UN RICORDO DI ROMA

– “Un ossario, completamente coperto di ossa scricchiolanti di uomini morti, con stinchi rinsecchiti e teschi gialli e senza mascelle. Cose che a sentirle dire mi hanno fatto tremare”.


UNA VOLTA nella mia vita vidi un luogo come l’immaginazione aveva raffigurato alla semi-frenetica e irresoluta Giulietta, mentre portava alle labbra la fiala il cui contenuto l’avrebbe consegnata, vivente, alla tomba dei Capuleti; una volta le cui realtà tangibili sembravano incarnare tutti gli orribili concetti e i fantastici terrori così vividamente espressi nei suoi eloquenti deliri – oscuri, umidi e ripugnanti – e così “circondata da orribili paure”, che avrebbe potuto davvero sconvolgere un cervello in cui predominava troppo la fantasia.
Mentre passeggiavo in compagnia di un amico in una luminosa mattinata in Piazza Barberini, la nostra attenzione fu casualmente rivolta a un edificio senza pretese che si erge sulla piazza a breve distanza e quasi di fronte alla celebre Fontana del Tritone.
Chiedendo informazioni, siamo stati informati che si trattava della “Chiesa dei Cappuccini” e che conteneva alcuni notevoli dipinti, oltre ad altre cose che valeva la pena vedere.
Poiché la nostra informatrice era una graziosa fioraia, abbiamo investito mezzo paolo a testa in un bouquet e siamo andati a visitare la chiesa. Al nostro bussare al portale rispose un confratello molto avanti negli anni, le cui venerabili tempie erano ombreggiate da pochi capelli d’argento e la cui testa (cocuzzolo) liscia mostrava che il tempo aveva reso superfluo l’uso del rasoio penitenziale.
Le sue parole di saluto furono poche ma gentili, e il pallore della solitudine copriva un volto pieno di calma speranza, mitezza e benignità. Con calma ma con allegria ci condusse da una cappella in cappella, mostrandoci i tesori del tempio e descrivendone, con frasi ad effetto, i meriti e le bellezze ineguagliabili. C’era il grandioso combattimento di San Michele e il drago, opera di Guido; San Paolo che riceve la vista, opera di Pietro de Cortona; e un cartone di Giotto, chiamato “La Navicella“.
Dopo aver ammirato i dipinti a sufficienza, in italiano, per compiacere il nostro venerabile cicerone, e averne abusato in inglese per compensare noi stessi dell’affettazione a cui eravamo stati spesso costretti dalla cortesia – ovvero lodare la sbiadita protervia di questi vecchi maestri dell’arte – ci accingemmo a partire. Improvvisamente il mio compagno si fermò: “Credo,” disse al portiere, “di aver sentito parlare di una curiosa cripta sotto la vostra cappella; non possiamo vedere anche quella?” Il vecchio scosse la testa pensieroso e rispose: “Non è nostra abitudine mostrarla agli estranei, e in effetti pochi desiderano vederla, ma voi, signori, siete un paese lontano e forse non sarebbe cortese rifiutare di soddisfare la vostra curiosità”.
Così, senza altre parole, prese un mazzo di chiavi ponderose e, accendendo una grande lanterna, ci invitò a seguirlo.
Ci adeguammo; e dopo aver attraversato diversi lunghi corridoi e oscuri passaggi, il nostro conduttore alla fine ci fece scendere una rampa di gradini di pietra e l’apertura di una porta rinforzata di ferro ci fece entrare negli appartamenti dei morti.
Quando entrammo, l’atmosfera gelida provocò un brivido involontario, al quale il vecchio sorrise.”Signori“, disse, “queste stanze sono fredde e buie, ma gli abitanti di questo luogo non hanno bisogno né di luce né di fuoco”.La prima stanza in cui entrammo era una sorta di vestibolo, con pareti di pietra nuda, in cui la luce del giorno penetrava attraverso una stretta grata, ma che era in grado di fornire un’immagine di grande impatto.Man mano che avanzavamo, la lanterna del monaco era la nostra unica luce e respiravamo a fatica l’aria densa e fetida.
Seguendo la nostra guida lungo uno stretto marciapiede, passammo attraverso una serie di stanze basse e spioventi, i cui pavimenti erano fittamente ricoperti di tombe e le pareti costruite con ossa umane. Di tanto in tanto il monaco si fermava e voltava la luce per mostrare al meglio i vari orrori di ogni camera.
Le tombe erano semplici tumuli di terra, affiancati l’uno all’altro con grande regolarità, la testa di ciascuna era segnata da una croce nera con un cartellino, contenente il nome dell’occupante e la data della sua morte.
Le pareti erano costruite con ossa di gambe e braccia ordinatamente e compattamente accatastate come cataste di legna, e nicchie, pilastri e cornici, in tutte le varie forme del disegno architettonico.
I soffitti rivaleggiano con quelli delle chiese medievali per l’ingegnosa varietà dei motivi. L’osso sacro a forma di acanto e l’osso coccige formavano una ricca cornice per le pareti e gli archi, mentre le costole, le dita delle mani e dei piedi e le vertebre scollegate servivano per le modanature dei pannelli curiosamente lavorati dei soffitti. Dal centro pendevano lampadari ossei di intricata fattura e dalle forme eleganti, e teste di morte cherubiche alate con scapole abbellivano gli angoli.
Ma l’orribile ingegno dell’artigiano non si limitava solo a questi ornamenti architettonici. Ogni camera conteneva un disegno di carattere più artistico e ambizioso. Qualche allegoria morale o religiosa realizzata in osso. Qui c’era uno scheletro del Tempo, con la sua falce e la sua clessidra.
Lì una sinistra giustizia con spada e bilancia, un imperatore ossuto seduto su un trono di teschi, con in mano un globo e uno scettro, rappresentati da un teschio rotondo e liscio e da una fibula bianca, e che porta sul suo dorso nudo un fantastico diadema osseo.
Nelle nicchie e lungo le pareti c’erano i corpi semi-mummificati di monaci morti, vestiti con gli abiti che avevano indossato in vita, in piedi, reclinati, seduti e inginocchiati come in segno di devozione, ognuno dei quali teneva tra le dita ossute un crocifisso e un rosario e portava la frusta annodata cinta intorno alla vita.
Alla cintura di ognuna di queste figure era attaccato un cartellino simile a quello che segnava le tombe, con il nome e la data di morte del proprietario.
Alcuni di essi, ho osservato, erano datati addirittura all’anno 1694.
Poiché lo spazio destinato alla sepoltura era stato riempito da tempo, era consuetudine, alla morte di un monaco, disotterrare il corpo che giaceva da più tempo nel terreno e deporlo in una nicchia, mentre la comoda tomba veniva ceduta al nuovo arrivato per una stagione. Mentre il vecchio ci raccontava questo, guardai involontariamente la sua schiena curva e il suo volto pallido.
“Sì Signore”, disse, con un sorriso placido, come in risposta ai miei pensieri; “non passerà molto tempo prima che il nome del vecchio Fra Francesco sia piantato lì tra gli altri; e poi, quando avrò dormito il tempo che mi spetta, anch’io dovrò lasciare il posto a un altro, e stare come questi nelle nicchie.
“Non è un’idea troppo orribile?” disse rapidamente il mio compagno.
“Giovani amici”, disse il monaco, raddrizzandosi per quanto la sua età e le sue infermità glielo permettevano, e la sua voce fino ad allora flebile si gonfiò in toni pieni, fermi e forti, – “quando l’anima immortale si sarà liberata dalle erbacce fatiscenti della mortalità e avrà preso il suo posto tra i beati, cosa importa come e dove la vecchia veste abbandonata si trasforma nella sua polvere originaria?”.
Quando finalmente raggiungemmo l’ultima camera della suite, il nostro conduttore si voltò per tornare sui suoi passi, ma non sentendoci soddisfatti di questa indagine sommaria, abbiamo chiesto il permesso di rimanere ancora un po’ allo scopo di fare degli schizzi di alcune delle scene che ci avevano maggiormente colpito. Questo fu prontamente accordato e per facilitare la nostra visione furono accesi i ceri nei candelabri. Poiché i doveri di questo luogo non gli consentivano di rimanere più a lungo, e gli era vietato lasciare aperta la porta della cripta, la nostra guida ci disse che sarebbe stata costretta a lasciarci allora, ma che sarebbe tornata alla fine delle due ore per liberarci dalla nostra sepoltura volontaria. Proprio allora il mio amico scoprì che aveva lasciato l’astuccio in camera e doveva necessariamente andare a prenderlo.
“Ma forse non ti piacerà rimanere qui da solo?”.
“Vai pure; che idea! Mi piacerà molto”.
Così mi sedetti tranquillamente al mio lavoro e di lì a poco sentii il suono stridente della chiave che girava nella serratura e il “colpo” del pesante catenaccio che si conficcava nella serratura. Fino a quel momento avevo osservato gli oggetti che mi circondavano con la fredda curiosità che accompagna chi passeggia in un museo di animali imbalsamati.
Sorriso al grottesco, mi meravigliava dell’ingegnosità, ma non provai alcun sentimento di soggezione, disgusto o timore superstizioso; ma nel momento in cui il sordo riverbero del catenaccio che si chiudeva cessò, un brivido gelido mi attraversò il corpo, così improvviso che non potei nemmeno fare uno sforzo per resistergli. Lasciai cadere le matite e mi alzai in piedi, sforzandomi di indurirmi contro una terribile consapevolezza opprimente che mi attanagliava, che ero solo, rinchiuso nel silenzio e nella morte.
Le orribili mummie mi scrutavano da sotto i loro cappucci tarlati; le loro orbite cieche sembravano brillare di un’intelligenza diabolica, e il loro sorriso idiota aveva un movente e un carattere diabolico; sì, alla luce tremolante dei ceri sembravano muoversi, e con le loro dita scarne, come gli artigli di qualche uccello sudicio, mi facevano segni e mi indicavano “Suvvia, questa è puro infantilismo”, mi dissi; “T– tornerà dopo un po’ e, scoprendo che non ho fatto nulla, riderà di me”.
Così mi sforzai di riprendere il mio lavoro. Ma no! Stavo soffocando. Eppure il posto era arieggiato, perché le correnti d’aria che entravano da due porte buie facevano ondeggiare continuamente le luci. Oh, per un suono! Stavo soffocando in silenzio, eppure mi sentivo come se non avessi più potere di parola delle mummie da cui ero circondato.
Cercai di nuovo, con un forte sforzo, di riportare la ragione sul suo trono e di riprendere il mio disegno; ma i miei occhi erano affascinati dai luoghi bui, e ogni ombra copriva qualcosa di più orribile di ciò che la luce rivelava. Ero convinto che se fossi rimasto fermo sarei impazzito.
Allora presi la lanterna e andai a scrutare gli angoli in ombra, fiammeggiando la luce sui volti dei monaci sorridenti, gettando indietro i loro cappucci ammuffiti, deridendo i loro atteggiamenti e facendo loro le boccacce come se fossimo stati candidati a una partita di ghigno.
Eppure, mentre passavo da una stanza all’altra, ero perseguitato dalla consapevolezza che di lì a poco avrei scorto qualcosa di ancora più spettrale e terribile di qualsiasi cosa avessi visto fino ad allora. Oh! Eccolo qui – lo sapevo – in un angolo solitario che il frate non ci mostrò, mezzo pieno di cumuli di ossa disarticolate e di carcasse disseccate non ancora disposte in una mimetismo monumentale – e questi tre dannati burloni della vita, vestiti ed etichettati, con macchie di pergamena secca ancora aggrappate alle loro ossa gialle, ciuffi di capelli ammuffiti che pendevano sulle loro teste, i loro abiti di tela di sacco marciti e caduti a mucchi sui loro piedi, esponendo alla vista i loro orrendi stinchi. “Evviva! Fratello Bartolomeo, mi sembrate in ottima forma per uno che è morto da cento anni. Ho! Fra Pietro, mio sgradevole amico, tieni la lanterna per favore, e balleremo”.
Così iniziai a canticchiare il Sogno del Diavolo e saltai per la stanza, prendendo a calci un cranio a destra e una serie di costole a sinistra, tutto a tempo di cornamusa. “Balancez all-turn your partners”. Mi lanciai su Fra Nicolo e, mentre lo giravo, la sua testa di grizzly si staccò e rotolò in un angolo buio, quando, con un brivido improvviso, gli feci scivolare dietro la carcassa ammuffita.
Ora il mio sangue si era scaldato e cominciai ad arrabbiarmi. Raccogliendo un robusto femore, avevo una mezza idea di picchiare gli altri due perché mi sorridevano. “Mi fai l’occhiolino, vile carogna?”.
“In nome di tutti i demoni, cosa significa questo? Sei impazzito?”
C’era T– sulla porta, bianco come un fantasma, con i capelli ritti. Incerto se stare in piedi o fuggire.
In un attimo recuperai l’equilibrio e lasciai cadere l’osso della coscia.
“Non proprio pazzo, T., ma forse non molto lontano da esso”.
“Ho appena la forza di stare in piedi”, disse lui, appoggiandosi al muro.
“Appena il vecchio portiere mi ha chiuso la porta in faccia ho sentito il tuo infernale rumore e l’ho chiamato perché tornasse; ma suppongo che sia sordo, perché non mi ha risposto. Allora mi è venuto in mente che probabilmente i monaci erano usciti dalle loro tombe e ti stavano portando a Pandemonium, e con uno sforzo sovrumano di coraggio sono venuto qui in tuo aiuto.
“La mia prima occhiata ha confermato questa idea, ma quando ti ho visto gettare il frate ammuffito in un angolo e armarti di quell’osso martellante, ho concluso che eri impazzito e che eri tu stesso l’aggressore”.
“T– “, dissi, “mi stavo solo divertendo, e ora andiamo a disegnare”.
Quindi ci siamo seduti tranquillamente a lavorare; ma sono convinto che la mente del mio compagno non fosse del tutto a suo agio riguardo alle mie condizioni,finché non completai uno schizzo accurato della camera in cui eravamo seduti e lo consegnai per la sua approvazione. All’ora stabilita Fra Francesco venne a liberarci e con lui riemergemmo allegramente al mondo illuminato dal sole.

Oltre a questi spaventosi schizzi, gli eventi di quella mattina mi fornirono materiale per gli incubi di molti anni dopo, e mi diedero anche una visione dei misteri della psicologia; ma su questo argomento non voglio essere confidenziale con tutti.

Articolo tratto da: Harper’s Magazine, Volume 15
a cura di Henry Mills Alden, Lee Foster Hartman, Frederick Lewis Allen, Thomas Bucklin Wells.


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