primo si addestrò a rendere famigliare a’suoi la gradita invenzione.

FLORINDO E COLOMBINA

Il Goldoni aveva speciale affezione a questi due personaggi; è ben raro che manchino alle sue commedie: il primo è uno studente che non studia, un debitore che non paga, un amante d’ordinario timido, qualche volta pur anche sfacciato, ma non è raro il caso che faccia ridicole figure.
Colombina è cameriera su cui s’ arrestano molte volte anche gli occhi de’ signori, però virtuosa sa dar parole a tutti, ma serbarsi fedele al solo fidanzato.
Altri personaggi che rappresentano una parte più o meno importante sono: il Dottore che fa sempre il mestiere d’imbroglione, lo Scapino, il Bortolino, altri caratteri bergamaschi, e così pure Gioppino da Zanica, grosso ignorante, il cui cretinismo è altestato da triplice gozzo; il signor Lellio, uomo che vuol fare il saputo, ed è bellamente scornato; lo Spaccamondo, lo Sputatondo, il capitano Fracasso, il capitano Spavento, maschere chiassose con abito esagerato, gran spadaccia irruginita entro il fodero.
Beltrame è un emulo del Meneghino, sebbene tenga del pavese per esser oriondo da Gaggiano; come emulo di Girolamo è il Gianduja anch’esso piemontese; Bastaggio e don Pasquale in Roma, il Giangiurgoli in Romagna, il Giovanelli a Messina, il Travaglino a Palermo, lo Stentarello in Toscana, compiono questa famiglia. Erano strani i molti lazzi e visacci che faceano e fanno per trarre il riso delle adunanze.
Uno de’personaggi che difficilmente mancava, era il Dulcamara, ciarlatano che andava spacciando i suoi specifici Buoni per ogni mal, se non si muore. Questi spacciasalute comparivano sulle piazze, sui teatri, erano carichi di pezze, di autentiche, di cerotti, di balsami, di segreti; promeltevano guarigione a chi ne volea, qualche volta convertivano il loro palco volante in arena di cavadenti, e celebravano a suon di tromba la loro abilità, il loro prodigio.
Divennero meno celebri a’ dì nostri poichè ve ne ha troppo tanti che esercitano questa professione di Dulcamara o in pubblico o in privato. Famoso per le fiere, pei mercati e per le sagre era a questo riguardo il bergamasco Moncalvo, che colla sua bottega d’empiastri, di bende, col suo caricato costume nero a gran manichette bianche, camicia con una gran lattuga allo sparrato e un collo gigantesco, e ciondoli e catene di similoro in gran numero e di grosso calibro, traeva sedotte le moltitudini che correvano a comperare i suoi specifici, a provare l’abilità delle sue tanaglie.
Cosi queste maschere facevano lietamente la loro parte, ed era gara vivissima per poter mostrare parrucche più gigantesche, nasi più lunghi e più uncinali, maggior mole di ventre, di petto, di schiena; chi compariva con spadaccie da screditare quelle delle battaglie più famose; chi agitandosi diffondeva un nembo di polvere di cipro, o di farina; chi risplendeva di migliaja di stellette dorate e di diamanti di vetro; chi rumoreggiava per cento sonagli, e un arsenale di minute dorerie; chi amava di comparir scpolto in tonache badiali, o figurar su giumenti qualche volta anche in senso ritroso; chi parlava il dialetto più esotico, chi amava usare le voci da ventriloquio, chi renderla gutturale, chi farla squittire colla cornetta, chi in cento altre guise tutte diversissime, tutte svariate.
Ecco se la storia sa trovare l’origine delle cose; e saperle queste notizie è bene, perchè è bello saper un po’ di tutto a questo mondo, e perchè anche sotto il frivolo nome di maschere v’è sempre qualche fatto da pescare. Noi abbiamo avuto una quantità di brava gente che si servì di questi nomi per istruire il popolo, per insegnargli che su questa terra ci sono miserie per tutti, che’ ciascuno ha ricevuta la sua parte di beni e di mali, che la società è un composto d’uomini da imitarsi e d’uomini da fuggirsi, che in fin de’ fini bisogna imparare a passar il più possibilmente fuori di tanti pericoli, evitar tante insipidezze, circondarsi di cognizioni, e credere a chi ha già raccolte le lezioni dell’esperienza.

Il carnevale italiano, ovvero, Teatri, maschere e feste presso gli antichi e…
Di Ignazio Cantù


Non si finirebbe giammai, se tutte le nuove invenzioni di maschere si volessero qui ad una ad una ridire.
I Bolognesi, oltre il Dottore, fecero sul teatro comparire un Narcisino chiamato volgarmente il Dessevedo di Malalbergo, e di poi venne dal Bigher, eccellente comico Bolognese, introdotto un Tabarrino e un Fitoncello.
I Milanesi diedero al teatro un Beltrame, invenzione, crediamo, di Niccolò Barbieri, che questo personaggio rappresentò lungo tempo con eccellenza; e un Meneghino che troviamo con tanta grazia introdotto dal Maggi nelle sue commedie.
I Napolitani vi contribuirono il Pasquariello, lo Scaramuccia, il Tartaglia, e il Coviello, nel rappresentare il qual personaggio fu celebre il pittore e poeta Salvator Rosa, del quale, sotto l’anagrammatico nome di Selva Rosata, parla Lorenzo Lippi nel suo Malmantile. I Genovesi egualmente hanno posto in iscena il loro linguaggio, del che esempio ne abbiamo nelle commedie del Gilli.
I Romagnuoli hanno essi pure dato un Portatore, o Bastagio, o Facchino, che parla il suo malvagio dialetto. Similmente i Calabresi vi han dato i loro Giangurgoli; i Romani un Don Pasquale, i Fiorentini le Pasquelle, i Siciliani i lor Travaglini, i Messinesi i lor Giovanelli, e così si dica di altre provincie e città. Di Pierrot e e quello del Messetin, quali trovansi rappresentati nella Storia del teatro Italiano di Ricoboni.

Da: Il costume antico e moderno o storia del governo, della milizia, della…
Tratto da Google Libri