UN RACCONTO INVEROSIMILE

Di EMMA PERODI.

«Peccato confessato è mezzo perdonato» dice un antico proverbio, e io, Mario mio, lo voglio proprio confessare a te questo peccataccio della mia infanzia capace che mi pesa ancora sulla coscienza. La penitenza l’ho fatta già da molti anni, ma non mi parrà di averlo scontato assai, finchè non avrò salvato qualcuno dal caderci pure.
Se te la devo dire schietta, mi pare che tu abbia una certa propensione a commetterlo, che tu sia sull’orlo del precipizio…; ma stammi a sentire.
Io ero curioso, curioso da morire quand’ero bambino. Non pativo di quella curiosità che spinge certi ragazzi a stare alle porte ad ascoltare, nè di quell’ altra non meno brutta che li fa frugare fra le lettere stracciate dal babbo, nei cassetti della mamma, e in ogni dove la loro avida immaginazione fa supporre vi sia un addormentato segreto da scoprire. No, la mia curiosità era di un altro genere; era forse meno volgare, meno bassa; anzi, la mamma mia, che mi adorava, sosteneva che era una nobile curiosità, e se non la incoraggiava per riguardo al babbo, però chiudeva un occhio e anche tutti e due quando mi sorprendeva mentre l’appagavo.
Ma ancora non ti ho detto, Mario mio, di che genere fosse quella tale curiosità. Essa era del genere letterario. Bastava che vedessi un libro ingiallito dal tempo e stampato a caratteri antiquati; bastava che trovassi un fascicolo di vecchia pubblicazione perchè dimenticassi lezioni, giuochi e tutto.
I libri nuovi, belli, che ornavano le tre larghe pareti dello studio del babbo, non mi tentavano. Ci volevano per me quei libriccini senza frontespizio che si gettano dietro i filari di libri nel fondo degli scaffali, quelle pagine stracciate, quelle pubblicazioni senza principio nè fine.
La mia curiosità era tanto grande che, se capitando in cucina mentre il cuoco tornava da fare la spesa, vedevo il salame o il cacio rinvoltato in un foglio stampato, correvo a prendere un foglio bianco e m’impossessavo di quello unto bisunto per andarmelo a leggere avidamente in uno stanzino appartato. E che gusto ci provavo! La mia immaginazione tesseva il principio mancante di quel brano di racconto o di opuscolo, almanaccava per trovarci una fine, e lavorava faticosamente, con mia grande soddisfazione.
Un giorno, non precisamente in cucina, ma in soffitta, in una cassetta dove c’era un po’ di tutto, rinvenni alcune pagine di libro, mezze stracciate e macchiate tanto dall’umidità, che pareva impossibile le potessi leggere. Mi messi a sedere in terra fra tutti quegli attrezzi, e non mi alzai finchè non ebbi terminata la lettura.

Si trattava di avventure di viaggio; era un viaggiatore non so di qual paese, che visitava non so quali contrade, il quale tornato in patria si dilettava a narrare quel che gli era successo. Quel racconto diceva presso a poco cosi:
Una sera mi avventurai in una folta boscaglia che dovevo traversare per giungere al più prossimo villaggio. Non avevo altra compagnia che il mio cane e il mio fucile; ma che cosa occorre ad un intrepido viaggiatore oltre quei due amici? Nulla. Cibo non poteva mancarmene, coraggio ne avevo per cento, e sarei stato capace di far fronte, senza batter palpebra, a dieci lupi affamati.
Ero stanco; mi coricai e sdegnai anche di prendere la precauzione che prendono tutti i viaggiatori quando traversano contrade selvaggie. Essi accendono dei fuochi prima di addormentarsi. Ma io! Oibò! Non avevo forse il mio fucile per difendermi, non c’era Lampo, l’astuto Lampo, che mi avrebbe dato l’allarme?
Scelsi per letto un pezzetto di praticello che circondava il piede di una quercia così grossa e vecchia che venti uomini non sarebbero stati sufficienti ad abbracciarne il tronco; presi per guanciale una pietra e mi addormentai palpando il collo di Lampo con la sinistra e stringendo il fucile nella destra.
Dei immortali! Nè malfattori, nè belve, avrebbero osato accostarsi a me. La fama delle mie gesta doveva esser giunta nei covi dei malandrini e negli antri delle belve. L’eco delle mie prodezze riempiva le vaste solitudini delle foreste, le sconfinate spiagge del mare, le incommensurabili altezze delle montagne. Tutti mi conoscevano di nome, tutti mi temevano; di chi dovevo temere?
Dormivo saporitamente, quando fui destato all’ improvviso da una carezza e da un amplesso. Chi poteva esser giunto lì dei miei in quella solitudine? Pensai subito che i selvaggi abitanti del villaggio vicino mi fossero venuti incontro per tributarmi a quel modo il loro omaggio. Ma l’abbraccio doventò troppo stretto.

Pareva che due morse di ferro mi cingessero il petto. Intanto Lampo vicino a me latrava; io mi sentivo sollevare da terra. Stesi una mano per afferrare il mio fucile che avevo lasciato sfuggire nel sonno, non lo trovai più; stesi l’altra per acchiapparmi al collo di Lampo, e cosi a tastoni non sentii altro che un pelame folto. Intanto la stretta continuava, e mi opprimeva. Non c’era dubbio; i selvaggi vestiti della pelle di qualche fiera mi avevano sorpreso nel sonno, mi avevano fatto prigioniero. Nel buio non scorgevo nulla, altro che il mantello bianco di Lampo, la canna lucente del mio fucile e un paio d’occhi, simili a quelli di un gatto, fissi su di me.
Cercai di parlare; nessuna voce rispondeva alla mia, altro che i latrati soffocati di Lampo, che pareva domandasse aiuto. S’alzò la luna e la sua luce bianca penetrò fra il fogliame degli alberi. Allora mi accorsi che non avevo di fronte dei selvaggi, ma un branco d’orsi di statura smisurata che mi guardavano leccandosi le labbra. Intanto Lampo, stretto fra le branche di uno di essi, mandava gli ultimi aneliti.
Che fare? Pensai di arringare quelle belve, di provare su di loro l’effetto potente della mia parola, il rombo della mia voce, come l’avevo provato tante volte sui selvaggi, che avevo veduto prostrarsi ai miei piedi e adorarmi.
« Signori orsi, dissi, voi mi fate l’onore di una visita ed io ve ne sono gratissimo. Mi date ripetute prove di affetto stringendomi al seno, e a me duole di non potervi contraccambiare. Concedetemi almeno di dimostrarvi quanto mi sieno care le vostre dimostrazioni d’affetto. »
A queste parole, l’orso che mi teneva stretto apri le branche ed io potei respirare. M’alzai e guardai intorno a me. Un orsacchiotto si divertiva col mio cappello, uno teneva il fucile, un altro sorreggeva affettuosamente il corpo di Lampo, e dietro a questi ne vedeva altri far capolino fra i rami degli alberi, spettatori di quella scena di cui io ero l’attore principale.

Il mio amor proprio era in giuoco, la paura mi era ignota in quel momento, come mi è stata sempre invita mia, e ripresi impavido e sorridente la mia arringa.
«Signori orsi» (avevo visto che a dar loro un po’ di burro anche quelle bestiacce sorridevano); «signori orsi, io sono un viaggiatore celebre ed ho intrapreso il pericoloso viaggio in queste ignote regioni del globo appunto per imparare a conoscervi.»
«Oh!» esclamarono in coro i miei uditori tre volte la testa in segno d’approvazione.
«Si, signori orsi; una scimmia capitata per caso in possesso di un selvaggio che ebbe la sorte di visitare l’Europa, mi parlò di voi, mi vantò la vostra ospitalità, il vostro animo generoso, l’accoglienza festosa che fate ai viandanti, e io partii apposta dal mio paese per venire da voi.»
«Oh!» ripeterono gli orsi ascoltandomi.
«Vedo che la scimmia non mi ha ingannato, poichè voi mi siete venuti incontro, mi avete abbracciato teneramente, soffocate negli amplessi il mio cane, e mi liberate anche dalla fatica di portare quell’ inutile bastone di cui mi servo per appoggiarmi nelle lunghe pellegrinazioni e che ha un potere magico. Rendetemelo e vedrete che vi farò restare a bocca aperta.»
«Tutti gli orsi esaminarono con curiosità quell’ arme, a me tanto necessaria, e quello che la reggeva me la porse gentilmente. Appena l’ebbi nelle mani feci fuoco contro quella bestiaccia che soffocava il mio Lampo, e la stesi morta. Gli orsi istintivamente si dettero a fuggire, ma io li arrivai con le palle del mio fucile e poco dopo il bosco era seminato di cadaveri. Ne contai cinquanta. All’alba ripresi il mio viaggio.»

Qui finiva il racconto, non perchè l’autore avesse fatto punto, ma perchè i topi forse s’erano dati cura, con i loro dentini, di sopprimere il rimanente.
Senti Mario, ora viene il buono. Avevo ancora la testa piena di quel racconto meraviglioso, quando la mattina dopo la mia ascensione in soffitta fui chiamato insieme con i miei compagni di scuola alla lezione di zoologia. Ci era maestro un giovane scienziato, scrupolosamente esatto nei suoi insegnamenti, il quale, prima di parlarci di una specie di animali, soleva interrogarci per sapere se la conoscevamo e distruggere certi dati falsi trasmessi dalla tradizione popolare, e resti spesso di paurose leggende.
― Parleremo degli orsi oggi e delle loro consuetudini –disse. – Chi di voi li ha veduti?
Tutti risposero di averli visti ballare sulle pubbliche piazze; chi vantava la loro intelligenza, chi la loro mansuetudine.
― Io li conosco meglio di tutti – dissi, sorridendo di quel risolino di compassione che comparisce involontariamente sulle labbra di chi si crede meglio informato degli altri. – Ho letto molto intorno ad essi.
― Racconta quel che hai letto allora – ordinò il maestro.
Tossii, guardai in faccia l’uditorio, e rosso dalla contentezza di sbalordire i mioi compagni, ripetei il racconto letto il giorno prima.
Tutti mi ascoltavano a bocca aperta, ma quando incominciai a ripetere l’arringa del viaggiatore accompagnata dagli «oh!» degli orsi, un bisbiglio si inalzò nella sala. Il maestro rideva battendo la stecca sulla cattedra, e io, piccato di non vedermi creduto, continuavo, benchè le esclamazioni dei miei compagni coprissero la mia voce.
Quando ebbi terminato, il maestro, sempre ridendo, mi domandò come avevo fatto ad inventarmi quelle frottole, e mi avvertì che quando avessi delle nozioni zoologiche di quel genere, le raccontassi soltanto alla bambola della mia sorellina.
― Non sono frottole! ― esclamai; ― ho letto questo racconto in un libro di viaggi, e l’autore ha veduto da sè la scena che descrive.
Il maestro m’impose silenzio e continuò la lezione; ma dintorno a me non sentivo altro che risa represse, parole di scherno. Finita la lezione, i miei compagni mi circondarono chiamandomi «frottolone.»
Da quel giorno non potevo aprir bocca, dire per esempio che era tempo buono, se non sentivo l’epiteto di scherno fischiarmi nell’orecchio.
Persi la fede cieca che avevo nelle cose stampate, e un giorno, perseguitato, bersagliaio e stanco delle beffe dei miei compagni, raccontai tutto al babbo. Egli mi disse di portargli il libro e appena lo vide dette in una gran risata. Era un libro tirato a pochi esemplari, che un amico del mio nonno s’ era divertito a scrivere per narrare le sue immaginarie avventure di viaggio a un gruppo di campagnuoli che nelle veglie autunnali lo tormentavano chiedendogli sempre racconti. Era una burla, insomma, di cui io ero rimasto vittima.
Quel nome di frottolone mi è rimasto appiccicato ai panni anche da grande, anche all’università.
Dunque pensa a non curiosare fra le carte vecchie.

Tratto da: Giornale per i bambini
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Emma Perodi (Cerreto Guidi, 31 gennaio 1850 – Palermo, 5 marzo 1918) è stata una giornalista e scrittrice italiana, nota per le sue opere di letteratura per l’infanzia.