È fatto il becco all’oca – Sacchi

Novella storica

Conduceva una vecchiarella egiziana per la città di Cipri una bella e grande oca: si comprendeva leggermente per la sua grossezza che era fatta ad arte: però era di mirabile lavoro, talchè pareva naturale: aveva un seno capace tutto rivestito di piume; le ali con candidissime penne, il collo lungo e duttile, in capo due occhi che pareano vivi, solo le mancava il becco.
Correva quest’oca per la città innanzi alla vecchiarella che la dirigeva con una bacchetta e colla voce, e l’oca la ubbidiva come un fanciullo. La donna camminava e andava gridando.
– Ecco signori l’oca mirabile venuta d’oltremare; chi vuol vedere l’oca venga avanti: essa tutto intende e tatto eseguisce: essa fa giocarelli d’ogni maniera, salta e balla al desiderio degli spettatori, risponde alle loro dimande, canta e suona a loro piacere.
Così gridava la vecchia, e l’oca faceva dei giri e capolini, e mandava dalla gonfia gola un lungo grido e vario che pareva ora un canto, ora il suono d’una tromba.
Trae gente e s’affolla intorno all’oca ed alla donna e guarda e dimanda e cresce; quando fu unito molto popolo, l’Egiziana accenna colla sua verga e spartisce la turba in ampio cerchio; gli importuni poi che non vogliono citrarsi, l’oca caccia al largo aprendo le grand’ali e scuotendole loro sul viso. Come furono tutti ordinati, la vecchia cominciò i giuochi agitando la sua bacchetta. Chiamò l’oca a sè e venne; le ordinò che salutasse gli spettatori, e l’oca allungo il collo, allargo le ali, dimenò la coda, fece un grido e girò due volte sopra sè stessa. La vecchia le ordinò che cantasse e l’oca gorgheggiò molte piacevoli note e fece diverse cadenze e variazioni di solfeggi, che pareano quelle delle cantanti quando solo vogliono solleticare l’orecchio senza farsi intendere.
Si venne quindi alle interrogazioni degli spettatori: chi dimandò quante fossero le ore, e l’oca le indicava come piaceva al chiedente o con altrettante grida, o col chinare varie volte il capo: indi se le faceva scegliere il più giovane o il più vecchio della brigata, se le faceano dare i numeri del lotto, indicare fra’ presenti gl’innamorati o que’ che avessero detto più di recente una bugia: se le ordinava di correre e correva, di ballare e faceva scambietti, e finalmente di suonare e allungava il collo e mandava dal ventre capace mirabili suoni che imitavano le tibie più delicate. Tutti applaudivano all’oca, gittavano la piccola moneta e gridavano al miracolo: tutti nella città levavano le maraviglie per l’oca senza il becco e ognuno desiderava vederla.
Giunse la notizia a Licanoro Re di Cipri, e prima ne rise, poscia udendone parlare a tutti, desiderò di vedere l’oca, e la vecchia obbidiente gliela condusse in palazzo, ove convenuta molta comitiva di cortigiani e di signori nella maggior sala ove conversavano i grandi del regno, l’oca fece tali mirabili prodigi al desiderio del Re che ne fu maravigliato.
Innanzi partire, il Re le chiese se sapesse quanti figli avesse, e l’oca accennò col capo affermativamente: – Il numero? e l’oca chinandosi una volta annunzio uno solo. – S’era maschio o femmina, e accennò l’ultima – Se egli amasse la figlia, ed ella annui – Se questa fosse lieta – e l’oca fece un lamento come di pianto.
Impallidì Licanoro che ben sapeva non potere esser lieta la sua Alcenia: folle per troppo amore, interrogati gli astrologhi sulla futura vita di lei, risposero, altri che prima sarebbe stata madre che moglie, altri che sarebbe stata prima sposa ch’ei nol sapesse: l’ebbe per vitupero, e per isfuggirlo divenne crudele; fece elevare in un chiuso giardino presso al palazzo un’ampia torre capace di molte stanze ed agiate, le cui finestre fossero volte solo alla parte più celata del giardino: in questa chiuse la figlia con matrone e damigelle, che la servissero e vegliassero e recinse inoltre la torre ed il giardino di molte guardie.
Quivi Alcenia viveva fra gli agi che potea fargli il regal padre; tutto le era concesso fuorchè vedere uomini ed uscire a ricrearsi; sicchè la misera era dolente e spesso piangeva la propria fortuna e il soverchio amore del padre.
Licanoro vedeva la tristezza della figlia e ne doleva e pensava a trovarle uno sposo fra i principi illustri, e intanto procacciava ogni modo per ricrearla. Sovente egli andava a lei, la accarezzava e le chiedeva quai desiderj s’avesse per ral legrarla: la misera ed innocente non aveva desiderj, sentiva la noja della propria condizione, ma non sapeva suggerire modo a migliorarla.
Poichè ebbe veduta l’oca, il Re pensò che potesse ricreare la figlia, e chiese alla vecchia se volea condurla nella torre, e pattuirono il prezzo. Come l’oca fu innanzi ad Alcevia, si mise ad eseguire giocarelli affatto nuovi, a vezzeggiarla, a farle inchini; e rispose si bene ad ogni sua domanda e carezza, che la fanciulla non sapeva partirla da sè, e chiese alla vecchia se voleva esserle cortese di lasciarla qualche dì nella torre, purchè lo assentisse il padre che anzi si mostrò contento, e ne sollecitò ei stesso la vecchia: costei fu sulle prime alquanto ritrosa, e poichè fu lungamente pregata e a’ suoi timori che non le sconciassero l’oca, avendo risposto Alcenia con promesse e sacramenti; ella s’arrese a patto che la giovane la tenesse nella propria stanza, poichè diceva fidare solo nella sua parola. Piacque il patto al Re e alla fanciulla, e fu stabilito che la vecchia tornerebbe a pigliar l’oca indi a tre giorni, e partì.
Alcenia tutta lieta chiamò l’oca presso di sè e questa come se fosse un mansueto cane la seguiva per tutte le stanze: ella la condusse nella propria più riposta, ed ivi a lungo si ricreò colle sue amiche facendole fare ogni capriccio che le cadesse in capo. Finalmente venne la sera, che tutte le dame e le donzelle si ritiravano, e Alcenia si chiudeva tutta sola. Di consueto questo era il momento in cui lasciava la sgraziata giovane libero sfogo alla sua melanconia: però quella sera era meno triste nel pensiero di ricrearsi con quella novità della vecchia.
Chiuse le porte, brevemente spogliò le vesti ornate e prese un legger zendalo, svolse i nodi artificiali de’ capelli e negletta apparve più bella. Intanto l’oca la seguiva ad ogni passo e le faceva carezze; talchè Alcenia diede in fretta ricapito a quelle sue faccende per ritornare a ricrearsi con lei.
Infatti la chiamò, le ordinò di fare varj giuochi, le diede varie dimande, e il mansueto animale rispondeva con motti e con grida. Poiché passò più d’un’ora in questo modo, ed Alcenia stava assisa, l’oca se le fece vicina, e cominciò col capo e col pieghevole collo a vezzeggiarla, mandaya dal seno suoni soavissimi, fra i quali le parve più volte d’udire il proprio nome.
La fanciulla maravigliò, e mentre incerta colle mani sospese la stava riguardando, l’oca fermò i movimenti; s’udi uno scoccare, un cigolio di molle, l’oca alzò un’ala e sotto a questa se le apri il seno, ne usci un uomo. Alcenia fu atterrita, si alzo, volea gridare, chiamare gente; ma quell’uomo era inginocchiato a’ suoi piedi, le stendeva le mani, le dimandava silenzio, e una parola. Alcenia lo guardò: era un giovane di ventidue anni, biondi e lunghi capelli, pupille celesti, un volto fiorente; era un amore: la guardava con due occhi di fuoco, e avea sulle labbra il sorriso di chi spera e teme, il sorriso che seduce e persuade.
– Alcenia, le diceva quel vago, io voglio liberarvi, io voglio farvi felice; Alcenia liberatemi da un pericolo, datemi la vita e la felicità: tutto è in vostra mano: abbiate pietà di me, o fra tre giorni io sarò ucciso e per voi…. – E gli spuntava una lagrima che gli rigava la bella gota, chelo rendeva più avvenente.
Alcenia era commossa, e parte invitata da curiosità, parte da un misto di pietà e di simpatia che le avevano ridestate quel volto e quelle lagrime, lo fece alzare e le parve più bello di prima, e tale di aspetto che inspirava confidenza; si ripose sulla scranna, e gli ordinò di sedere, e di narrargli perchè avesse fatta sì strana invenzione, e fosse stato sì audace di penetrare fra quelle mura.
Alcenia era bella, e combattuta fra que’sentimenti se le dipingeva in volto un misto di paura e di vergogna, ed una pietà novella che sovente è foriera di affetto: il giovane che la guardava palpitando sentiva nascere in cuore una speranza: la fissò modesto e confidente, e le disse:

Bella Alcenia, calmate questo timore, io vi sono amico: io sono Cassandro, il figlio di Giovanni di Famagosta, già stretto di parentela con vostro padre; più volte io vi vidi giovanetta nella regia danzare fra le eguali, bella come un fiore, e sentiva nell’animo un interno affetto che mi parlava di voi, e desiderava vedervi e ne era beato. Ma infelice! Un folle pregiudizio fece vostro padre crudele, e vi chiuse fra queste mura, e invano io più volte sognai la cara vostra immagine e quelle danze dell’infanzia. –
La fanciulla a quelle parole prendeva più fidanza, e Cassandro se le avvicinava alquanto e riprendea:
– Tristo, affannoso, perduta ogni speranza di vedervi, mi gittai ai viaggi, ai ricreamenti, alle feste, e me ne venne qualche sollievo, sebbene sempre avessi un antico desiderio che incerto mi spaziava nell’animo: non sapeva indovinarlo e n’andava fantasiando, finchè tra l’immenso vagare delle idee, si suscitava la ricordanza di quelle danze e del vostro amabile sorriso: ma quella ricordanza ricadeva senza speme, e solo valse a ravvivarla un recente avvenimento.
Il Re vostro padre desiderò di vedere il nuovo palazzo ch’io – innalzai nel luogo più ameno dell’isola; appena seppi il suo pensiero il pregai perchè volesse onorare la mia povera mensa, e mi procacciai fargli in ogni modo onoranza: quindi feste e danze, suoni e zampilli d’acqua, e corte bandita.
Ma pon segui l’effetto eguale al mio divisamento: vostro padre ne ebbe maraviglia, ma non ne fu lieto; vidi siedergli sulla fronte un cupo pensiero, lo vidi girare bieco uno sguardo, e tremai. Si mise a diportarsi nel giardino; guardava silenzioso e cupo, io lo seguiva ossequioso: finalmente si abbattè ad una fonte su cui era scritto – Tutto si ottiene coll’oro – Lesse, gli balenò sul torvo sopracciglio un lampo di fiera gioja, stette alquanto sopra pensiero, indi severo mi disse:
– Giovanetto! Troppo è audace quella sentenza, vi hanno molte cose che non si ottengono coll’oro – Sire, risposi, eppure io qui la scrissi, perchè pensai che coll’oro si consegua quanto si crede impossibile, e finora lo ottenni. –
Mi guatò bieco il Re; forse in quel momento, come pur seppi, ei pensava a spogliarmi di quelle ricchezze onde ebbe gelosa invidia. Ebbene giacchè tanto presumi, ti concedo un anno di tempo, perchè senza mio consenso ottenga fede di sposa da mia figlia, che è chiusa nella torre: usa ogni arte purchè l’ottenga; ma se scorso il tempo prefisso non giungessi a fidanzarla, perderai per tanta presunzione le fortune e la vita. Mi guardò con atto d’impero, indi fatto cenno al suo corteggio, partì.
A quella proposta io mi tenni perduto: come giungere fino a voi, fra queste mura, fra tanti custodi, mentre il padre accresceva la vigilanza: credei non esservi altro mezzo che piovere in quest’asilo dal cielo, e ne disperai. Eppure in quel momento si desta vano nell’animo mio tutte quelle care rimembranze della giovinezza, e sentii che se fossi giunto a ottenere l’amor vostro, la vostra fede, giacchè il padre il concedeva, sarei stato beato; ma quanto più pensava al modo di vedervi, più mi si abbujava il pensiero, sicchè fui per perderne la ragione.
Dolevasi della mia tristezza la buona mia balia Euripile, che m’è in luogo di madre: mi raggiunse nel giardino innanzi a quella fonte fatale mentre piangeva, mi pregò che gliene rivelassi la causa. Appena la seppe pose la destra alla fronte e levati gli occhi al cielo resto alquanto in gran pensiero; indi riscossa mi diede un bacio e mi confortò a sperare.
Euripile ha ua nipote di mirabile ingegno; conferì con lui; brevemente pensarono di fabbricare quest’ oca entro cui potessi nascondermi, sperando di trovare modo d’introdurla nella torre. Palpitai di gioja; il fatto rispose alla speranza. Feci spargere di andarne a un viaggio, e dopo alcuni giorni, Euripile si vestì all’egiziana paese onde nacque, e fattomi entrare nell’oca la condusse per le strade della città e nessuno la conobbe, era sì tramutata: essa mi parlava in sua favella e mi diceva ogni cosa, ed io movea il mirabile ordigno a’ suoi cenni: non bisognò fatica perchè l’oca fosse qua condotta, giacchè il Re stesso ne richiese Euripile. –
Alcenia avea col labbro semiaperlo udito quel racconto, e teneva fissi gli occhi nel volto del bel giovane, e mostrava sentire diversi affetti di speranza o di timore siccome ei narrava prosperità o sventura: stava immobile, e solo talora girava il capo e tendeva l’orecchio per udire se si facesse nelle vicine stanze qualche rumore. Come Cassandro tacque, ella fu in grave dubbio che far dovesse, e quasi per cercare pensieri e consiglio alzava la mano, la sporgeva verso la porta, e inclinava il bel capo facendo vista di udire se venisse alcuno: la guardò Cassandro, e vide fra quella incertezza, su quel leggiadro viso una compiacenza, e le prese trepidando quella mano: ella si scosse, lo guardò e fece forza per ritrarla, ma tremava e opponeva lieve resistenza, sicchè ei par la rattenne — Alcenia alzate gli occhi, udite, la mia preghiera: decidete se mi dannate vittima dell’ingorda voglia del padre vostro, o se concedendomi questa mano mi rendete il più fortunato degli uomini? –

Alcenia teneva pure chinato il capo e guardandolo rapidamente incerta, timorosa – Ah Casssandro che mai avete fatto? Perchè avventurarvi a tanto pericolo… Ah se siete scoperto, che ne sarà di me? che ne dirà mio padre, che ne penserà il mondo? –
– Datemi la vostra mano, la vostra fede di sposa, l’anello che voi possedete, e la mia vita è salva: fu vostro padre che la pose a patti… Ah Alcenia, abbiate compassione di voi, di me: perchè pur vorrete restarvi serva fra queste mura? E chi sarà mai ch’osi ancora penetrarvi! Perchè volete perdere un infelice che corse tanto pericolo per ottenervi?… –
Alcenia taceva ed ei pur conturbato – Dunque è deciso, mi odiate!… Ebbene, io vado a morte; rompo questo fatale ordigno; ch’io sia qui trovato, che cada sul mio capo l’ira del Re… – Si alza; Alcenia fu commossa e le stese una mano per calmarlo, per accenpargli di fermarsi, ed ei gliela prese, le vide scintillare in dito la gemma fatale, e tosto piegato ancora un ginocchio la sollecitava – Alcenia decidete di me; mi concedete questo anello o io sono perduto. – E le svolgeva il pugno che ella aveva fatto della bella mano, e lo svolgeva senza che la fanciulla facesse molta resistenza, e levatole quell’anello, tosto gliene pose nel dito nuziale un altro che avea seco; baciò la mano d’Alcenia e disse: — Mia sposa — Ella strinse quella mano, e rispose — Cassandro, assecondi il cielo il tuo disegno e ne faccia beati; sono contenta d’esserti compagna, ma che il tuo partire sia in breve e al vicino giorno. —
Cassandro raccoglieva quelle sue parole come un’aura di conforto a un lungo affanno; statuivano come far chiamare Euripile, perchè riconducesse l’oca, ordinarono come piegare Licanoro, e precorsero colla speranza il bene che loro prometteva la fortuna.
Spuntò il giorno e a Cassandro convenne ritornare nell’oca artificiale; però prima di chiudervisi ne trasse un becco che vi aveva riposto nel seno, e glielo rapiccò; indi vi si raccolse.
Alla mattina vennero le damigelle della fanciulla reale, e ancora videro fare nuovi giuochi all’oca, Alcenia era più discreta del dì innanzi e le ordinava lievi cose, quasi temesse stancarla; la guardava compiacente e la vezzeggiava come se fosse viva: ridevano le damigelle della semplicità di lei, — ma ella non rispondeva, e solo procurava nascondere la mano ove avea la nuova gemma nuziale.
Venne più tardi la vecchia come piacque ad Alcenia e ricondusse l’oca, perchè la giovane disse che attendeva miglior tempo a tenervela gli altri due dì. Euripile nel partire trasse innanzi al Re che volle darle l’intera mercede: ei rivide l’oca, s’accorse che aveva il becco, e domandò alla vecchia come ciò avvenisse, se prima non l’aveva; cui ella piacevolmente rispose: Sire, non se l’era messo il becco perchè non era ancor fatto: di questo vi ricordi se mai altra volta mi sarà concesso l’onore di venirvi innanzi. — Rise il Re, la donò ed ella partì.
Dopo poco Cassandro ritornò dal suo viaggio, e in breve cadde il termine nel quale come Licanoro gli avea prefisso, dovea avere la fede della sua figlia; lo fece chiamare e gli chiese se avea fatto il suo volere, o si apparecchiasse a morire.
Cassandro con modestia, chinando il capo, gli dimandò per grazia che prima di sentenziarlo gli concedesse di farsi venire la propria balia Euripile; il Re annuì e mandò per lei, che subitamente venne facendosi portare dietro l’oca: Licanoro la riconobbe, e le chiese perchè si fosse tramutata. Allora la destra donna con quell’ ardire garrulo con cui le vecchie sogliono parlare d’una loro vittoria: — Sire, vi ricordi quanto vi dissi innanzi partire, che era fatto il becco all’oca?
Il Re pensò ch’ella volesse farsi giuoco di lui, e severo le impose di chiarirsi meglio, nè avere a che fare quel suo giuoco con Cassandro e colla figlia. La vecchia nulla rispose, aprì l’oca, vi fece entrare Cassandro, la chiuse, trasse la sua bacchetta e fece eseguire all’oca tutti i giuochi usati. Il Re stava osservando impaziente e smemorato, ma Euripile fatto uscire Cassandro dal nascondiglio gli disse: E quest’oca fu una notte nella stanza di vostra figlia, e alla mattina pe usci l’oca col becco… — Cassandro trasse innanzi, alzò la mano — E questo, Sire, è l’anello di Alcenia; essa ha giurato d’essermi sposa, ed accolse la mia gemma: io tenni la mia fede, ora mi serbate la vostra. —
Licanoro strabiliava, volea sdegnarsi, ma ben sapeva d’averne la colpa; mandò per la figlia. Alcenia vedendosi condotta fuori della torre, tosto ne indovinò la causa, e postasi in capo un candido velo che quasi manto le cadeva fino ai piedi, apparve a brevi e incerti passi innanzi al padre; vide al suo fianco Cassandro, e poco lunge l’oca, e la vecchia, e sorrise in suo cuore; modesta e grave inchinò il Re e gli disse: — Padre e Signore, perdonate se osai scegliermi lo sposo senza l’assenso vostro, ma tale era il vostro desiderio se lo imponeste a Cassandro: egli ben merita d’esservi figlio: udi il cielo il nostro giuramento.
Licanoro non proferiva parola, stava sopra pensiero e tutti pendevano dal suo labbro: la sola vecchia baldanzosa trasse innanzi e ruppe il silenzio — Sire, non invano io condussi tant’opera: la vostra promessa è sacra; non giova ormai più pensare, Alcenia appartiene al mio figlio d’amore; già vel dissi, ch’era fatto il becco all’oca.
I due giovani taciti s’avvicinarono a Licanoro e gli protesero le braccia, ed ei li raccolse al seno e li chiamò sposi.
Allora Euripile tatta festevole prestamente entrata dell’oca si pose a correre per l’aule dorate, a far suoni e canti, ed a gridare per la gola dell’uccellone — È fatto il becco all’oca. —Si ordinarono feste nell’isola e si fecero corse di cocchi e di cavalli, s’alzarono trofei, sopra i quali era l’oca col becco; ed ogni volta che apparivano in pubblico que’ lieti sposi, il popolo applaudiva — È fatto il becco all’oca. —

Tratto da:
Novelle e racconti, Volume 1
Di Defendente Sacchi

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Il romanzo storico è un’opera letteraria che combina le caratteristiche specifiche degli eventi storici con trame drammatiche e notevoli emozioni umane.