Di Peter Christen Asbjørnsen
Il vento fischiava tra i vecchi tigli e gli aceri di fronte alle mie finestre, la neve spazzava la strada e il cielo era nero come può esserlo un cielo di dicembre qui a Christiania. Io ero di umore altrettanto nero. Era la vigilia di Natale, la prima che trascorrevo lontano dall’accogliente focolare di casa mia.
Avevo da poco ricevuto il mio incarico di ufficiale e speravo di poter allietare i miei anziani genitori con la mia presenza durante le feste, e speravo anche di potermi mostrare in tutta la mia gloria e il mio splendore alle signore della nostra parrocchia. Ma una febbre mi aveva portato all’ospedale, che avevo lasciato solo una settimana prima, e ora mi trovavo nel tanto decantato stato di convalescenza.
Avevo scritto a casa per avere un cavallo, una slitta e la pelliccia di mio padre, ma la mia lettera non poteva arrivare nella nostra valle prima del giorno dopo Natale e il cavallo non poteva arrivare in città prima di Capodanno.
I miei commilitoni avevano tutti lasciato la città e non conoscevo famiglia con cui potermi sistemare a mio agio durante le feste. Le due vecchie cameriere presso cui alloggiavo erano certamente persone molto gentili e amichevoli, e si erano prese molta cura di me all’inizio della mia malattia, ma i modi e le abitudini particolari di queste signore erano troppo di vecchia scuola per risultare attraenti per le fantasie dei giovani.
I loro pensieri erano per lo più rivolti al passato e quando, come spesso accadeva, mi raccontavano alcune storie della città, della sua gente e dei suoi costumi, queste storie mi ricordavano, non solo per i loro contenuti, ma anche per il modo semplice e inalterato in cui erano rese, di un’epoca passata.
L’aspetto antiquato di queste signore era anche in stretta armonia con la casa in cui vivevano. Era una di quelle vecchie case di Custom-house Street, con finestre profonde, lunghi passaggi e scale buie, stanze e soffitte cupe, dove non si poteva fare a meno di pensare a fantasmi e brownie; insomma, proprio una casa come quella, e forse proprio quella, che Mauritz Hansen ha descritto nel suo racconto “La vecchia signora con il cappuccio”.
La loro cerchia di conoscenze era molto limitata; oltre a una sorella sposata e ai suoi figli, non vennero altri visitatori se non una coppia di vecchie signore noiose. L’unico sollievo a questo tipo di vita era una graziosa nipote e da alcuni allegri cuginetti di lei, che mi costringevano sempre a raccontare loro fiabe e storie.
Ho cercato di distrarmi dalla solitudine e dal mio umore malinconico guardando tutte le persone che passavano su e giù per la strada nella neve e nel vento, con i nasi blu e gli occhi socchiusi.
Mi divertiva vedere il trambusto e la vita nel negozio del farmacista dall’altra parte della strada. La porta rimaneva chiusa a malapena per un momento. Domestici e contadini entravano e uscivano e cominciavano a studiare le etichette e le indicazioni quando uscivano in strada. Alcuni sembravano in grado di capirle, ma a volte un lungo studio e un dubbio scuotendo la testa mostravano che la ricetta era troppo difficile.
Era sempre più buio. Non riuscivo più a distinguere i volti, ma guardai il vecchio edificio. La casa del farmacista, “Il Cigno”, come viene ancora chiamata, si ergeva lì con le sue pareti scure e bruno-rossastre, i suoi frontoni appuntiti e le torri, con le banderuole e le finestre a graticcio, come monumento dell’architettura del tempo di re Cristiano IV. Il Cigno sembrava allora come ora un uccello rispettabile e tranquillo, con il suo anello d’oro al collo, gli stivali a sperone e le ali spiegate come se fosse pronto a volare. Stavo per immergermi nella riflessione sugli uccelli imprigionati, quando fui disturbato dal rumore e dalle risate di alcuni bambini nella stanza attigua, da un bussare gentile e da vecchia signora alla mia porta.
Quando ho chiesto al visitatore di entrare, la più anziana delle mie padrone di casa, la signorina Mette, entrò nella stanza con una cortesia alla vecchia maniera; mi chiese della mia salute e mi invitò, senza ulteriori cerimonie, ad andare a casa loro per la sera. “Non le fa bene, caro tenente, stare seduto qui da solo al buio”, aggiunse; “non vuole venire subito da noi? Sono arrivate la vecchia madre Skau e le bambine di mio fratello; forse vi divertiranno un po’. Siete così affezionato ai cari bambini”.
Accettai il cordiale invito. Quando entrai nella stanza, il fuoco della grande stufa quadrata, dove i ceppi ardevano vivacemente, gettava una luce rossa e tremolante attraverso la porta spalancata sulla stanza, che era molto profonda e arredata nel vecchio stile con sedie in pelle russia dallo schienale alto e uno di quei divani che erano destinati a farthingales e alle posizioni diritte su e giù.
Le pareti erano ad ornate con dipinti a olio, ritratti di rigide signore con acconciature incipriate, di vecchietti imparruccati e di altri personaggi di spicco in armatura o in cappotto rosso.
– Deve scusarci, tenente, per non aver ancora acceso le candele, disse la signorina Cicely, la sorella minore, che di solito veniva chiamata “Cilly”, e che venne verso di me e mi rivolse una cortesia identica a quella della sorella; “ma i bambini amano così tanto sgambettare qui davanti al fuoco al crepuscolo della sera, e anche la signora Skau ama chiacchierare tranquillamente nell’angolo del camino”.
– Oh, chiacchiera qui e chiacchiera là, non c’è niente che ti piaccia di più di un po’ di pettegolezzi al crepuscolo della sera, Cilly, e poi dobbiamo prendercene la colpa, rispose la vecchia signora asmatica che chiamavano Madre Skau.
– Eh, buonasera, signore, mi disse lei, mentre si tirava su per valorizzare il suo aspetto gonfio e ingombrante, “venga a sedersi qui e mi dica come va; ma, in fede mia, lei non è altro che pelle e ossa!”.
Dovetti raccontarle tutto della mia malattia, e in cambio dovetti sopportare un resoconto molto lungo e circostanziato dei suoi reumatismi e dei suoi disturbi asmatici, che fortunatamente fu interrotto dal chiassoso arrivo dei bambini dalla cucina, dove avevano fatto visita alla vecchia Stine, una presenza fissa in casa.
– Oh, zia, sai che cosa dice Stine? Gridò una piccola bellezza dagli occhi dagli occhi castani; “dice che stasera andrò con lei nel fienile a dare al brownie il suo porridge di Natale. Ma io non ci andrò, ho paura dei brownies!”.
– Non importa, mia cara, Stine lo dice solo per sbarazzarsi di voi; non osa andare lei stessa nel fienile, quella vecchia sciocca, al buio, perché sa bene di essere stata spaventata una volta dai brownies, disse la signorina Mette; “ma non andate a salutare il tenente, bambini?”.
– Oh, è lei, tenente? Non la conoscevo! Come sei pallido! È tanto tempo che non la vedo, gridarono i bambini tutti insieme, mentre si accavalcavano intorno a me. “Ora devi raccontarci qualcosa di terribilmente allegro! È passato così tanto tempo da quando ci hai detto qualcosa. Oh, ci racconti di Ranuncolo, caro signor tenente, ci racconti di Ranuncolo e di Dente d’oro!”.
Ho dovuto raccontare di Buttercup e del cane Goldentooth, ma non mi avrebbero lasciato andare finché non avessi raccontato loro un paio di storie sui brownies di Vager e di Bure, che si rubavano il fieno l’un l’altro e che alla fine si incontravano con un carico di fieno sulle spalle, e di come combattevano fino a scomparire in una nuvola di polvere di fieno. Dovetti anche raccontare la storia del brownie di Hesselberg, che prese in giro il cane domestico finché il contadino non uscì e lo gettò dalla passerella del fienile. I bambini batterono le mani in segno di grande gioia e risero di cuore.
– Gli è andata bene, a quel birbante, gridarono e chiesero un’altra storia.
– No, no, bambini! Date troppo fastidio al tenente, disse la signorina Cicely, “la zia Mette vi racconterà una storia adesso”.
– Sì, zia, sì! fu il grido generale.
Non so esattamente cosa vi racconterò, disse zia Mette, “ma visto che abbiamo iniziato a raccontare dei brownies, penso che vi racconterò qualcosa anche su di loro. Vi ricordate naturalmente la vecchia Kari Gausdal, che veniva qui a fare il pane e che aveva sempre tante storie da raccontarvi”.
– Oh, sì, sì!, gridarono i bambini.
– Beh, la vecchia Kari mi ha detto di aver prestato servizio all’asilo per orfani qualche anno fa, e a quel tempo in quella parte della città era ancora più triste e solitaria di quanto non lo sia ora. Quell’asilo è un luogo oscuro e desolante, ve lo dico io. Ebbene, quando Kari arrivò lì era una cuoca, ed era una ragazza molto intelligente e sveglia. Un giorno doveva alzarsi molto presto al mattino per preparare la birra, quando gli altri domestici le dissero: “Faresti meglio a stare attento a non alzarti troppo presto, e non devi accendere il fuoco sotto il rame prima delle due”. “Perché?” chiese lei. “Non sai che qui c’è un brownie? e dovresti sapere che a quella gente non piace essere disturbata così presto”, dissero, “e prima delle due non devi accendere il fuoco in nessun modo”. “Tutto qui?” disse Kari, che era tutt’altro che paurosa. “Io non ho niente a che fare con quel vostro ometto, ma se si mette sulla mia strada, in fede mia, lo spedisco a capofitto attraverso la porta”.
Gli altri la misero in guardia, ma lei non se ne curò affatto e la mattina dopo, proprio quando l’orologio batteva l’una, si alzò e accese il fuoco sotto il rame nella sala di cottura. Ma il fuoco si spegneva ogni momento. Sembrava che qualcuno gettasse i ceppi sul focolare, ma lei non riusciva a vedere chi fosse. Raccolse i ceppi una volta dopo l’altra, ma non servì a nulla e nemmeno il camino tirava.
Alla fine si stancò, prese un ceppo ardente e corse con esso per la stanza, facendolo oscillare in alto e in basso mentre gridava: “Vattene, vattene da dove sei venuto! Se pensi di potermi spaventare, ti sbagli”. “Maledetta!”, sibilò qualcuno in uno degli angoli più bui, “ho avuto sette anime in questa casa; Pensavo che avrei dovuto averne otto in tutto!”. Ma da quel momento nessuno vide o sentì più il brownie dell’asilo, disse Kari Gausdal”.
– Mi sto spaventando così tanto, disse uno dei bambini; “no, deve raccontarci qualche altra storia, tenente; non ho mai paura quando ci dice qualcosa, perché ci racconti queste storie così allegre.” Un altro mi propose di dire loro del brownie che ballò la danza di Halling con la ragazza. Quella era una storia di cui non mi piaceva molto, perché c’era del canto in essa. Ma non mi avrebbero lasciato andare per nessun motivo, e stavo per schiarirmi la voce e preparare la mia voce estremamente disarmonica a cantare la danza di Halling, che appartiene alla storia, quando la bella nipote di cui ho già parlato entrò nella stanza, con grande gioia dei bambini e in mio soccorso.
– Bene, miei cari bambini, vi racconterò la storia, se riuscite a convincere la cugina Lizzie a cantare l’Halling per voi, dissi, mentre si sedeva, “e poi ballerete voi stessi, vero?”.
La cugina Lizzie fu assediata dai bambini e dovette promettere di cantare, così iniziai la mia storia:
– C’era una volta, ‘penso quasi fosse ad Hallingdal, una ragazza che veniva mandata nel fienile con il porridge di panna per il brownie’, non riesco a ricordare se fosse di giovedì o la vigilia di Natale, ma credo che fosse la vigilia di Natale. Beh, pensò che fosse un vero peccato dare al brownie un piatto così squisito, quindi mangiò lei stessa il porridge, e per giunta il burro fuso, e salì nel fienile con porridge di farina d’avena e latte acido, in un trogolo per maiali. Ecco, questo è abbastanza buono per te, mastro Brownie”, disse. Ma non appena ebbe pronunciato le parole, il Brownie si fermò proprio davanti a lei, l’afferrò per la vita , e ballò con lei, cosa che mantenne finché lei rimase senza fiato, e quando la gente salì nel fienile al mattino, era più morta che viva. Ma finché ballavano, il brownie cantava (e qui la cugina Lizzie fece la sua parte, e cantò sulle note dell’Halling:
“E hai mangiato il porridge per il brownie,
e ballerai con il piccolo brownie!”.
“E hai mangiato il porridge per il brownie?
Allora ballerai con il piccolo brownie!”.
Io aiutavo a tenere il tempo battendo i piedi sul pavimento, mentre i bambini si scatenavano per la stanza con gioia tumultuosa.
– Mi sembra che stiate mettendo la casa sottosopra, bambini! disse la vecchia Madre Skau; “se fate silenzio, vi racconterò una storia”.
I bambini presto furono quieti, e subito e Madre Skau iniziò come segue: “Si sente parlare molto di brownies, di fate e di esseri simili, ma non credo che ci sia molto di vero. Non ho visto né l’uno né l’altro, ovviamente non sono stata molto in giro durante la mia vita, ma credo che siano tutte sciocchezze. Ma la vecchia Stine, là fuori in cucina, dice di aver visto il brownie. All’incirca nel periodo in cui fui cresimata, lei era al servizio dei miei genitori. Venne da noi un capitano che aveva abbandonato il mare. Era un posto molto tranquillo. Non andava mai da nessuna parte e nessuno veniva a trovarlo. Il capitano faceva solo una passeggiata fino al molo ogni giorno. Andava sempre a letto presto.
La gente diceva che in casa c’era un brownie. Ebbene, una sera Stine e la cuoca erano sedute nella loro stanza a cucire e rammendare le loro cose; era quasi ora di andare a letto, perché il guardiano aveva già cantato ‘le dieci’, ma chissà perché il rammendo e il cucito andavano avanti molto lentamente; ogni momento arrivava “Jack Nap” e giocava loro i suoi brutti scherzi!
A un certo punto Stine s’inclinava e s’inclinava, e poi venne il turno della cuoca: non riuscivano a tenere gli occhi aperti; quella mattina si erano alzate presto per lavare i panni. Ma proprio mentre erano sedute così, udirono un terribile schianto giù per le scale della cucina e Stine gridò: “Che Dio ci benedica e ci protegga! Deve essere il brownie”. Era così spaventata che osava appena muovere un piede, ma alla fine la cuoca si fece coraggio e scese in cucina, seguita da vicino da Stine.
Quando aprirono la porta della cucina, trovarono tutte le stoviglie sul pavimento, ma nessuna di esse era rotta, mentre il brownie era in piedi sul grande tavolo della cucina con il berretto rosso addosso e scagliava un piatto dopo l’altro sul pavimento, ridendo con grande allegria.
La cuoca aveva sentito dire che a volte i brownie potevano essere indotti con l’inganno a trasferirsi in un’altra casa, quando qualcuno parlava loro di un posto molto tranquillo, e poiché desiderava da tempo un’opportunità per giocare uno scherzo a questo brownie, si fece coraggio e gli parlò – la sua voce era un po’ tremolante in quel momento – che avrebbe dovuto trasferirsi dal lattoniere dall’altra parte della strada, dove era tutto molto tranquillo e piacevole, perché loro andavano sempre a letto ogni sera alle nove; il che era abbastanza vero, come la cuoca raccontò più tardi a Stine, ma poi il padrone e tutti i suoi apprendisti e operai si alzavano ogni mattina alle tre, e martellavano e facevano un rumore terribile per tutto il giorno.
Da quel giorno non videro più il brownie dal capitano. Sembrava che si sentisse a casa dal lattoniere, anche se lì martellavano e battevano tutto il giorno, ma la gente diceva che la moglie metteva un piatto di porridge in soffitta per lui ogni giovedì sera; e non c’è da stupirsi che andassero d’accordo e diventassero ricchi quando avevano un brownie in casa. Stine credeva di aver portato loro qualcosa. Se sia stato il brownie o meno ad aiutarli davvero, non saprei dirlo, disse Madre Skau, per concludere, e fu colta da un attacco di tosse e di soffocamento per lo sforzo di raccontare questa storia, per lei insolitamente lunga.
Quando ebbe prese un pizzico di tabacco da fiuto si sentì meglio, tornò ad essere molto allegra e cominciò:
– Mia madre, che tra l’altro era una donna sincera, raccontò una storia che accadde qui in città una vigilia di Natale. So che è vera, perché una parola falsa non è mai passata dalle sue labbra.
– Fatecela sentire, signora Skau, dissi io.
– Sì, racconta, racconta, Madre Skau, gridarono i bambini.
Lei tossì un po’, prese un altro pizzico di tabacco da fiuto e proseguì: “Quando mia madre era ancora adolescente, a volte andava a trovare una vedova che conosceva, e che si chiamava… il cui nome era? – Povera me, Madame, – Sì, Madame Evensen, ma certo. Era una donna che aveva visto la parte migliore della sua vita, ma se vivesse su a Mill Street o giù nell’angolo vicino a Little Church Hill, non posso dirlo con certezza. Ebbene, una vigilia di Natale, proprio come questa sera, pensò che sarebbe andata alla funzione mattutina del giorno di Natale, perché era una grande devota di chiesa, e così lasciò fuori un po’ di caffè con la ragazza prima di andare a letto, in modo da poterne avere una tazza la mattina dopo – pensava che una tazza di caffè caldo le avrebbe fatto molto bene a quell’ora presto! Quando si svegliò la luna splendeva nella stanza, ma quando si alzò per guardare l’orologio scoprì che si era fermato e che le lancette indicavano le undici e mezza. Non aveva idea di che ora potesse essere, così andò alla finestra e guardò verso la chiesa. La luce filtrava da tutte le finestre. Doveva aver dormito troppo! Chiamò la ragazza e le disse di preparare il caffè, mentre lei si vestiva. Prese quindi il libro degli inni e si avviò verso la chiesa. La strada era molto tranquilla; non incontrò una sola persona mentre andava in chiesa. Quando entrò, si sedette al suo solito posto in uno dei banchi, ma quando si guardò intorno pensò che le persone erano così pallide e così strane, esattamente come se fossero tutte morte. Non conosceva nessuno di loro, ma ce n’erano alcuni che le sembrava di aver visto in precedenza, ma quando e dove li aveva visti non riusciva a ricordare. Quando il ministro salì sul pulpito, vide che non era uno dei ministri della città ma un uomo alto e pallido, di cui però le sembrava di ricordare il volto. Predicava davvero molto bene e non c’erano i soliti rumorosi colpi di tosse e di fiato che si sentono sempre alle funzioni mattutine del giorno di Natale; era così silenzioso che si sarebbe potuto sentire un ago cadere sul pavimento, anzi, era così silenzioso che cominciò a sentirsi piuttosto a disagio e inquieta. Quando il canto ricominciò, una donna, che sedeva accanto a lei, si chinò verso di lei e le sussurrò all’orecchio: Getta il mantello intorno a te e vattene, perché se aspetti qui fino alla fine della funzione, è finita, si sbarazzeranno di te. Sono i morti che tengono la funzione”.
– Oh, Madre Skau, ho tanta paura. Mi sento così spaventato, piagnucolò uno dei bambini e si arrampicò su una sedia.
– Zitta, zitta, bambina, disse Madre Skau; “si è allontanata abbastanza sicura da loro; ascolta solo!”
– Quando la vedova sentì la voce della persona accanto a lei, si voltò per guardarla, che colpo ha avuto! La riconobbe, era la sua vicina di casa, morta molti anni prima; e quando si guardò intorno nella chiesa, ricordò bene di aver già visto sia il ministro e che molti della congregazione che erano morti da tempo. Questo le fece venire un brivido di freddo dentro di lei, tanto era spaventata. Si gettò il mantello addosso, come le aveva detto la donna accanto a lei, e uscì dal banco; ma le sembrò che tutti si voltassero e stendessero le mani dietro di lei. Le sue gambe le tremavano sotto di lei, tanto che pensava che sarebbe sprofondata sul pavimento della chiesa. Quando uscì dai gradini, sentì che si erano impadroniti del suo mantello; lo lasciò andare e lo lasciò nelle loro grinfie, mentre correva a casa il più velocemente possibile.
Quando arrivò alla porta l’orologio segnava l’una e quando entrò in casa era quasi mezza morta, tanto era lo spavento. La mattina, quando la gente andò in chiesa, trovò il mantello steso sui gradini, ma era fatto in mille pezzi. Mia madre aveva già visto spesso il mantello e credo che abbia visto anche uno dei pezzi; ma non importa: era un mantello corto, rosa, di lana con fodera e bordi di pelliccia, come si usava ancora nella mia infanzia! Al giorno d’oggi sono molto rari, ma ci sono alcune signore anziane in città e giù alla ‘casa’ che vedo con questi mantelli in chiesa nel periodo natalizio”.
I bambini, che avevano manifestato una notevole paura e inquietudine durante l’ultima parte del racconto, dichiararono che non avrebbero più ascoltato storie così terribili. Si erano insinuatii nel divano e sulle sedie, ma credevano comunque di aver sentito qualcuno che li strappava da sotto il tavolo.
All’improvviso vennero portate le luci e scoprimmo, con nostro grande divertimento, che i bambini avevano messo le gambe sul tavolo. Le luci, il dolce natalizio, le gelatine, le crostate e il vino scacciarono presto l’orribile storia di fantasmi e ogni paura dalle loro menti, ravvivarono gli animi di tutti e portarono la conversazione sul loro vicinato e sugli argomenti del giorno.
Alla fine i nostri pensieri presero il volo verso qualcosa di più sostanzioso all’apparire del porridge natalizio e delle costine di maiale arrosto. Ci lasciammo presto e ci siamo separati con i migliori auguri di Buon Natale. Non so se siano state le storie, la cena sostanziosa, la mia debole condizione, o tutte queste insieme, che ne furono la causa; Mi sono rigirato di qua e di là nel mio letto e mi sono coinvolto con folletti, fate e fantasmi per tutta la notte. Alla fine ho navigato in aria verso la chiesa, mentre alcune allegre campane da slitta risuonavano nelle mie orecchie. La chiesa era illuminata e quando entrai vidi che era la nostra chiesa nella valle. Non c’erano altri che contadini con i loro berretti rossi, soldati in uniforme completa, ragazze di campagna con i loro copricapi bianchi e le guance rosse. Il ministro era sul pulpito; era mio nonno, morto quando ero piccolo.
Ma proprio mentre era nel bel mezzo del sermone, fece una capriola – era conosciuto come uno degli uomini più intelligenti della parrocchia – proprio in mezzo alla chiesa; la cotta volò da una parte e il colletto da un’altra. “Là giace il parroco, ed eccomi qui”, disse, con una delle sue note arie, “e ora facciamo un ballo di primavera!”.
In un attimo l’intera congregazione era nel bel mezzo di una danza selvaggia; un contadino alto e grosso venne verso di me, mi prese per la spalla e disse: “Dovrai unirti a noi, ragazzo mio!”.
In quel momento mi svegliai e sentii che qualcuno mi tirava la spalla. Riuscivo a credere a stento ai miei occhi quando vidi lo stesso contadino che avevo visto in sogno chinarsi su di me. Era lì con il berretto rosso calato sulle orecchie, una grande pelliccia sul braccio e un paio di grandi occhi che mi guardavano fissi.
– Devi aver sognato, mi disse, “il sudore ti sta salendo a grosse gocce sulla fronte, e tu dormivi pesantemente come un orso nella sua tana! Pace di Dio e un buon Natale a te, dico, e i saluti da tuo padre e da tutti i tuoi nella valle. Ecco una lettera di tuo padre, e il cavallo ti aspetta in cortile”.
– Ma, santo cielo, sei tu, Thor? Gridai con grande gioia. Era proprio un uomo di mio padre, uno splendido esemplare di contadino norvegese. “Come diavolo hai fatto a venire qui?”.
– Ah, questo posso dirvelo presto, rispose Thor. “Sono venuto con la tua preferita, la cavalla baia. Ho dovuto portare tuo padre a Næs, e poi mi ha detto: “Thor”, disse, “non è molto lontano il paese da qui. Prendi la cavalla baia e vai a vedere come sta il tenente, e se sta bene e può venire con te, devi portarlo con te,” “così disse”.
Quando lasciammo la città era giorno. Le strade erano in condizioni splendide. La cavalla baia allungò le sue vecchie gambe eleganti e arrivammo in vista della cara vecchia casa. Thor saltò giù dalla slitta per aprire il cancello e, mentre ci avvicinavamo allegramente alla porta, fummo accolti dal chiassoso benvenuto del vecchio Rover, che nella sua frenetica gioia di sentire la mia voce quasi ruppe la catena nel tentativo di precipitarsi su di me.
Un Natale come quello che trascorsi quell’anno non lo ricordo né prima né dopo.
Tratto da Round the Yule Log: Norwegian Folk and Fairy Tales
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Peter Christen Asbjørnsen (15 gennaio 1812 – 5 gennaio 1885) è stato uno scrittore e studioso norvegese. Lui e Jørgen Engebretsen Moe erano collezionisti di folklore norvegese. Le loro raccolte di racconti popolari sono comunemente citate solo come “Asbjørnsen e Moe”.