Le pistole a Venezia

Smontai alle Zattere prendendo commiato dal gentile ed ottimo mio compagno. Feci colazione al caffè detto alla Calcina, e colà alquanto mi tratenni a cianciare con alcune polite persone condottevi in tal ora dal desio di godere del mattutino refrigerio.
Non aveva niente di sonno. A passo a passo mi recai al traghetto della Salute, da dove fui condotto alla piazzetta.
Quel bellissimo locale era allora quasi nudo di gente. Postomi vicino alla zecca, uno dei punti più vaghi di Venezia, mi godeva ammirare quella attività ognor più crescente di popolo e di venditori. Le barche poi rendevano un aspetto maraviglioso per la vita e pel moto che come a grado a grado acquistavano.
Data una occhiata alle più grandi colonne, feci nuovo riflesso sopra quello che già io aveva altra volta veduto. Una ventina di birboni assisi sopra i gradini delle dette due colonne stavano giocando a’ giuochi di azzardo che sono in Venezia proibiti; benchè nei camerini dei caffè, nei casini, e nelle case particolari si giochi a dispetto della legge e si rovinino tante famiglie. Non parlo del ridotto, dove i giuochi di azzardo, per tutto il tempo che dura il carnovale, sono permessi.
Al tempo dell’ innalzamento di dette due colonne convien credere attiva e severa la proibizione dei giochi azzardosi, s’ è vero, che Nicolò Barattieri, architetto che innalzò dette colonne, domandasse a compenso di sua fatica il privilegio perpetuo, che sui gradini circondanti quelle e nello spazio fra le due colonne della larghezza del loro piedestallo si potesse giocare liberamente a’ giochi proibiti, privilegio che gli fu accordato. Ed è altresì da credere che il Barattieri ed i suoi discendenti cavassero un utile dai giocatori. Taluno ritiene che il nome di Barattori, dato ai truffattori nel giuoco, derivi dal detto cognome.
Si racconta che nel passato il fanatismo per tale permesso passasse ogni credere. Nell’ intervallo delle dette due colonne stavano di continuo disposti tavolini e vi si giocava alla disperata e talvolta malgrado alle più ostinate e violenti intemperie. Sui gradini poi delle colonne stava il popolaccio a soddisfare la pazza sua inclinazione.
Si conobbero ben presto le conseguenze sgraziate del dato privilegio. Pensò il senato di porvi un riparo. È ignoto dove a que’ tempi s’ infliggesse la pena di morte, e quelle altre barbare tormentose esecuzioni che chiamar si potevano più che morte. È probabile, dissero alcuni, che ciò fosse fatto a’ SS. Giovanni e Paolo, perchè certa cosa è che i giustiziati erano in antico colà sepolti. Ma che che si dica sopra tal rapporto, una costante tradizione asserisce, che il senato ordinò in seguito le pubbliche esecuzioni di castigo nell’ intervallo di dette due grandi colonne. E così quel luogo divenne infamissimo e disonoratissimo.
Il rimedio non fu senza efficacia. Ogni ben nata, sensibile ed onorata persona fuggì di trovarsi in quel sito spessissimo bagnato di umano sangue ed in cui la fantasia ti mostrava i pendenti cadaveri, le teste mozzate, e parea farti udire i lai dei meschini torturati da lenta e cruda morte. Il ribrezzo tanto crebbe e si conserva anco al presente, che la più parte delle persone sfugge trapassare per quello spazio, ove veggonsi le quattro bianche bucate pietre, su cui alzasi la forca od il palco di sanguinosa giustizia.
Ma la feccia del basso popolo, que’ ragazzacci detti a Venezia, con ragione, birrichini di piazza, in cui ogni funesto avvenimento torna a diletto anzichè a dolore, si risero delle tristi rimembranze e della infamia e turpitudine di quella gogna. Seguirono e seguono a giocare per lo meno sui gradini di dette colonne; e ne vidi alcuni, oltre al denaro, perdere anco il vestito, e colà vergognosamente imanere quasi ignudi. Questi perdenti disperati già si esercitano nel mestiere del borsaiuolo od altro di peggiore, e così ancor trovano fonte al tanto riprovevole vizio.
Mi recai poscia all’ingresso del palazzo per vedere a portarvisi quel gran numero di faccendieri, d’ impiegati e di causidici. Questi si raccolgono prima di tutto sotto al Broglio a cianciare ed a prestabilire affari. Questo nome broglio significa tumulto, e fu devoluto a quel porticato perchè colà aveano principio le sommosse a tempo antico e se ne disputavano i motivi. Colà poscia attendendosi i personaggi autorevoli che givano a palazzo, si studiavano i mezzi onde averli amici ed ottenere su vari punti ciò che si bramava. Ciò chiamossi brogliare.
Indi mi posi a passeggiare lungo al listone, fermandomi talvolta ad udire, già per un istante, i ciurmatori che cominciavano i loro affari.
Queste mie fermate e passeggiate per la piazzetta e piazza e procuratie durarano ben più di un’ ora. Quando perchè stanco un poco, volea recarmi a cesa, sono abbordato da politissima persona, che dichiarommi aver brama dirmi una sola parola in un caffè di mia scelta.
Il contegno di questa persona mi parve si cortese e nobile, che tosto, senza nulla chiedere, accondiscesi. Entrammo nel caffè giù pel ponte dei Dai (1), e ci ritirammo là in uno stanzino.

(1) Dai viene dal francese Dais, che in antico pronunziavasi come era scritto. Questa parola significa fabbricatori di baldacchini, stoffe ed altri oggetti relativi al culto. Venuti di questi lavoranti dalla Francia in Venezia, aprirono botteghe vicine a quel ponte.
Certa cosa è, che i Veneziani stabilirono i mestieri e le arti in appositi locali, e che i nomi delle vie e dei ponti quasi tutti ad una professione si riferiscono. Alcuni di questi nomi rimasero guastati pel solito progressivo difetto delle lingue; ma nella più parte ancora si conservano precisi.
Di questi titoli di mestiere molti se ne tolsero dalla lingua toscana molti dalla latina la quale durò nel veneto foro circa fino al 1500, e non pochi dalla greca, dalla francese dalla tedesca e fino dall’ araba. Il commercio estesissimo dei Veneziani ne fu il motivo.
Per esempio, dal francese vennero le parole: scarpia (cherpie ), filaccia, cencio ec.; savater, ciabbattino; articioco, carciofo; sculier, cucchiaio; criar, da crier, gridare, ec. E chi avesse pazienza di esaminare i dizionari di varie lingue europee, troverebbe etimologia di molti termini veneziani comuni, che nell’ idioma toscano non si rinvengono.
Accennerò pochi di questi nomi la cui origine è oscura. Ponte della pannada cioè pella impannata, spècie di panno assai grosso, che a modo di cortina copriva in antico le finestre al di fuori; ponte delle tette, cioè delle tede, specie di fiaccole a que’tempi usate; calle della bissa, cioè della birsa parola in greco e latino significante cuoio, perchè in fatti i venditori di cuoi erano colà confinati; sottoportico della scrinia (a San Cassiano), cioè scherma, perchè colà eravi scuola pegli schermitori; ponte delle spade (poco di là lontano), perchè in antica osteria si raccoglievano quelli che poi passavano ad esercitarsi in detta scuola. Siccome poi questi stupendi cingevano la smara, cioè quella spada senza taglio e punta o con bottone nella estremità detta spassetto, e giravano perciò allora molto gravi e sostenuti, così ne venne il proverbio veneto che indica un uomo serio col dire: el ga la smara: campiello delle mosche, luogo ove si fabbricano i così detti nei o mosche, pezzetti di taffettà di seta nera gommata, che usano le donne, ed anco qualche uomo, porsi qua e là sul volto per far vieppiù risaltare la bianchezza della carnagione; calle della toletta, dal francese toilette, via ove stavano i profumieri, i compositori di belletti e cosmetici, venuti in antico dalla Francia; ec.
Ma molto ingegno e pazienza chiederebbesi per proseguire una tale non facile ricerca. Questa però inutile non sarebbe per la erudizione e per dilucidare alcuni punti di storia e di venete costumanze.

Bevemmo il caffè, e l’ignoto scusossi prima di quanto in seguito dirmi dovrebbe. Poscia mi chiese, se io avessi qualche colpa che rendermi sospetto alle leggi potesse.
Mi posi a sorridere, e gli dissi, che, grazie al cielo, non poteva rimproverarmi su tale rapporto della menoma mancanza.
Ella vi pensi ben bene, soggiunse l’ignoto.
Oh! posso assicurarla, risposi con qualche calore, che non ho niente di gravoso sulla mia coscienza.
Ella si fidi di me, seguì quegli a dirmi. Mi darò a conoscere. Un forastiero può, senza avvedersene, essere caduto in qualche cosuccia contraria alle leggi di questo governo.
Mi posi allora a pensare, e poscia dissi a quel gentile ignoto: io sono uso fuori di città tenere indosso un paio di pistole. Al mio ritorno le depongo subito, ben sapendo che il portarle in città è severamente proibito. Questa mattina tornai dalla campagna, e ciò non ho ancora eseguito. Qualora questo…
Ecco certamente il vero motivo, sclamò quel pulito signore. Sappia che di buon mattino sono sortito di casa per godere della mattutina freschezza. Vidi lei in piazzetta, e rimarcai un uomo, da me conosciuto per quello ch’è, avvicinarsele pian piano e porle sul vestito un piccolissimo filo di seta. Io so che gli spioni segnano in tal modo le persone scoperte da loro oppure da altri avvertiti, che mancano a qualche importante prescrizione o sono sospette o colpevoli di qualche delitto.
La girante sbirraglia, tosto che mira uno con tal segno o filo, la cui lunghezza e colore è già prima stabilito, lo arresta sul momento.
Temetti in me stesso per lei, sembrandomi che il suo aspetto esser quello non potesse di un delinquente. Mentre ella nel mezzo a folla di gente camminava, me le avvicinai e con destrezza le tolsi il piccolo filo. Ma da lì a poco vidi che lo stesso uomo, avendo rimarcato ch’ella non avevalo più, e di certo credendolo caduto, gliene pose un altro con somma abilità. Allora pensai di avvicinarmele, di toglierle pur questo nuovo segno e di renderla avvertita di tutto ciò, onde sottrarla al certo prossimo pericolo.
Ringraziai di tutto cuore quella ottima persona. Depositai tosto al caffettiere le mie pistole.

Misteri di Venezia, Volume 1 – 1858
Di Edmondo Lundy

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