La storia del gatto Bobino

Titolo originario: Le tribolazioni di Bobino

Di JACK LA BOLINA.

CAPITOLO I.

Dove l’eroe, che è un gatto, si presenta non senza felina circospezione al lettore.
Primi miagolii dell’infanzia.

ATTENTI!
Mi alzo in piedi sulle impigliate gambe posteriori, pongo la zampetta destra sul cuore (abbiamo anche noi gatti un cuore, nonostante quel che in contrario dicono gli uomini), fo una bella riverenza e mi presento al pubblico. Ho molto esitato prima di risolvermi al gran passo di mettere in carta le mie avventure.

Ma l’ho visto fare a molte persone ammodo e non vedo perchè anche noi bestie a quattro gambe non potremmo imbrattar la carta come le bestie che ne hanno due. Sarò sincero nelle mie narrazioni, e se non dirò sempre tutta la verità, gli è perchè è vecchia costumanza dei gatti di nascondere sempre le brutte cose che fanno. Scriverò dunque da gatto, poichè non posso fare altrimenti.
Potrei dirvi che discendo in linea retta dal famoso Chat botté, immortalato da Perrault. Ma perchè incominciare con una menzogna? Lascio coteste vanità a quell’animale vanitosetto anzichenò che è il cane levriero, le inutili divagazioni alla cornacchia, e le furberie smodate alla volpe. È perciò che non mi inorgoglirò della mia lontana parentela col leone, colla tigre, colla pantera, col leopardo e con altri miei affini. Non ho nulla di comune col pipistrello, che quando sta in compagnia di uccelli, si dice loro parente per causa delle ali su cui si libra nell’aere crepuscolare (con poca grazia però), ed allorchè s’imbatte coi topi, si dà per un lontano cugino, e a prova dell’asserzione mostra il musetto topesco e il pelame di famiglia.

Ho cambiato molti nomi a seconda delle contrade nelle quali ho peregrinato. Nella prima infanzia ho sentito chiamarmi Bobino, in Inghilterra mi chiamarono Pussy, in Francia Raton.
Mio padre era un bel gattone dal soffice pelo grigio, dai lunghi baffi, dall’incesso cauto ed elegante assieme, un vero gentiluomo della razza. Stava di casa in via San Francesco di Paola, al numero 21, in Torino, presso il conte Gino Ponza di San Martino. Era un gatto di bellissimi modi; presidente del club che radunavasi seralmente sul tetto dello stabile, membro influente di parecchi altri clubs poco distanti, menava un’esistenza molto svagata. Fuori delle ore dei pasti stava in casa molto di rado, salvo che nell’inverno. Appena le gemme mostravansi sugli alberi dei giardini circonvicini, cominciava a far visite alle sue numerose conoscenze

Nella circostanza d’un banchetto a pic-nic, che ebbe luogo sul muro divisorio delle case numero 22 e 23 — portò per sua parte un cardellino bellissimo, la cui perdita mostruosa fu cagione di molti pianti ad una bella signorina — conobbe la bianca micia che fu poi la madre mia, tenera ed amorosa. Apprese a stimarla alla prima intervista. La bella creatura, sebbene di persona sottile, aveva recato seco al convegno uno splendido sorcio di smisurata mole e di vigore non comune. Il detestato animale non era ancor morto, e la robusta zampata, con la quale la mamma lo stramazzo al suolo, destò nel babbo una sincera ammirazione. A pasto finito, i due vicini di mensa intavolarono una lunga conversazione, interrotta da graziosi purr-purr, e da ben modulati miau-miau.
Il babbo aveva insinuante la voce, la mamma compiacevasi d’ascoltarlo. Godevano ambedue di non comune agiatezza. Cominciarono le mutue visite, poscia la mamma avendo perduta di buon’ ora la madre sua, sgozzata da un vecchio e feroce bull-dog, si evitarono le formalità delle domande di matrimonio alla famiglia, e i miei parenti si accasarono nella cantina del conte San Martino. Colà i miei occhi s’aprirono alla fioca luce dell’ambiente. Due miei fratellini morirono giovanissimi, beccati da un corvo addomesticato del fruttaiuolo della cantonata. Il babbo, che tornava da spasso, mi salvò dall’eccidio. Non ebbe neppur bisogno di usar le unghie affilate, bastò il soffiare di lui perchè il corvo saltellasse via a lunghi sbalzelloni urlando cra-cra-cra.
Le cure della mamma furono tutte rivolte a me solo, e forse è a questa circostanza dell’esser io figlio unico che debbo la educazione fina che ho ricevuto. La mamma sorvegliò il mio buon nutrimento, il babbo mi volle compagno di certe sue escursioni nelle cucine dei varii inquilini.

– Figlio mio – mi diceva sovente – fatti accarezzare da chiunque, ma non andar a desinare che in casa di gente ricca. Frequenta le cucine dei piani nobili, sfuggi quelle dei piani troppo alti e dei mezzanini. Migliori le case dove c’è un cuoco, che quelle in cui c’e una cuoca.
Queste ultime non tollerano mai che un onesto gatto porti via un buon boccone. Allorchè offrono al gatto le budella crude d’un pollo etico, par loro d’aver fatto gran che, e poi chiudono tutti gli armadi a chiave.
Attienti ai cibi seri; non ti lasciar trasportare dalle passioni per i manicaretti inzuccherati; non valgono nulla. Puoi far eccezione per le creme; queste te le raccomando.
La mamma, più che salutari avvisi, mi dava pratici insegnamenti circa il modo di far la mia toilette. Nei suoi ascendenti annoverava un gatto d’Angora e ci teneva assai; era molto delicata di pelame e pretendeva che io avessi molta cura del mio, che – a que’ tempi – era veramente bello per la sua non comune finezza.
Eppure i miei primi dolori mi provennero dalla mia docilità agli insegnamenti de’ miei parenti.
Una sera che in compagnia di mio padre e di alcuni amici stavamo leccando un magnifico piatto di fior di latte, un maledetto lacchè ci sorprese. Il babbo e gli amici se la svignarono, o, come dicono gli uomini, sgattaiolarono.

Bobino è sorpreso dal lacchè

Io mi volli ripulire i baffetti intrisi di panna, e chiappato inumanamente per il collo, fui scaraventato fuori dell’uscio in mezzo alla strada. Là m’assali un mastino; presi la corsa, infilai l’uscio dell’osteria del Cannon d’oro e mi nascosi sotto il banco della padrona.
La vita d’un gatto in un’osteria è molto meno gradevole di quanto si creda. Ci è troppo rumore, e i dolci pisoli – gioia della mia razza – sono disturbati dalle grida e dagli schiamazzi degli avventori.
E poi gli osti pretendono che noi, quando godiamo la loro ospitalità, si viva solo di topi. Topi! È facile dirlo; ma non facile ad acchiapparlo un vecchio topo di esperienza! E poi, francamente, c’è troppe ossa e non abbastanza carne, e…. poi un terrore continuo d’esser servito sotto mentite spoglie di lepre. Mio padre mi aveva raccontato come gli uomini non si facessero scrupolo talvolta di cibarsi di noi, ma non lealmente, sibbene mascherandoci da lepre.
Una volta, mentre io facevo le fusa presso al camino, udii due avventori chiacchierare col padrone di un certo banchetto luculliano, fatto sopra un gatto grigio chiappato in via San Francesco di Paola. Il terrore mi invase; mi destai completamente, e siccome l’uscio di strada si aprì per l’entrata d’uno dei soliti notturni bevitori, di un balzo mi lanciai nella via e mi trovai solo nel mondo. Due interminabili file di lampioni a gas mi segnavano la strada. Il lastricato era umido per la pioggia che cadeva incessante; provavo l’impressione più sgradita ad un gatto, l’acqua. Contro i muri delle case mi posi a camminare, a camminare, a camminare.

CAPITOLO II.

Dove si narrano le prime tribolazioni e come « sappia di sale lo pane altrui. »

VAGAI tutta la notte: il minimo rumore mi spaventava; negli uomini attardati che rincasavano rimbacuccati nel pastrano e riparati dall’ombrello scorgevo nemici, e subito pigliavo una strada di fianco. Nei portoni, chiusi a quell’ora, non avevo modo di penetrare per procurarmi un asilo. Dopo mille giri, estenuato, intirizzito, miagolante, mi lasciai cascare in terra di fronte ad un magnifico palazzo in una piazza, che poscia seppi chiamarsi piazza Cavour.

L’alba e poi un’aurora scialba scialba mi trovarono in quello stato di prostrazione. Ora che sono adulto, so sopportare molto più lungamente la fame, la sete e la pioggia; ma allora io ero un gattino giovinetto e gracile ancora. Come Dio volle, il portone del palazzo s’apri ed un servitore impietosito del mio stato mi prese in braccio e mi ricoverò nella loggetta del portinaio, dove un bel fuoco mi asciugò il pelo, e rese alle mie membra intirizzite un vigore relativo.
Seppi dov’ero ricoverato. Il palazzo apparteneva al conte Biscaretti, e poco discosto alzavasi un villino ove dimoravano i figliuoli di suo figlio Roberto. Venni da essi scoperto allorchè tornavano da scuola; mi vollero portare in casa e domarono le opposizioni blande della madre e del babbo.
A primo aspetto la mia situazione era invidiabile. « Casa di prim’ordine quella lì » avrebbe detto mio padre.
« Buone ed abbondanti le vettovaglie, buona la notturna cuccia, ma… »
Amici miei lettori, sarà perchè appartengo alla nobile razza de’ gatti, sarà perchè istintivamente detesto il cane (animale soprammodo domestico), ma v’accerto che quella dorata schiavitù mi venne tosto a pesare. Laura, Guido, Ermanno, i miei padroncini, mi colmarono di carezze, ma inceppavano la mia libertà d’azione. Bramavano sempre giocherellare. Per poco che m’assentassi: « Dov’è Bobino ? » esclamavano, e via, a cercarmi.
Cominciai ad annoiarmi di tanto affetto per me, sgraffiai, mi percossero i servitori, scappai, ed un maledetto collarino che mi avevano posto attorno al collo, e che per soprammercato aveva due sonaglietti traditori, mi fa ritrovare ed una guardia di città mi consegnò ai miei padroni. Non posso nascondere ai lettori che l’arresto mi procurò acerbo dolore, inquantochè nella mia breve libertà avevo contratto una dolce amicizia per una Minnia – cosi chiamavasi la cara mia sorella di razza, che prima ascoltò la narrazione delle mie vicissitudini.
O Minnia, o amica mia dal fulgido pelame rosso, serbi ancora ricordo del tuo affezionato Bobino?
Gli anni non hanno ancora cancellato nella mia mente nè il mesto tuo miagolio, nè il tuo occhio maliziosetto, nè le tue movenze graziose che ammirai sì fortemente allora che uniti in comune intento sorprendemmo cautamente una nidiata di passerotti.
O Minnia, ho molto viaggiato, ho lasciato alle spine della via percorsa molti brandelli del mio cuore e molti peli del mio serico volto, ma non ha mai più incontrato una creatura tua pari. Mentre la guardia di città mi traeva seco, io udii il tuo pianto; lo riudii la notte di quel giorno tremendo. Ero prigioniero in una camera buia, ero in preda ad atroce tortura fisica, e tu, poverina, fuori del carcere dove gemevo, nella notte stellata miagolavi di dolore e di compassione. Ma non anticipiamo gli eventi.
Mi portano dunque a casa. Guido Biscaretti era, per penitenza dei miei peccati, in vacanza dall’Accademia navale. Propone alla sorella ed ai fratelli di sottopormi a consiglio di guerra, ed essi acconsentono; solo Laura, più pietosa degli altri, vi si oppone, ma poi cede ancor essa. Mi notificano l’atto d’accusa: io miagolo invano; mi giudicano senza ascoltarmi, mi condannano a portar le scarpe per ventiquattr’ ore, ed al carcere nelle ore della notte. Guido allora prende due noci, le vuota, ed a viva forza, nonostante la mia difesa e due sgraffi che glifo, calza i miei zampini nei gusci delle noci. Mi divincolo, ed una quadruplice risata echeggia nel salotto; io tento di camminare, ma barcollo e scivolo; uno specchio sulla parete riflette la mia immagine, e la riconosco ancor io goffa ed impacciata.
La tortura non cessa; no, i bambini si divertono nel vedermi scivolare miagolando di stizza. Sgraffio Ermanno, e questi ride, tanto si diverte; scappo a balzelloni sotto un seggiolone, ma Guido mi scaccia da quell’asilo.
Viene il felice momento che i miei carnefici a passeggiare: tento di levarmi quell’incomoda calzatura.
Orrore! orrore! Guido aveva spalmato di pece l’interno dei gusci, il calore dei miei poveri zampini aveva liquefatto a mezzo la pece; io ero tutto appiccicato alle dannate scarpe!
Ludibrio di tutti, che alle mie grida rispondono collo smascellarsi dalle risa, mi parve bazza quando mi toccò scontar la seconda parte della mia pena e quando mi si dischiuse la porta del carcere.
Brav’ uomo il conte Roberto, buona signora la contessa Beatrice. Seppero da Laura la tortura inflittami; Guido ebbe ordine di liberarmi dai gusci di noce; ebbe anche una sgridata perchè aveva martoriato una innocente bestia. Guido aiutato dal cocchiere mi liberò gli zampini non senza farmi soffrire atrocemente; la pianta del piede mi doleva tanto, che appena potevo camminare. Non osai mettere il muso fuori dell’uscio.
Chi diavolo aveva raccontato a Silvio Davico che noi gatti siamo ghiotti della valeriana? Già, questi ragazzacci d’oggidì a scuola imparano ogni sorta di cose.
Silvio Davico è un nipote di Jack la Bolina; è amico dei Biscaretti. Capitò in visita, udi la narrazione dei casi miei, e gli venne in mente di divertirsi alle mie spalle. Andò dal farmacista che sta in via della Rocca, comprò due soldi di valeriana, la pose con un po’ di latte in una scodella e me la porse.
Già il latte, la crema, tutte insomma quelle buone cose che piacciono agli uomini e che pretendono serbar per sè, come se noi gatti non s’avesse diritto di vivere in questo mondo, sono state sempre la mia rovina.
Avrei dovuto mettermi in guardia contro quella spiccata cortesia di Silvio Davico; avrei dovuto comprendere la malizia che gli balenava negli occhi azzurri. Ma no, quella tazza di latte mi acciecò l’intendimento e bevvi.
La prima impressione che provai su dolcissima: un tepore a me ignoto fino allora mi serpeggiava fra pelle e pelle; mi sentivo una gioia tranquilla e serena: ed insieme una voglia prepotente di saltellare, tale che non potendo più resistere mi diedi a ballare per la camera. I monelli ridevano ed io ne doventavo ancor più allegro.
La matta voglia di ballare cresceva ed io cominciai, come se mosso da più potente volontà, a spiccar salti dal tappeto sopra un sofà; da questo mi slancio sopra una tavola su cui era una coppa piena di fiori. La coda mia percuote la coppa, e la rovescia in terra: i bambini gridano ed io con gaio miagolio do in un altro splendido salto e colle zampine anteriori cospargo il suolo di tazzette di China e di vetri di Murano. Un moto di spavento dei bambini accompagnò l’ecatombe di quella roba ed io miau! miau! fo a brani un cuscini turco… Che gioia provavo!…
Ho ancora da capire adesso per qual ragione il conte Corrado Davico m’ha chiappato poco dopo per la nuca e m’ha dal primo piano fatto capitombolare sopra un cactus orribilmente spinoso. Non so negare che ho sgraffiato suo figlio Silvio, ma anche il signor Silvio perché si dilettò d’interrompere il mio divertimento con una pedata solenne che mi vibrò? Come fosse la cosa più naturale del mondo, io allora gli saltai sul collo e gli infissi le mie unghie color d’agata sulla guancia sinistra dando in un miau guerriero. O che non si mise a strepitare come una gazza quel buffoncello? Accorse il conte Corrado, la contessa Elena, i Biscaretti, i servitori, le cameriere, tutti insomma. Sembrava il finimondo. La conclusione fu che il cactus mi accolse nelle sue braccia non soverchiamente amorose. Ma io, rimessomi prontamente, corsi nella scuderia e mi rifugiai colà.

Il mastino aggressore di Bobino

Non l’avessi mai fatto! Un certo mastinaccio vile, del quale nessuno sospettava l’esistenza, un cagnaccio da pastore, contadino mal creato, mi si slancia addosso con un ringhio feroce. Io paro un morso con una zampata sopra quel suo muso villano e salto di fianco; prima che il signor Cane siasi leccato lo sberleffio son fuori della scuderia e di botto m’infilo nella serra.
Contavo trovarvi asilo tranquillo, ma no, che mi si affaccia allo sguardo una scimmia che Guido aveva recato seco dal Brasile. Quella brutta copia degli uomini mi fa una smorfia e si mette a soffiare.
Ecco, dal mastino ero fuggito, a malincuore, ma ero fuggito. Il mastino se giunge a prenderci per la collottola ci ammazza di colpo co’ suoi dentoni: e consiglierò sempre ai miei pari una precipitosa ritirata davanti a sì temibile avversario. Il ringhio sguaiato di quello scimmione inconcludente non lo sopportai.
Ma che, davvero davvero? Io che avevo fatto impaurire Silvio Davico potevo indietreggiare di fronte a quel bertuccione stolido? Lo fissai ben nel muso, mi raccolsi per un bel salto, imitai per quanto potei il ruggito del mio principesco cugino, il leone, e ad unghie aperte gli saltai addosso. La bestiaccia urlò come un dannato e capitombolò dalla scranna su cui era accoccolata. Si fosse contentata d’un grido solo; ma no, continuò a fare un casa del diavolo che chiamò nella serra tutta la turba de’ miei persecutori. Si muoia bene, dissi io fra me; si muoia colla schiena’ al muro, da gatto di buona mamma…. e mi disposi a vender cara la pelle.

Lo scimmione nemico di Bobino

Non amo vantarmi de’miei fasti guerreschi; lascio di buon grado codesta debolezza ai cani ed agli uomini, che si metton d’accordo e pongono nel loro giuoco un fucile carico a pallini per fulminare una quaglia, una povera bestia che noi gatti uccidiamo con una semplice zampata. Solo dirò che il mastino, che furiosamente latrando si era posto all’avanguardia, andò presto all’ambulanza, che le signore se n’andarono via spaventate, che il cocchiere ebbe un morso in un polpaccio e che finalmente il conte Roberto, stanco di quel chiasso, allontanò tutti e chiamandomi col caro nome di Bobino mi persuase ad abbandonarmi alla sua clemenza. Lasciai la muraglia testimone della mia difesa e miagolando feci atto di sottomissione. Udii che il domani mi avrebbe portato seco a Genova per stabilirmi sul proprio yacht, l’Ondina.
I lunghi viaggi che ho dipoi intrapreso, la frequentazione di molti distinti uomini, e lo aver liberato dai topi che la infestavano la biblioteca del presidente della società geografica di Rio Janeiro, hanno concorso a far di me un gatto che s’intende di carte e di mappamondi. Allora io pertanto ero al principio de’miei studi, che furono sempre pratici, e Genova non sapevo che diamine fosse, e neppure un yacht.

CAPITOLO III.

Nel quale Bobino racconta le sue impressioni di viaggio in ferrovia da Torino a Genova.

Quando il cocchiere mi ebbe chiuso in un canestro di vimini, ecco io non posso dire che il cuore non mi battesse forte forte e… di paura anche. Dai pertugi del canestro potei vedere che mi posero sul cassetto di una carrozza, poi di là fui disceso in un androne coperto, e poi passato di mano in mano fino in una scatola enorme, che poi ho saputo essere il vagone dove viaggiano i quadrupedi minori, cani, gatti e che so io.
Di gatti ero solo, ma in certe gabbie erano molti cani: e l’esser dessi così racchiusi dietro grate di ferro mi procurò immensa soddisfazione.
Potei immediatamente provare una volta di più l’orgoglio d’esser gatto e non cane. Quei miei compagni di domicilio forzato sfogavano la loro paura in una moltitudine di suoni e di parole; chi guaiva, chi latrava, gli uni lamentandosi come imbelli femminette, gli altri rendendosi rauchi a forza di bestemmie e d’imprecazioni. Noi gatti, allorquando la sventura ci visita, taciamo; non diamo spettacolo ad altri delle nostre pene. E non so quanto tempo avrei dovuto continuare ad ascoltare quelle volgari inanità, se un potente fischio, un suono di campana ed un monotono tron-tron della scatola, non avessero posto termine all’inutile sfogo di quelle passioni canine.
Appena fermavasi la scatola, i miei compagni ricominciavano supinamente a guaire ed a latrare, per cessar ancora allorchè la scatola movevasi. Insomma, per farvela breve, a Genova ci arrivammo. Fui tolto dalla scatola, posto un’altra volta sopra un legno, poi portato sull’Ondina. colà mi estrassero dal paniere e potei esaminare il mio nuovo domicilio.

È l’Ondina un cutter da diporto. Non troppo grande veramente, ma assai comodo. Sopra il sofà della camera di poppa ho schiacciato alcuni fra i più dolci pisoli dell’esistenza mia.
Oltre al mio protettore Roberto Biscaretti, erano a bordo il nostromo Michele, il marinaio Giorza Baciccia il mozzo.

Baciccia che fa l’altalena

Con questo, io lì sulla bella prima non volli aver troppa dimestichezza, poichè dopo Guido Biscaretti e Silvio Davico, i fanciulli m’erano diventati odiosi; ma Baciccia era, credo, un’eccezione. Forse la sua felina agilità me lo rese simpatico, forse anche quel tal mal comune che dicono sia mezzo gaudio.
Il nostromo Michele non gliene perdonava una; se si dondolava su un cavo foggiato ad altalena, correvano scappellotti; se canterellava nel lavorare a qualche attrezzo di bordo, scappellotti.

Il nostromo che punisce Baciccia

Diventammo inseparabili; la sera, allorchè Baciccia andava a letto era sicuro che io m’affrettavo di raggomitolarmi ai suoi piedi. Al mattino la prima cosa ch’egli faceva era di darmi da mangiare. E veramente quell’esistenza non dispiacevami affatto.

Baciccia che lavora canterellando

L’accurata pulizia dell’Ondina, la buona qualità delle vettovaglie e taluni sorcietti delicati che chiappavo di tanto in tanto ne’ recessi dell’yacht allietavano la mia vita. — Bobino — esclamavo — tu hai alfine trovato la tranquillità; non far scioccherie, sii prudente, sii oculato.

Ed io lo sarei stato…. se…. se la sorte dei gatti come quella degli uomini non fosse regolata dalle loro passioni.

Presso al luogo dove l’Ondina era ormeggiata (che è quanto dire legata al molo), giungevano notte e giorno vapori di commercio. Anzi assai mi dilettavo di guardar quelle belle e maestose navi ancorare e legarsi a terra con grossi cavi e con catene.

I bastimenti ancorati vicino all’Ondina

Ed una sera che me nestavo mezzo sonnacchioso a digerire una nidiata di topini tenerelli da me chiappati nella dispensa di bordo, guardando il bellissimo vapore inglese Maria ancorato presso di noi, mi colpisce l’orecchio un miagolio che richiama al mio pensiero altri tempi. Apro gli occhi e scorgo sulla prora della Maria un gatto dal pelame fulvo rossiccio. Rispondo con un miau d’invito; e dalla Maria ottengo risposta. Oh! Dio della mia razza, sii benedetto! Io lo conosco quel pelame, io la rammento quella voce melodiosa! È la mia Minnia tanto amata che dalla Maria guarda me! Non pongo tempo in mezzo, spicco un salto dall’Ondina in un battello, dal battello un altro sulla scala del vapore, fo a quattro a quattro gli scalini balzo sulla prora della Maria, sono ai piedi di Minnia.

Lettore, non supporre che io ti voglia ora raccontare le gioie dell’incontro di due gatti che si vogliono bene. Codeste gioie non si descrivono; ancorchè lo volessi, non lo potrei; perchè il micio verso il quale mi ero slanciato col cuore traboccante d’affetto non era Minnia; era un gatto britannico che ti presento subito.

Thomas Puss, Esquire di Dundee, gatto del vapore Maria dell’Anchor Line, può a buon dritto venir considerato un perfetto gentiluomo anche nella nostra razza, che non contiene creature volgari.
Nel congresso dei gatti che nell’anno 1880 si è tenuto sul tetto del Palazzo del Parlamento in Londra egli ha rappresentato il collegio elettorale di Glascovia.
È l’autore di una eloquente protesta contro l’introduzione nelle case degli uomini di quell’istromento chiamato torci-budella, inventato da un tedesco per uccidere i topi. Sportsman appassionato, egli considera che il topo non deve esser distrutto da altro mezzo che non sia l’artiglio del gatto. Un triplico miagolio di plauso accolse la sua mozione, ed il congresso gli offrì in quella memoranda circostanza un banchetto di cui ho saputo da lui la ghiotta minuta che qui trascrivo, lieto di poter portare a conoscenza degli uomini che anche noi sappiamo far le cose per benino:

CONGRESSO DEI FELINI BRITANNICI

Marzo 1880

PRESIDENZA SIR TABBY TOMCAT.

HORS D’OEUVRES. — Passerotti di nido. — Gamberi di Rochester. — Raganelle di Kew-Gardens.
MINESTRA. — Ravioli al Parmigiano. — Riso al latte.
Salmone con salsa d’ostriche;
Scoiattolo in addobbo contornato di ghiri alla Petruccelli della Gattina;
Talli di valeriana al burro di Brettagna;
Pasticcio di talpe campagnuole;
Crema alla valeriana;
Rondinelle arrosto;
Ricotta del Devonshire e Mascarponi di Lodi;
Formaggi di Chester, Stilton, Olanda e Gruyère;
Sangue di pollo.

Ma ora ho camminato un po’ troppo col mio racconto. Torniamo a bomba, come suol dirsi. Appena fui giunto presso il bel gattone rosso mi accorsi che non era la mia Minnia che io avevo scorta dal ponte dell’Ondina. Ma la buon’accoglienza fattami mi decise a rimanere a borbo della Maria.
— Voi non mancherete di nulla qui a borbo — mi disse Thomas Puss. — Il rispetto che i marinai portano al gatto è immenso. Il gatto di bordo è sacro ed inviolabile. Se muore, è considerata la sua dipartita come segnale di prossima sventura. Cosicchè tutto gli è perdonato. Poi una nave, specie se di buona dimensione, è un parco per quanto concerne la selvaggina.
I topi vi abbondano e vi nidificano volentieri. Rimanete dunque meco; non avrete a pentirvene. Credo che fra pochi giorni lasceremo questo porto e potremo insieme studiare i costumi di paesi nuovi, paragonarli ai nostri e farci un’idea della vita gattesca fuori dell’Europa.

CAPITOLO V.

Nel quale si narrano cose di vario genere.

ALLORQUANDO dalla prora della Maria guardai la piccola Ondina, lanciai agli echi del porto di Genova un miagolio d’alta soddisfazione.
Presentii che la Maria avrebbe deciso della mia sorte; compresi che il mio mentore avrebbe completato la mia educazione.

Bobino — dicevo a me stesso — ecco l’occasione propizia per girare il mondo; non sopra un piccolo yacht, che alla più lunga sta fuori del porto un paio di giorni, ma sopra un maestoso vapore, bello, forte, agile camminatore, a quanto mi ha detto il mio protettore inglese.
E quando caddero le tenebre del primo giorno, ambedue ci demmo risolutamente a cacciare.
Bella la vita della Maria, ma non oziosa, veh? Mai che i marinari mi lasciassero qualcosa da leccare nella gamella! Una sola volta mi riusci a penetrare nella dispensa ed abboccai un rimasuglio di colazione del capitano. Non lo avessi mai fatto! Il mio palato di gatto italiano fu scottato da quei condimenti britannici!
Ho poi saputo da Thomas Puss che il pepe di Cayenna e la Worcester shire sauce ed il Chutney formavano la base della salsa chiamata non a torto salsa alla diavola.
Convenne rifarsi sopra i topi. Ma non sopra i poveri topini di nido, che fino allora erano stati scopo delle mie cacce, ma sopra toponi robusti come quelli di bordo; toponi nutriti, forti quasi come gatti.
Una notte, se Puss non giunge in mio soccorso, una maledetta coppia, cui tentavo rapire i piccini, mi conciava per il dì delle feste. La madre mi diede due morsi, dei quali serberò sempre le tracce.
Che battaglie! e non sempre incruente per noi.
Il carico era di granturco; i topi a bordo abbondavano. Nello scaricare, molti di essi seppero ficcarsi nelle barcacce colme di formentone e seguirlo nei magazzini di terra; molti rimasero con noi.
Siccome poi noi si mise nelle stive quattrocento tonnellate di marmo per destinazione a Nuova York, e che anche a’ denti di topo il marmo è duretto anzichenò, la nostra selvaggina cominciò a soffrire la fame.
Gran brutta consigliera la fame! e dà coraggio felino anche ai più paurosi. Il mio mentore, che la sapeva lunga, mi aveva, sì, raccomandato di dormir con un occhio aperto; ma io, con la sventataggine della giovinezza, non feci tesoro del consiglio.
Giù nelle tenebre della stiva, mentre mi riposavo fra due blocchi di marmo, e mentre anche Thomas Puss dormiva (il che vi dimostra o lettori che sovente i consiglieri buoni operano male) fummo assaliti da una banda famelica.
Si dovette, dai due lati del corridoio che separava i blocchi, far fronte agli assalitori, i cui morsi ci avevano destati; quelle bestiacce insatanassate lavoravano d’unghie e di denti; miravano alla gola ed all’inguine.
Noi li sbranavamo a colpi d’artigli. Come sarebbe andata a terminare la faccenda non so; volle ventura che i sani si buttassero a divorare i cadaveri, e cosi si ebbe un po’ di tregua; e noi…. ci ritirammo in buon ordine e vicendevolmente ci leccammo le numerose ferite, e ci lisciammo il pelo arruffato ed insanguinato.
Ma io non ho ancora detto nulla come stavo in alto mare.
Ahimè! non bene davvero in principio! Il soggiorno sulla Maria nel porto era bellissimo; ma allorchè essa mosse per il largo, la quistione cambiò aspetto.
La dolce tranquillità della digestione di un magnifico topo grigio mi fu acerbamente conturbata da una sonnolenza dolorosa che parecchi sussulti di stomaco conturbavano a sbalzi.
Quel maledetto topo mi saliva su dai precordi, e poi tornava a discenderci come se — restituito alla vita terrena — s’arrampicasse lungo le pareti dello stomaco e dell’esofago.
Il terreno — chiamiamolo così per intendere i vari saluto impiantiti della nave — sfuggiva alla presa delle mie zampine. Insomma, provavo simultaneamente il malanno dell’ubriacatura di valeriana, ed il tormento de’gusci nello di noce inflittomi dai monelli Biscaretti.
Il mio mentore mi spiegò il fenomeno in due parole: io avevo il mal di mare.
Oh, se i topi si fossero messi allora a mordermi, temo che veramente non avrei saputo opporre alcuna resistenza. Ma Puss non si scostò mai da me che per iscopo di corta caccia, e credo che ancora i topi, od almeno i nuovi imbarcati, soffrissero del mio male.
Questo non fu pertanto di lunga durata; adagino adagino sminuì, sino a che cessò affatto. Presi ciò che gli uomini chiamano il piede marino, ed ogni tanto salivo sul ponte a prendere una boccata di quell’aria così buona che respirasi in mare.

Ma la felicità purtroppo non è eterna neppure per i gatti: e le mie prove della vita navale non dovevano esser tutte avventurate.
Una notte la Maria si fermò di repente: ero nella stiva di prora accovacciato in agguato per chiappare un grosso sorcio cui facevo la posta con la pazienza che ci distingue, quando sentii strisciare la nave contro il fondo e quasi contemporaneamente sentii che l’acqua vi penetrava.
La paura di quell’elemento, a noi cosi poco simpatico, mi fece cercare nelle scale la via della salvezza, ed in pochi salti fui sul ponte.
Una orribile confusione vi regnava.
La rauca voce del capitano, le grida dei marinari, il fischio del vapore che usciva dal tubo di scarico, il muoversi accelerato di tanta gente che correva qua e là bestemmiando e ricuperando roba per ammonticchiarla sul ponte, mi dimostrarono che la sventura toccata alla Maria era grave.
Tutti eravamo in coperta del vapore; uomini, donne, gatti e topi. Il comune pericolo imponeva silenzio alle inveterate inimicizie di razza.
La confusione poi era al colmo. Sebbene il mare fosse tranquillo, calmo il vento, chiara la notte che la luna illuminava, pertanto altissimo doveva essere il pericolo, perchè i marinari si preparavano all’abbandono della Maria.
Essi misero in mare le lance; vi discesero i viveri, una parte dei loro abiti, i barili pieni d’acqua; poscia due povere donne mezzo tramortite dallo spavento, poi i mozzi di bordo, poi pigliaron posto nelle lance i marinari, ultimi di tutti gli ufficiali. E noi due ci vedevamo vilmente abbandonati, allorchè un marinaro, riquando essa mosse per il largo, la quistione cambið conoscendo Puss, esclamò:

— Capitano, non dimentichiamo Pussy, — e senza attendere la risposta tolse nelle braccia il mio amico e lo depositò sul pagliuolo della lancia più grossa.
— Miau! miau! miau! — urlai con quanta forza avevo nei polmoni.

C’era tutto in quella triplice voce che sgorgava dal mio cuore desolato. Era un appello alla compassione dei poveri miei colleghi di naufragio, era uno straziante saluto al mio maestro, era l’impressione angosciosa del mio terrore, era il dolore ineffabile dell’abbandono.
Il capitano esitava a farmi prendere, quando un monello di mozzo esclamò:

— Si, capitano, prendiamolo; alla peggio lo mangeremo!
….. Che orrore!…..

CAPITOLO V.

Nel quale l’eroe sfugge miracolosamente alla morte.

PICCOLI omini e donnette piccine che leggerete questi appunti tratti dalla mia vita, Dio voglia che vi siano d’insegnamento! Ricordatevi che fra il pericolo certo e l’incerto, conviene sempre tenersi al secondo, nè sdegnate mai la tavola di salvezza, per quanto sottile possa sembrarvi. È un gatto di molta esperienza che ve lo dice.
O rimanere sulla Maria, che il primo tempo cattivo avrebbe scompaginata, o correre l’atroce rischio svelatomi dalle parole dell’ingordo mozzo: tale era li bivio in cui mi trovavo.
Spiccai un salto nella lancia; ero momentaneamente in salvo!
La nostra navigazione in quelle povere cinque lance del vapore fu ben trista.
Pigiati, esposti nel giorno ai raggi solari, nella notte all’aria anzichenò freddolina, tutti noi soffrivamo atrocemente. E per dire il vero, sebbene io non abbia mai nutrito per l’uomo una stima speciale, non vi nascondo che nella settimana di navigazione, che compimmo, m’ebbi ad accorgere che il Re della natura mille difetti che si rimproverano a noi bruti.
Le due giornaliere distribuzioni di viveri furono accompagnate sempre da scene luttuose. Accadeva di rado che due uomini fin allora amici non si guardassero in cagnesco; e la calma serenità del capitano valeva sola a frenare l’ira consigliata dalla fame.
Diminuiva ogni giorno la quantità del cibo che ad ognuno servivasi con mano parca dal capitano nella nostra lancia, e dagli ufficiali nelle altre. Fortunatamente il tempo continuava ad esser buono.
Ma la settima notte il tempo cambiò. Le onde s’alzarono, il vento percosse l’unica vela, scrosciò il temporale. Le lancie chiamavansi l’una con l’altra, onde star riunite; per un paio d’ore udimmo la voce dei compagni d’infortunio rispondere alle nostre grida, poi…. la cupa notte non ci portò che i rumori del flutto e del vento.
E quando l’aurora illuminò di rossi bagliori i lividi visi de’compagni di naufragio, non scorgevasi sul mare nostro traccia d’altre lancie, il vento non tormentava più l’acqua, che movevasi a cavalloni morti, lenti nel sollevarsi come nell’abbassarsi con continua vicenda.
La bufera, cessata col sorger del sole, ci lasciava soli su que!l’acqua interminabile, infinita.
Stretti l’uno presso all’altra, un uomo ed una donna, italiani entrambi, erano seduti nella poppa della lancia.
Mai lo scoraggiamento erasi impadronito di loro durante i sette tremendi giorni.
Fra le voci di disperazione dei loro compagni, avevo sovente udito que’ due comunicarsi pensieri delicati, con dolce accento d’affetto.
Allorchè distribuivansi i viveri, allora cominciava fra loro una piccola lotta; egli volendo dare alla sua amica una parte delle proprie razioni, essa pretendeva invece che ne togliesse dalla sua.
Ed al capitano, cui il senso del pericolo corrugava la fronte, quei due che vivevano l’uno per l’altro, ed in cui pareva il sentimento dominante fosse la bontà; volgevano parole d’incoraggiamento.
A giorno chiaro si visitarono i viveri. La brutta notte trascorsa li aveva guasti ed inzuppati dell’acqua del cielo, nonchè di quella del mare. E poi ce n’erano rimasti così pochi!
All’orizzonte nulla! Nè Puss nè io osavamo miagolare. A me ed a lui da due giorni nulla ci toccava da mangiare.
E mi ero trascinato ai piedi della buona italiana, a trarre un po’ di benessere dal calore del suo corpo, ed anche a cercarvi protezione contro gli sguardi avidi dei marinari, cui le mie carni sarebbero state cibo gradito. Puss, mosso da ugual sentimento, s’accoccolò fra le gambe del marito.
Era tempo! Dalla prora venne tosto la proposta di sacrificarci. E nonostante il diniego del capitano, la nostra sorte sarebbe stata decisa se quei due non lo avessero appoggiato, e se l’uomo non avesse assicurato i naufraghi del prossimo aiuto della Provvidenza.
Egli era stato in giovinezza marinaro, ed il capitano della Maria sovente lo aveva consultato. La continua tranquillità dimostrata nelle peripezie della settimana trascorsa, la immutabile fede nel salvamento che dai suoi discorsi e da quelli della moglie traspariva, avevano procurato a tutti e due una notevole autorità.
Figuratevi dunque come lo ascoltassero i naufraghi, allorchè Giorgio Biondi (cosi chiamavasi il nostro protettore) esclamò dopo aver guardato il mare:

— Siamo salvi; ecco il Re delle aringhe! — ed in così dire additava un pesciatello dal ventre argenteo che lietamente nuotava quasi a fior d’acqua volgendo il cammino a mezzogiorno.
— Coraggio ragazzi, Capitano, oggi è il 18 di aprile, il Re delle aringhe è salito alla superficie del mare, scende da tramontana; poniamo la prora da quella parte e camminiamo incontro ai banchi di pesci. Fra tre ore vedremo dove sono gli stuoli, e cogli stuoli il pranzo nostro e poi la flotta peschereccia che ci salverà. Coraggio, ragazzi!
E senza porre tempo in mezzo, saltò dal primo banco, armò un remo, chiamò al suo fianco il capitano, che ne armò un altro, i marinari l’imitarono e la nostra lancia scivolò sull’acqua verso la salvezza.
Era uno strano spettacolo! La speranza aveva ridonato agli uomini le forze. Nella poppa sedeva al timone la buona italiana, che aveva in grembo Puss e Bobino, i quali dalle palpebre semichiuse scrutavano l’orizzonte.
Un’ ora durò la voga silenziosa e serrata. Al termine di essa, il mozzo ch’era alla prora gridò:

— Capitano! veggo gli stormi dei gabbiani e dell’urie! Era proprio vero, perchè lungo un’ampia fronte, laggiù all’orizzonte, scorgevasi l’aria gremita di bande d’uccelli acquatici che avvicinavansi rapidamente a noi.
— Lasciamo il remo, prepariamoci alla pesca — esclamò allora Giorgio Biondi.

Gli stuoli delle aringhe e le bande degli uccelli si avanzavano verso di noi. Questi or librati sull’ali, or roteanti in rapide evoluzioni, or lambendo l’acqua, or tuffandovisi fra strida roche e note squillanti, perseguitavano a morte le aringhe guizzanti nel mare, adesso divenuto terso e solo mosso dall’ondulazione lenta e lunghissima, speciale ai flutti oceanici, e che il Mediterraneo non conosce.
Non trascorse lungo tempo che fummo ancor noi in mezzo a quella strana battaglia e vi prendemmo parte. Nè faceva bisogno d’ami o di fiocine, tanto era denso il banco delle aringhe, sì presso alla superficie, che i naufraghi raccoglievano a cappellate i pesci e li buttavano sul pagliuolo della lancia, dove Puss ed io li uccidevamo a colpi d’artiglio.
I marinari della Maria neppur davansi la pena di cuocerli al fornello che il mozzo di prora aveva acceso; li sbranavano coi denti, buttandone le teste e gli interiori in mare, e queste e quelli erano immediatamente divorati dall’altre aringhe o carpiti dagli avidissimi gabbiani e dalle urie, veri corvi dell’acqua salata.
Metà del pronostico di Giorgio Biondi s’era avverata. L’altra metà non fecesi attendere.

CAPITOLO VI.

In cui descrivonsi le gioie della salvezza e la voluttà del riposo.

Che mirabile effetto ha sull’uomo un buono e lauto pasto dopo lunghi giorni di privazioni! Appena satolli, i marinari tornarono per noi gatti ciò ch’erano stati quando la Maria tutti ci albergava. Johnny, il mozzo (che indirettamente, se vuolsi, ma era quegli che m’aveva salvato), tornò a giocare con me e con Puss.
Al cupo silenzio, che brevi accenti ringhiosi avevano interrotto sovente durante la settimana paurosa, sottentrò prima il cicaleccio amichevole, poi il rimpianto degli amici perduti. Perduti? Niuno ne aveva la certezza, poichè se da noi non troppo discosti, ancor essi potevano godere del pasto miracoloso dei banchi d’aringhe.
Il capitano non aveva parole sufficienti per ringraziare la coppia italiana, che gli era stata di tanto sollievo nelle angosciose giornate ormai trascorse.
La signora aveva ripreso i colori della salute, sorrideva, nè cessava di ringraziar colle carezze sul mio vello serico il povero Bobino, cui attribuiva il merito delle vettovaglie così abbondantemente rinvenute.
Sulla prora, Joshua Poynson, marinaro di Aberdeen, e Michael Williams narravansi episodi di naufragi d’onde erano scampati altre volte.
Sebastian Cano e Drea Sgarallino, il primo di Bilbao, il secondo di Livorno, discutevano se era il caso di appendere un voto alla Madonna d’Atocha o a quella di Montenero.
Il ricordo della Maria, perduta sulle roccie, poneva nella serenità del capitano una nota di mestizia profonda. Lo scoglio in mezzo al mare, dove s’era incagliata, non era segnato sulle carte, ed egli, povero capitano, ne parlava con Giorgio Biondi e colla signora.
E questa gli diceva una gran verità, che vi consiglio, tuffandovisi amici miei (uomini o gatti che siate), a meditare: « la completa felicità non è di questo mondo. »
La sera del 18 aprile fummo in vista della numerosa flotta dei pescatori scozzesi. Ed al nostro incontro venne uno dei vapori che la Società della pesca tiene armati per il rapido trasporto delle aringhe sui mercati della città. Ed allorchè misi le mie quattro zampe sul ponte dell’Hale and Hearty, e testimoniai la pietosa accoglienza fatta dagli uomini di esso ai miei compagni d’infortunio, capii che per qualche tempo le mie tribolazioni erano cessate.

— Thomas Puss, che accadrà di noi? — domandai al mio mentore, mentre ambedue stavamo accoccolati al riparo d’una lancia del vapore.
— Bobino, mio caro amico, io non ho ancora preso mente una determinazione. Ma penso che rimarrò coi miei compatriotti. E vi consiglio, dal momento che avete incontrato degl’Italiani, ad affezionarvi a loro e guadagnare la loro amicizia, insomma a seguirli. Le commozioni di questi giorni sono state forti; veramente per un gatto britannico non sono eccessive, ma tu, povero gatto del Mezzogiorno, non hai fibra tale da sopportarle agevolmente. Va’, va’ coi tuoi compatriotti.
A me quel discorsaccio non garbò punto. Laonde, rizzatomi sulle quattro zampe e presa un’aria seria seria, risposi così:
— Signor Thomas Puss, vi prego a volervi ricordare che in frangenti assai difficili ho avuto l’onore di assistere al duplice spettacolo d’un manipolo d’Inglesi salvati dalla robustezza di cervello d’un gentiluomo italiano, e d’un gatto britannico scampato alle unghie della morte per la pietà d’una gentildonna del mio paese. Vi fo riverenza.

In cosi dire me ne andai tranquillamente a cercarmi un altro sito di riposo.
il domani tornai a chiacchierare di cose indifferenti con Sir Pussy; ma ci accorgemmo mutualmente che l’antica buona amicizia era troncata. E difatti tenemmo vie molto diverse; egli cercando di ottenere la simpatia degli uomini di bordo, io quella della signora Biondi e di suo marito.
Gli uomini sono una razza così orgogliosa che finiscono sempre per fare sul conto nostro giudizi molto fallaci. Si sono fitti nel loro cervello che il gatto è un quadrupede falso, ingrato, traditore, incapace d’affezione alla persona, ma solo mosso dall’appetito, un amico della casa, ma non dell’uomo. Cosicchè se vedono un gatto far loro qualche cortesia, traggono dal fatto la strana conclusione che il gatto è un’eccezione alla regola, ed a sè danno il merito d’aver scoperto l’individuo eccezionale.
Infatti, appena la buona signora Biondi s’accorse che io giocherellavo volentieri con lei, se ne dimostrò molto soddisfatta, mi prodigò mille cure e mi tenne come cosa sua. In fondo io avevo raggiunto il mio intento, ma bramo qui confessare che anche senza il consiglio di Puss io ero deciso a dividere l’esistenza della buona signora che m’aveva salvato dalle avide canne dei marinari.
Bei giorni dell’Hale and Hearty, voi mi promettevate una lunga sequela di mesi felici! Fulgida giornata di maggio, che mi vedesti sbarcare dal vapore in grembo alla signora Biondi, ed in carrozza trasportare all’Union Jack Hotel di Aberdeen; tu eri la vigilia del più tremendo giorno della mia vita!

CAPITOLO VII.

Nel quale l’eroe dalla padella casca nella brace.

COME non rammentare con dolcezza il soggiorno, ahimè troppo breve, nell’Hôtel d’Aberdeen? Come non ricordare le care premure che a me, tapino, dimostrava quell’angelica creatura della signora Giorgina?

Un molle cuscino servivami di letto; la mattina una bella ciotola di latte rompeva il digiuno; alle undici e mezzo pigliavo parte alla colezione della mia buona padrona; al collo, in bellissimo collarino, portava impresso il suo nome « Giorgina » ed il mio « Bobino. »

Come mai lo avesse indovinato, non riesco a comprendere. Alle due e mezzo mi trovavo sempre in salotto allora che servivasi il lunch, e qualche buona e succulenta cosa mi veniva portata. Un pisolino, che niuno disturbava, mi faceva dimenticare le ore che trascorrono fra il lunch ed il pranzo, che per me consisteva spesso in un’ ala di pollo o di pernice; poi scendeva la sera, e io passavo nella geniale società di eleganti micine scozzesi che dilettavansi molto al mio miagolare melodioso di gatto italiano.

O mie amiche di Merdun, serbate ancora memoria del vostro amico che chiamavate il musicante della razza felina? O deliziosa Tib, con cui vagolai dal tetto della dispensa nel sottoposto cortile, rammenti ancora come io ti difesi dalla villana oppressione di quel mascalzone di Brine, il gatto di casa? O Minnia, dall’occhio grigio-ferro e dal sommesso miagolare, ricordi le mie proteste d’amicizia? O chi mi farà dimenticare mai le scene violente e gli sgraffi di Kitty?

I miei giorni scorrevano placidi e serene le notti, dopo le sere allegre in compagnia di animali della mia specie. Una mattina all’alba, che uscivo a zonzo, vidi l’aria rosseggiare dalle fiamme di un incendio che erasi appiccato alla scuderia, sopra alla quale era collocata la camera della mia buona padrona.

Bruscamente mi scuoto, salgo, miagolando, le scale, penetro nella camera da letto, salto al capezzale della signora Giorgina e mosso da onesta intenzione, per destarla subito, la sgraffio. Essa svegliasi e grida, il marito scuote il sonno dal capo, e furente mi chiappa per la nuca, apre il balcone e mi butta a capofitto nella strada, dove (da mio pari) casco sugli zampini senza ricevere della caduta verun danno. E là mi feriscono le orecchie i clamori della città intera.

Accorrono presto all’Hôtel i pompieri, la polizia, il popolo tutto. Non però in tempo da impedire il pieno sviluppo dell’incendio, ma abbastanza per circoscriverne il campo. Le trombe, le scale, si adoperarono con rara maestria. Dalle finestre, che già il fumo invade, veggo scendere coraggiosi pompieri che portano in collo bambini piangenti ed ancor sonnacchiosi.

I pompieri che salvano i bambini

Appoggiata all’omero del marito veggo la mia bella padrona discender nella via per una scala di corda, rifugiarsi in una carrozza e partire. Invano tento seguirne le tracce: l’onda di gente ci separa; nel parapiglia mi piovono addosso anche alcuni calci; cerco scampo nella fuga e mi metto al sicuro per attendere colla luce del giorno ciò che di me sarà.
Ed il sole mi mostra il povero Hôtel quasi incenerito; ardono le interne travature; il tetto è sprofondato; s’ergono anneriti ed affumicati i quattro muri maestri dell’interno. Oh! mia povera casa!
Ma non mi dà il cuore di abbandonarla. Gli uomini dicono in nostro dispregio che noi gatti non agli abitatori ci affezionamo, ma all’edificio. Ma essi dimenticano di aggiungere che l’amore che alla casa è si forte che sopravvive alla rovina di essa. Possono gli uomini dir di sè stessi altrettanto?
Rimasi dunque ne’ pressi dell’albergo tutto quel giorno e la seguente notte. Deserto era rimasto il luogo. La folla di popolo che aveva lavorato a limitar l’incendio, ed aveva assistito allo spettacolo delle fiamme divoratrici del bell’edificio, era tornata alle proprie case.
Il lungo crepuscolo scozzese aveva ceduto il posto alla notte, e questa era nebbiosa. Scorsi allora due uomini poco lungi da me. Nel calcinaccio che copriva il suolo, nel mucchio di sassi e di legno combusto sembrava cercassero qualcosa, forse i pezzi di metallo torti dalle vampe del fuoco. Di loro non sospettai; nè mi posi in difesa.
Oh! la maledetta imprudenza! Uno di quei due mi adocchiò, mi chiamo a sè, io accorsi miagolando; egli mi levd di peso e mi butto in un sacco che il compagno aveva fra le mani.
Quanti sforzi lo facessi per stracciare coll’unghie quel sacco, ve lo potete figurare; ma la tela era forte e non vi riuscii. Cercai di farmi udire con potenti miagolii; niuno rispose alla mia voce. Ed allora mi rassegnai al mio destino.

– Coraggio, Bobino! – dissi fra me e me. – Piangere è da deboli; conviene al forte sopportare e tacere. Coraggio!

A capo ad un tempo, la cui lunghezza non saprei determinare, il sacco fu posato a terra; dalle maglie del tessuto penetrava nel sacco un tantino di luce. La bocca del sacco s’apri, ne uscii, mi trovai in presenza de’ miei catturatori, due omacci sordidamente vestiti, dalle fattezze volgari, dalle barbe incolte, in una stanzaccia umida e triste, sudicia e chiusa da tutte le parti, dalle mura ruvidamente coperte di calcina.
L’unica apertura, l’uscio, si chiuse sopra di me: rimasi solo.
E nell’agitato sonno di quella lunga notte mille visioni di imminenti sventure agitavano la mia mente. Mi tornarono alla fantasia i discorsi di mio padre, la mia fuga dall’osteria di Torino, la tremenda paura, di esser cotto e mangiato da quei ceffi brutti che con blandizia perfida mi avevano tolto alle fumanti rovine.
Poi, a giorno pieno, uno dei due uomini entrò; mi tolse il collarino, mi prese in collo, mi pose ancora nel sacco, sentii che ero trasportato altrove.
Ebbi la coscienza di un uscio che aprivasi, udii un dialogo; ne compresi che si dibatteva il mio prezzo, che infine mi si vendeva per quattro scellini; infine fui rovesciato dal sacco sull’impiantito d’una camera.
Le gambe mi tremavano sotto; non potei fuggire e cercare un nascondiglio: guardai intorno a me.
Dove fossi ve lo narrerò nel capitolo seguente.

CAPITOLO VII.

In cui l’eroe ha che fare con quella calamità sociale che chiamasi « bambini. »

IN una antisala – quella nella quale io ero – un signore lungo lungo, con un vestito nero, che ne faceva maggiormente spiccare la magrezza, stava ritto fra due bambini che molto gli rassomigliavano nelle fattezze e nella persona. Dietro ad essi una signora. Ma quanto diversa dalla mia buona signora Giorgina!

Mentre questa rifulgeva di bellezza, la nuova mia padrona era una creatura dai tratti duri ed austeri. Il capo piccolo era adombrato di capelli gialli — tutta la famiglia aveva capelli dell’istessa tinta — gli occhi grigiastri non avevano fuoco; c’era in tutta quella famiglia un’aria di legnosità che colpiva a prima vista.
— Bambini cominciò il padre con enfasi mono tona; — ecco il gatto che m’avete dimandato e che v’avevo promesso. Felis catus, come diciamo nella lingua scientifica è, come già non ignorate, un quadrupede carnivoro allo stato selvaggio, ma che nella domesticità si è ridotto omnivoro. Sarebbe imprudente il volerle nutrire di soli vegetali. Non v’impedisco pertanto di tentarne l’esperimento.
La conquista di questo quadrupede predatore non è stata dall’umanità mai compiuta. C’è nel catus domesticus di Linneo sempre un rimasuglio della ferocia nativa, la quale lo addita come stretto consanguineo del catus ferus, flagello della nostra bandita di caccia.
Questo animale, di cui non si può disconoscere la utilità, poichè ci difende dai topi e ne distrugge una gran quantità, è lungo in media diciotto pollici e alto dieci. Gli storici ci fanno capire come sia stato noi introdotto dall’Egitto; là lo adoravano e lo imbalsamavano.
Nel principato di Galles venne acclimatato al decimo secolo; e fu protetto dalle leggi che punivano chi lo maltrattasse, mutilasse od uccidesse. Chi uccideva un gatto del principe lo risarciva con una pecora ed il suo agnello. Il gatto fu l’animale favorito di Maometto, fondatore dell’islamismo. Nella nostra Scozia è stato introdotto nell’undecimo secolo.
Il tatto, la vista e l’udito sono i sensi che nel gatto sono molto sviluppati.
Ora, figli miei, rammentatevi che questo quadrupede non deve servire solo a chiappare i topi che per avventura possano esser penetrati nella nostra tranquilla magione, ma deve servire anche alle vostre scientifiche osservazioni. Avete capito, Alick? Avete capito, Donald?

— Mia cara amica, io penso che anche voi sarete della mia opinione, non è vero?

— Mio caro amico, io sono perfettamente della vostra opinione — rispose la signora.

E gravemente, silenziosamente, stecchita, impalata, quella famiglia d’attaccapanni s’allontano dall’antisala, ed io allora scesi una scala che mi condusse in cucina.
La cuoca era cosi intenta ad udir non so quale barzelletta che le raccontava uno smisurato caporale di highlanders, che non s’accorse punto del mio arrivo nè della resa di possesso del mio nuovo domicilio. Solennizzai quel momento prendendo in un piatto una braciuola di agnello e divorandola.

Ora vi dirò in che mani ero capitato.

L’attaccapanni maschio numero uno era il professore Alexander Mac Arone; l’attaccapanni femmina era la signora Evangelina Mac Arone, sua degna consorte, ed i due giovani legnosi erano Alick e Donald, loro degni discendenti. Se per somma ventura la cuoca irlandese Bessy O’Shema non avesse coi suoi canti rallegrata la casa, v’accerto che c’era da morire di noia. Come rimpiansi, e sovente, la mia buona signora ed anche i gai e chiassosi marinari della Maria! Due volte al giorno, alle ore destinate alla ricreazione.
Alick e Donald venivano a cercare di me, ma non per giocherellare, tona; com’ è costume dei bambini, ma per fare tesoro delle osservazioni da essi praticate sui miei costumi. Insomma giunsi a rimpiangere i monelli di casa Biscaretti, e fino quel piccolo manigoldo di Silvio Davico (il nipote favorito di Jack la Bolina).
Almeno quelli erano bambini di carne ed ossa; a sgraffiarli c’era gusto, mentre a quei due scozzesi tutta calma non ci trovavo neppur piacere.
Un giorno (dalle 3,45 alle 5,25 come portava il regolamento immutabile delle ricreazioni) udii il seguente dialogo che assai solleticò la mia curiosità.

Alick. — Credete voi, Donald, che il nostro pallone potrà sopportare il peso di ventisei libbre?
Donald. — Io credo di si. Caricato come noi abbiamo divisato di farlo mediante l’aria rarefatta, lo sopporterà.
Alick. — Che direste se noi sperimentassimo sopra questo gatto?
Donald. — Consentirei di buon grado, Alick.

— Che mai sarà questo pallone? — pensavo io. —

Una curiosità non scevra d’inquietudine mi tormentava e mi martellava lo spirito. Ed ascoltavo con molta attenzione ogni discorso per chiappare al volo qualche nozione intorno a codesta faccenda ancora per me misteriosa. Ma i discorsi lungagginosi del professore Alexander Mac Arone, cui rispondevano i ammirativi della signora Evangelina, erano tanto annebbiati di sapienza che il mio povero cervello di gatto non poteva scoprire nulla in quello scientifico garbuglio. Mi convenne attendere il fatto.

Addi 21 di giugno combinando la data col solstizio d’estate e colla fine del corso scolastico d’Alick e di Donald, alle ore sei del pomeriggio, parecchi compagni dei miei padroncini vennero ad assistere all’ascensione di un pallone che dal cortiletto della casa di Alexander Mac Arone doveva salire nelle regioni dell’empireo. Non vi maravigliate dell’eleganza delle frasi che adopero, ma l’udire si sovente le allocuzioni di Alexander Mac Arone mi aveva attaccato il suo male.

I giovani visitatori furono dal professore Alexander gratificati con un trattato sull’aerostatica, con l’elenco de’ principali aeronauti, e dalla signora Evangelina con un piatto di fragole alla crema… Gustarono — a quanto mi parve — il secondo più del primo. A me crema non me ne diedero e fecero bene; io la mia parte me l’ero presa profittando di una delle consuete distrazioni di Bessy O’Shema in cucina.

Bobino prima della passeggiata aerea.

Un enorme sacco di stoffa di cotone fu allora portato nel cortiletto. Sospeso ad alcuni pali coll’apertura voltata verso terra, si pose alla bocca del sacco un fornello e adagino adagino il sacco si gonfiò. Io, seduto sulle gambe di dietro, guardavo con piacere quel sacco che riempivasi fino ad assumere l’apparenza d’una enorme palla. I bambini gridavano dalla gioia; fino Alexander Mac Arone sembrava disposto a metter da parte l’usata serietà. Il pallone continuava a gonfiarsi e sollevavasi già di due metri da terra; ma non se ne allontanava perchè tenuto da una funicella. Allora al lembo inferiore del sacco Donald attaccò un paniere di vimini, Alick mi prese in collo e mi depose nel paniere.

L’ allegria era al colmo. Tutti quegli scozzesi, non ha guari si calmi, esprimevano il loro contento con assordanti gridi di urrah! Io, distratto da quel chiasso, sentivo una gran voglia di miagolare di gioia, quando….

Chi fu quel malanno che tagliò la funicella? Pallone, paniere e Bobino in meno tempo che metto a dir miau! salirono su nell’aria; m’affacciai all’orlo del paniere la città d’Aberdeen mi parve una cosa piccina piccina; i monelli sembravano formiche; sotto di me c’era una immensa macchia verde, la terra; qualche punto bianchiccio, le case; qualche striscia color dell’argento, le riviere ed i canali.
Ed il pallone saliva, saliva, saliva e niuna forza, nè divina nè umana, sembrava poter frenare quella rapida ascensione.
Al giorno chiaro subentrò il crepuscolo, al crepuscolo la notte; colla notte il freddo, e poi la fame. Intorpidito, reso stupido dalla paura, io non osavo più guardar fuori della mia aerea prigione. Poi, mi parve che il calore tornasse ad allietare le mie membra, mi sembrò che coi primi chiarori dell’aurora l’ascensione cessasse, poi che cominciassi a scendere verso la terra; allora tentai di guardare: scorsi gli alberi d’una foresta.
Decisamente il pallone scendeva; potevo riconoscere il fogliame delle piante, i minimi ramicelli si disegnarono con precisione; il paniere si fermò fra i rami d’una bella pianta. Io con un salto ne uscii e di ramo in ramo balzai fino a terra.

Là mi sentii salvo.

Salvo? Sì, ma isolato, nel denso d’un bosco della Scozia.

CAPITOLO VIII.

In cui Bobinus felis calus domesticus doventa per la forza delle cose il capitano Bob Ferus.

Mi sedetti ai piedi d’una quercia: mi lisciai un tantino il pelame così per abitudine, poi concentratomi, miagolai a bassa voce;
« Bobino! Chi ti porterà la mattinale tazza di latte? Dov’è la tranquilla cucina di Bess? Come farai a campare? Niuno pensa a te, povero Bobino! »
« Sei fuori del mondo incivilito, ora! Come farai? Tu, uso alle delicatezze dell’esistenza agiata d’animale domestico, come troverai sostentamento? Hai vittoriosamente superato, è vero, le prove dell’acqua, del fuoco e dell’aria, ma eri allora fra gli uomini, non eri abbandonato nella cupa foresta. Ora, come farai? »

Tacqui; poi ripresi:

« Bobino, amico mio, sei forte, hai duro e sicuro l’artiglio, acuta la vista, sottile l’orecchio, perfetto l’odorato. Sei un gatto che puoi cascare sempre ritto, tu; coraggio dunque. Armati, chiudi la tua vita di animale domestico, adattati all’esistenza drammatica di gatto da preda. Ne hai esempi in famiglia. Non sei della buona razza che novera fra i suoi S. M. il re Leone, la regina Tigre, il generale Jaguar, quel brillante venturiero che è il capitano Leopardo, l’agilissima Pantera. Ma in nome delle glorie di casa, c’è tuo cugino Catus ferus che da anni frequenta le foreste d’ Europa e campa rispettato da tutti a spese di quadrupedi e d’uccelli. Non puoi tu forse imitarlo? Cambia natura, poichè non ne puoi fare a meno. Doventa il capitano Bob e che il tuo gran bisavolo che l’Egitto adorava qual nume protettore ti aiuti e diriga. »
E la mia vita prese da quell’istante un differente indirizzo.
Un tronco d’albero, che gli anni avevano scavato, mi servì di casa e di fortezza. Di là mi addestrai a scrutare nella circostante foresta; modulai la mia voce per attrarre a me gl’incauti scoiattoli, i timidi colombacci, la beccaccia dal corto ingegno e dall’occhio superbo; anche il furbissimo merlo non fu al coperto delle mie insidie. I miei sensi doventarono squisiti, le mie forze raddoppiarono, acquistai la somma virtù della sapienza. La volpe mi temette, la donnola mi sfuggì, Bach, riputandomi avversario terribile.
Il mio pelame crebbe in lucentezza ed in foltezza; le mie unghie acquistarono la elasticità robusta dell’acciaio. E di quelle foreste fui il terrore. Capitan Bob fu un piccolo re di bosco, e v’assicuro che se sir Pussy Tomcat m’ avesse veduto non si sarebbe permesso veruno scherzo meco, ma sarebbe stato felice di seguirmi alle cacce, e di accettare da me ossequiosamente ciò che io avessi degnato lasciargli.
La passione della caccia e della guerra in me latente fino allora, si sviluppo e giunse a tale che disdegnai la preda se essa non difenderasi. Mi compiacevo di far posare alla volpe il coniglio che essa aveva carpito nella tana materna. Un giorno costrinsi alla ritirata un segugio che aveva osato darmi la caccia.
Grande, grosso, robusto, ero doventato il terrore degli abitatori del bosco.
Ero del tutto felice? No. Mancavami la società. Reso feroce dal rinselvatichimento, agognavo sempre alla esistenza di gatto civile. Sovente mi pigliavano delle voglie matte di uscire dai confini di quel bosco di cui conoscevo ogni più recondito asilo, e di avvicinarmi, miagolando pietosamente, alle case dei contadini, e di domandare, inarcando il dorso, alla compassione d’una bionda massaia scozzese, la scodella di latte.
Tre anni rimasi nel bosco; tre anni che mi parvero lunghissimi; poi, una notte non mi resse più l’animo a continuar quella vita. Mi armai del coraggio più arduo; mossi il piede fuori della selva; ai miei occhi il chiarore mattutino mostrò una fertile valle cosparsa di casolari. Diedi l’addio alla sconfinata libertà della vita di capitano.
Aspiravo alla schiavitù.

Tanto che appena mi venne fatto d’incontrar presso di una fattoria un gatto domestico, corsi verso di lui, e nonostante che ne avessi una diffidente accoglienza, lo seguii miagolando e fui preso e mi rinchiusero, tanto il fattore era rimasto colpito dalla mia mole e dalla bellezza del mio lungo pelame.

Avevo desiderato la domesticità; ebbi la servitù. Dalla fattoria, in una gabbia di vimini doppiamente intrecciati, venni portato di fiera in fiera fino ad Edimburgo. Colà molti sapienti uomini intavolarono discussioni sopra il mio essere.

Il dottor Mac Burrich, illustre scienziato, diede una pubblica conferenza intorno ad un nuovo genere di felis trovato nella contea d’Inverness, e propose che a codesta varietà della specie si ponesse il nome di catus scotus. Imbecille, il tuo catus scotus non era altro che Bobino! Rispose a Mac Burrich con un opuscolo il non meno illustre von Swillensanfenstein dell’università di Gottinga, e vide in me un discendente in linea direttissima del gatto delle caverne dell’epoca anteriore al diluvio. Insomma, sopra di me si è detto e scritto un monte di castronerie.

Dopo molte trattative, come Dio volle, fui venduto dal contadino, da quale m’ero lasciato pigliare, al signor Bach, proprietario di un famoso serraglio di belve, che mi trasse seco da Amburgo fino in Italia, mia patria, dove atre avventure mi attendevano. Ma queste, o miei buoni lettori, e specialmente tu, Guido Tabet, per cui scrivo le mie tribolazioni, le udrete nel capitolo seguente, se avrete la pazienza di andare inanzi e se finora non vi siete annoiati.

CAPITOLO VIII.

In cui capitan Bob torna l’umile Bobino ed è riconosciuto da un suo lontanissimo parente.

Da Amburgo per l’Olanda, le città del Reno, poi quelle dell’Alsazia e della Lorena, il serraglio di Bach se ne venne in Francia ed in Italia.
Lascio a voi, o lettori, lascio a te, Guido Tabet, ad immaginare come fossi maravigliato allorquando giunto a Torino udii la spiegazione in italiano delle mie qualità determinanti. Di me, nato in via San Francesco di Paola nelle cantine del num. 21, il giovane incombenzato del commento diceva cosi:
« Ecco, o signori, il terribile gatto selvaggio delle foreste della Scozia. Questo animale, di cui la razza s’era perduta, fu non ha lungo tempo ritrovato da un esperto cacciatore nella foresta d’Inverness. Si ciba di uccelli e mammiferi; assalta qualunque altro animale, compreso l’uomo, e la sua caccia è molto pericolosa. Ha costato la vita a quattro colombi scozzesi.
È conosciuto scientificamente come il catus ferox delle boscaglie settentrionali. In istato di prigionia sembra un gatto comune, ma non lo è. Nessuno pero è stato ancora capace di domarlo. Mostrate la vostra agilità, Ooton; su… su, e li due frustate attraverso le barre di ferro del gabbione.
O uomini, pensavo io, quanto siete somari! In un Bobino torinese la vostra strana vanità ha scoperta la ferocia, e mi avete determinato scozzese! Somaroni!
Ed udivo i babbi dir sommessamente ai figliuoli: « Guarda, guarda come si vede in lui, nel suo sguardo bieco, la ferocia e la crudeltà! » Io poi, da un gatto comune non differivo in altro che in qualche pollice di lunghezza ed in qualche linea di larghezza di groppone.
Chi non s’ ingannava sopra di me era il vecchio Bach. Quello, senza essere un sapientone, ne avrebbe insegnato a tutti i professori d’università in fatto di bestie feroci. Aveva con esse passato la sua gioventù, l’età matura, e le amava veramente. M’aveva perfettamente riconosciuto per quello che ero, e allorchè non si dava rappresentazione mi lasciava libero, e sovente ho dormito accoccolato sul suo letto. Ma sul cartellone quel catus scotus ferus (mio molto immeritato nome) faceva figura e chiamava la folla pagante degli imbecilli….

Johann Bach era un uomo di merito; alla ferocia delle belve non credeva, e divertivasi ad abituarle a vivere in mutua dimestichezza. Pensò di mettermi nella gabbia di un vecchio leone. Mi vi introdusse una mattina in sua compagnia. Prima che ambedue entrassimo fece dare un buon pezzo di bue al re della foresta, acciocchè fosse ben sazio; poi si penetrò nella gabbia.
Bobino, avesti paura? Di’ la verità. Ricordati che un libro di memorie deve avere a guida la lealtà e non deve contenere che la verità.
Bobino ebbe una paura matta; ecco la verità senza ambagi.
E quella paura aumentò allorchè Johann Bach uscì dalla gabbia e mi lasciò solo, muso a muso col leone.
Il vecchio sovrano fissò in me i suoi occhi cerulei; io, rannicchiato in un cantuccio, chinai al suolo i miei. Il leone s’avvicinò lentamente, mi guardò, mi annusò: a me il sangue congelavasi nelle vene…. Poscia, tornato alla sua grave e maestosa posizione di riposo, mi disse:

– Avvicinati.
lo obbedii. Egli continuo:
– Ti riconosco come di casa: non temere, sai? Non colpisco mai i deboli, specie poi i parenti sempre con me. Al vecchio prigioniero terrai compagnia; ti narrerò i casi miei; mi dirai la tua vita; niuno ti toccherà quando sarai al mio fianco. Forse tu pure hai quanto me bisogno d’affetto. La prigionia è dura ma dai forti è sopportata con generosità. Parlami.
Ed allora io, Bobino, narrai al mio re le peripezie della mia travagliata esistenza. Ed il buon vegliardo sorrideva ascoltandomi. Ma ciò che immensamente lo divertì fu di conoscere di persona taluni fra gli uomini che avevano avuto parte nelle mie avventure.
Gli additai Biscaretti coi suoi figli, Silvio Davico con sua sorella Maria, e Giovenale suo fratello; sino San Martino coll’ inseparabile Jack la Bolina.
Passarono tutti innanzi a me senza riconoscermi; ed io al re narravo mille cose intorno agli uomini fra i quali avevo vissuto.
Strana vita quella del serraglio Bach? La notte (principalmente nell’estate) tutti quei compagni di schiavitù, separati da tavole di quercia, destavansi al ricordo libertà perduta. Rivedevano le natie foreste, le pianure sconfinate; un ineffabile desiderio di libertà chiamava alle loro labbra suoni che l’uomo non sa interpretare, ma che noi quadrupedi comprendiamo.
Che gemiti di dolore! che ruggiti di rabbia impotenti! che guaiti di cordoglio!
Talvolta la morte veniva a visitare le gabbie; e ricorderò sempre una povera scimmia che vide morire al suo fianco suo marito. Si lamentò per due giorni interi la poverina. Johann Bach per consolarla le buttò nella gabbia un canino pomero, e la scimmia lo abbracciava e carezzava come se fosse stato il suo defunto adorato!
Quel vile cagnolino, salvato miracolosamente dalla morte, non si addimostrò riconoscente; anzi, doventò importunissimo. Ah! se lo avessero messo nella mia gabbia che battaglia avrei combattuto.

Quegli urli sovente noiavano il mio re: ed allora con lungo ruggito imponeva il silenzio; niuno più osara fiatare. Ed il re sorrideva e dicevami:
– Vedi, ancorchè prigioniero, son sempre re.
Ero molto curioso di sapere come e per qual sorte il mio vecchio sovrano dalla fulva giubba fosse caduto nelle mani di Johann Bach; ed esitavo a domandarglielo nel timore di risvegliar dolorose memorie.
Volle ventura che un giorno venissero a visitare il serraglio S. A. R. il duca d’Aosta coi principini.
Io lo avvertii dell’esser loro. Il re si rizzo, li guardò dalla gabbia e mi disse: « Bei figliuoli, quasi come i principi coi quali ho giuocato nell’infanzia. »
E quando rimase deserto il serraglio de’ numerosi visitatori, il re mi narrò la sua vita che qui fedelmente trascrivo.

CAPITOLO IX.

Vita di S M. il re Leone.

Sono nato ne’ boscosi declivi dell’Atlante marocchino. Mia madre e mio padre furono il terrore dei douars. La loro robustezza era conosciuta. La mamma portava agevolmente un vitello sulle spalle e con esso saltava in guisa da precorrere un cavallo al galoppo serrato

Con ciò che noi rifiutavamo saziavansi lupi dorati e iene. A me il padre portava sovente leprotti vivi, onde io mi esercitassi a doventare ciò che egli era, cioè un robusto signore della Catena atlantica. Una grotta ci serviva di palagio; una provincia intera di terreno da caccia. Nei nostri dintorni non osava mostrarsi una belva. Le pantere ed i leopardi sapevano che noi non avremmo tollerato la loro importuna vicinanza.
Quando al sorger della luna nelle meravigliose e splendide notti della foresta selvaggia, mio padre alzava alle stelle il suo ruggito, che l’eco ripercoteva, quasi per avvisare che andava a caccia, niun’ altro animale osava aprir bocca. Un misterioso terrore invadeva tutta la natura. Il re della montagna s’avanzava; la sua dolce regina lo seguiva guidando me, ancor piccino, nel solenne sentiero della guerra.
Il mio nobile padre sdegnava gli agguati. Salivamo sopra una roccia nuda d’onde potevasi scorgere tutta la sottostante pianura. I fuochi di accampamento ci indicavano ove riposavano i douars.
E allora mio padre prescegliendo l’accampamento che doveva fornirci il tributo di un bue o di un puledro, scendeva rapidamente e silenziosamente dal monte.
A più d’un miglio di distanza dal douar cani e cavalli sentivano il nostro avvicinarsi.
Latrati, nitriti, muggiti, davano agli arabi la sveglia e le schioppettate illuminavano di lampi la notte africana. Ma che faceva a noi quell’ impotente frastuono?
Rispondevamo con uno spaventoso ruggito che copriva tutti quei suoni smarriti.
E la famiglia del re tornava al suo castello montane carica di un capo di bestiame tramortito dall’unghiata potente che mai non falliva.
Tali le notti della mia infanzia. Dominava allora nelle tende nere della pianura Sidi-Ahmed-bon-Kaddour. Il suo valore era proverbiale. Aveva gli Enaregs del Sahara algerino; era andato in pellegrinaggio alla santa città di Kairoan e a quella più santa della Mecca. Gli obbedivano tutte le tribù dell’Atlante marocchino ed anche alcune algerine. Possedeva i più bei cavalli dell’impero, la più forte muta di slonghi, i più nobili falconi del Marocco.



Sidi-Ahmed-ben-Kaddour

Sidi-Ahmed-ben-Kaddour tornava dai ricchi suoi boschi di palmizi allorchè al limitare di essi incontro gli emissari dei douars.
Alzavasi la luna orlando in argento le frastagliature dell’alto fogliame del palmizio specchiandosi nell’abbeveratoio dell’oasi di El-Fazr. Sull’ alto dorso dei loro veloci mahari (l’unica specie di cammello che i leoni non raggiungono al corso) attendevano Sidi-Ahmed i capi dei douars.
Il più vecchio di essi così lo interpellò:
– O Sidi-Ahmed-ben-Kaddour, Allah ti protegga! Aumenti la bella figliuolanza che ti dà Lalla-Mariam, tua nobil consorte, aumenti il numero dei tuoi puledri, dei tuoi armenti, raddoppi il raccolto dei tuoi datteri, perchè sei uomo giusto dinanzi ad Allah e non bruci la polvere che per la causa santa e nelle guerre contro gl’infedeli, che Eblis tenga sempre presso di sè.
O Ahmed-ben Kaddour, sii pietoso a noi pastori della pianura ed Allah te ne rimeriterà in eterno; liberaci dai leoni che infestano la contrada e noi ti pagheremo due volte cento colonnati di Spagna e ti daremo venti montoni ingrassati e dell’hennê per la tua moglie Lalla-Mariam, e del kohcul per i suoi occhi di gazzella. Sidi-Ahmed-ben-Kardour, ascoltò la pietosa domanda e rispose: – Uomini dei douars, io vi libererò dai leoni, ma nulla voglio per me, imperciocchè il profeta ha comandato che i fedeli s’aiutino vicendevolmente; ma voi darete ai miei compagni di caccia tutto ciò che mi avete ora offerto, ed a Lalla-Mariam l’hennê ed il kohcul. Domani venite alla mia tenda, e che Allah vi protegga e vi allontani dal peccato.
Il domani la tribù Beni-Kaddour decise di dar la caccia alla famiglia nostra. Sidi-Ahmed, capo di essa, assunse la direzione della cosa.
Mio padre dal suo sito di vedetta e di riposo vide avanzarsi fino alle falde del monte la cavalcata dei Beni-Kaddours, cui facevano corteggio molti uomini a piedi, e la celebre muta di slonghi. Pesanti cammelli portavano sul dorso provvisioni di vettovaglie per la banda numerosa.
Rintracciati dagli slonghi noi fummo obbligati alla lotta. Io, ancor piccino, mi posi al fianco della mamma e ne seguii tutti i movimenti. Ricordo le fucilate, i balzi di mio padre, i ruggiti suoi, gli uomini da lui sbranati; ma pur troppo rammento ancora che la difesa de’ miei genitori fu inutile. Colpiti da numerosi proiettili, essi stramazzavano al suolo per non più rialzarsi. Ed a me, che smarrito piangevo presso a mia madre cadavere, toccarono le catene della schiavitù.
Per vari mesi stetti sotto le tende nere dei Beni-Kaddours. Poscia che ebbi deposta la nativa selvatichezza fui da Sidi-Ahmed mandato in dono al sultano del Marocco.

Il Sultano del Marocco

Lo ricordo il principe dei credenti di Ponente. Alto, bruno, avvolto nell’ immenso burnus bianco, riparato sotto l’ombra dell’imperiale parasole, con un numeroso corteggio di sceicchi delle varie tribù del monte e della pianura. Cavalcava uno splendido cavallo discendente dalla più bella fra le sette giumente del profeta. Le teste chinavansi fino al suolo mentre egli gravemente incedeva; i banditori che lo precedevano ripetevano a vicenda: « Gloria ad Allah, solo grande, solo misericordioso! »
Fui consegnato alle cure del suo portabandiera; divenni proprietà del sultano d’Occidente.
Lo accompagnai alla guerra, alle razzie ed alle cacce; fui la sua guardia notturna alla portiera della sua tenda di pelo di cammello.
I generali, i ministri, tenevano ad onore di carezzare la fulva giubba di Akbar, perchè tale era il nome che robusta e difficile fra le virtù: la pazienza. mi aveva imposto il mio buon padrone. Ma, ahimè! era scritto che quel tempo felice non dovesse durare a lungo.
Morì il buon sultano. Gli successe il fratello; era avaro, meschino, pauroso. Mi vendè ad un mercante di Gibilterra; questo al console di Germania; Johann Bach mi vide, mi comprò. Fui posto a bordo ad un vapore e trasportato in Amburgo. Di là, come vedi, ho girato molto mondo, oggetto di ammirazione, di terrore, noiato di me stesso, avvilito dalla prigionia negli angusti limiti di questa gabbia.
La mia giubba ingrigia e sminuisce; il mio occhio perde del suo splendore; questi maledetti climi freddi mi hanno dato la tosse; la schiavitù mi ha procurato la più tremenda delle malattie, la noia. Fortunatamente, tu, mio umile e lontano congiunto, mi sei stato fornito come compagno. Rimarrai meco? Chi lo sa! Bobino è il tuo vecchio signore che te lo dice, sai? se puoi uscir di qua, esci; se puoi fuggire, fuggi; la prigione è ben crudo soggiorno per chi ha goduto il sommo bene, la libertà.
Così il mio re terminò la sua lamentevole istoria. Io ventura pensai al modo d’uscire dalla gabbia. Sogni di libertà agitavano le mie notti sconfortate.

Capitolo X.

In cui a Bobino apronsi le porte del carcere da gentilissime mani.

Giorno felice questo! Mentre aveva luogo la rappresentazione serale con distribuzione del pasto alle belve, m’ha ferito l’orecchio il suono d’una voce conosciuta. Scorgo allora la mia buona signora Giorgina al braccio di suo marito. Miagolo per richiamare la loro attenzione; il mio tentativo è coronato da successo. La signora Giorgina s’avvicina, io sporgo il mio musetto fra gli interstizi delle barre che chiudono il gabbione; « Bobino! » essa esclama; « miau, miau! » rispondo. Che gioia! Essa mi accarezza; parla sommesso al marito; questi sorridendo intavola una conversazione con Johann croscopici animali. Bach. Mi par di comprendere che si tratta della mia vendita. Si, è proprio così; s’apre l’uscio della gabbia; Johann Bach me ne trae fuori e mi consegna al signor Giorgio Biondi. Ho appena il tempo di salutare il mio vecchio re; son libero alfine.

Addio, serraglio di Johann Bach; addio, cattivi odori di carni macellate, addio monotoni commenti, sottocustodi, addio calunnie accumulate sul capo nostro dall’ignoranza degli uomini, addio compagni. Non ti vedrò mai più, orso dell’Alpi, melensa creatura che altro non sapevi fare che leccarti le zampe; mi mancherai invece tu, leopardo leggiadro. Tu, così insofferente della prigionia, che daresti per andare all’agguato delle antilopi nel Kordofan che ti vide nascere?
Addio, addio, mansueto leone, mio clemente sovrano e signore. Non dimenticherò mai la tua generosità di forte creatura cui è ignoto il timore e che hai la più robusta e difficile fra le virtù: la pazienza.
Addio, tutti; addio. Torno all’esistenza mia di gatto scritto domestico e provato al crogiuolo della sventura.
Sono ora accanto ad un fuoco in un bel salotto. Tiepida è l’aria.
Sul tavolino bolle l’acqua per il the. Presso all’urna vi è un vaso di porcellana che contiene molta crema. Sul tappeto del salotto son seduti i miei buoni amici che non conoscevo ancora, i figliuoli dei signori Biondi. Sono bambini assai ben educati, differenti da quei monelli scientifici che si chiamavano Alick e Donald, e da quel perfido Silvio Davico.
Odo che a primavera andremo in campagna; là terminerò le memorie mie e darò loro l’ultima ripulitura, affidandone l’edizione a Jack la Bolina, amico di tutte le bestie a quattro zampe, e nemico di quelle a due.

Oh, come si sta bene qui accanto al fuoco a far le fusa. Purr-purr-purr-puuurrrr.

EPILOGO E COMMIATO DELL’EDITORE

Qui terminano le tribolazioni di Bobino. Ebbi la somma ventura di conoscere personalmente questo gatto maraviglioso e mi accinsi volentieri a compilarne le memorie, che dedico al mio piccolo amico Guido Tabet per espresso desiderio di Bobino stesso.

Bobino visse lungamente ed ebbe una verde vecchiezza non contristata da dolori domestici. Non volle mai accasarsi. Amò la caccia fino all’ultimo. Ma soprattutto amò la crema. Codesto suo debole gli riusci funesto. Ne lambì una quantità troppo forte; non la potè digerire, ammalò e morì.

Fu rimpianto. Meritava le lagrime che furono sparse sopra il suo avello? Si e no. Non fu nè peggiore nè migliore dei suoi congeneri.
Sopportò le avversità con coraggio, la buona ventura con modestia. Possa altrettanto dirsi dell’editore quando anche a lui toccherà di rispondere « presente » all’ultima chiamata, cui tutti debbono obbedire, tanto l’uomo, che è il re della natura, quanto il più umile fra i microscopici animali.

Jack La Bolina.

Tratto da: Giornale per bambini – 1884
Digitalizzato da Google Libri


Augusto Vittorio Vècchi (Marsiglia, 22 dicembre 1842 – Forte dei Marmi, 6 settembre 1932), noto con lo pseudonimo di Jack La Bolina, è stato ufficiale della Regia Marina e uno storico, scrittore È considerato uno dei maggiori scrittori italiani di mare dell’Ottocento e primo Novecento.