SVENTURE DI UN ARTICOLO

Sul principio io giaceva nelle tenebre del caos, ossia nel cervello d’ un giornalista, che non è nulla di meglio: la mia venuta era però annunciata agli amici, ai conoscenti, ai letterati d’ogni specie, e promessa fino nei giornali.
Laonde un bel mattino il giornalista sedette davanti al tavolo, e a furia di battersi i fianchi, di stirarsi i capegli, di sbuffare, di stralunare gli occhi, cominciai a pigliar forma e ad apparire in embrione su un foglio di carta bianca. Da quel punto cominciarono le mie prime sventure. Le infinite cassature, i tratti di penna che mi toccarono sul dorso, mi davano spasimi indescrivibili: più volte anche quel valentuomo del mio genitore lacerava il foglio, ed io strozzato in fasce, veniva gettato in un angolo fra i succidumi e le rimondiglie.
Finalmente quando a Dio piacque, o piuttosto quando piacque al giornalista, la mia Creazione fu compiuta, e presi forma e nome di articolo.

Allora, perchè il fattorino della stamperia era lì pronto, l’autore de’ miei giorni senza nepur farmi una carezza, nè tampoco rileggermi, m’inviò tosto al tipografo. Di ciò non mi dolsi pensando che gran numero di padri avviano i loro figli appena grandicelli in un collegio e li abbandonano a cure mercenarie.
Ma quello che mi ferì, fu la maniera sconcia colla quale fui trattato dai tipografi.
Lacerato in più parti per poter dar materia a molti compositori in una volta, io pareva appunto uno di quegli scolari, ai quali si danno più maestri in una volta, e che finiscono a non raccapezzar più le idee ricevute.
Così avvenne di me, quando ciascuno dei compositori ebbe fatta la sua parte, si durò molta fatica a pormi assieme e a ritornarmi all’unità primitiva.
Finalmente, quando credetti di aver passati tutti i guai, mi toccarono nuove e più crudeli ferite dalla revisione, la quale fece di me uno strazio indicibile.
Nè qui è tutto: cosi tagliuzzato io era poco ad empire il giornale, laonde i stampatori si diedero a torturarmi ed a stiracchiarmi senza nessuna compassione, tanto che giungessi alla misura fissata. Così malconcio fui messo sotto il torchio, e n’ebbi tanto dolore, che il mio gemere passò in proverbio, e lo stampare fu detto far gemere i torchj.
Di là piegalo e stirato uscii alla luce e qui comincia una nuova serie di disgrazie. Già non vi dico ch’ io fossi bello, leggiadro, dilettevole, importante; queste son cose delle quali dovete essere già persuasi. Io non voglio che raccontarvi i miei travagli.

Dacchè fui stampalo ed ebbi l’onore della pubblicazione, chi può ridire tutti i guai e tutte le sventure che mi toccarono?
Non la finirci più se vi dovessi raccontare le percosse toccatemi da certi arrabbiati che qui battevano contro il tavolo e mi gualcivano tra le mani, le goccie di caffè e di liquore che mi caddero sul viso e sulla persona, e quell’altre meno oneste che sgocciolavano dal naso dei lettori, lo sfregamento continuo sui tavolini, la cenere dei cigarri che mi toglieva il lume degli occhi, tutte insomma le nefandità con che son soliti a trattare i giornali gli avventori d’una bottega da caffè.
Tre giorni io durai in questo strazio, in questo martirio, nei quali neppur la notte aveva riposo per certi topi che andavano rosicchiando qua e là per la bottega, e ch’io sapeva non troppo amici della carta imbrattata di nero.
Finalmente venni tolto di là e trasportato cosi pesto e malconcio da un valentuomo, che avutomi all’apparire del nuovo foglio ebbe di me la più gran cura del mondo.
I due giorni ch’ io posai sul suo tavolino furono i più felici della mia vita. Ei mi lesse da cima a fondo, forse un tre volte, mi studiò, mi accarezzò, mi usò insomma tutte le cortesie possibili. Quel valentuomo era abbonato ai giornali per poche lire e poco gl’importava di leggerli dopo gli altri.
Quello era il vero tipo dei lettori. Se non che poco durai anche in questo stato.
Un dì che la fante aveva bisogno d’involgere un mezzo pollo arrostito di cui voleva far dono al garzone parrucchiere che le stava rimpetto, pose le mani per entro il foglio, e oh me meschino, io fui cavato per tale uffizio. Guardate che cosa sono le vanità di questo mondo.

Così di miseria in miseria passai per tutti i gradi della vita, sul banco d’un droghiere, poi su quello d’ un pizzicagnolo e d’un pescivendolo, infine tra le bragie d’un caldarrostajo. Eppure tante e si fortunose vicende non mi costarono per anco la vita.
La fortuna vuole ch’io vuoti fino all’ultima stilla l’amaro calice, ed ecco che mi trovo per ultimo sul banco d’ un venditore di tabacco, dove allungato e accartocciato sto aspettando il fuoco che mi consumi.
Però questa sola consolazione mi resta, che anche morendo avrò giovato alla gran causa dell’umanità, illuminando… un cigarro.
Una cosa val quanto l’altra.

U.

Tratto da Google Libri
La Fama. Giornale di scienze, lettere, ed arti. — 1840 anno V n.1