SULL’ INDUSTRIA DEL VETRO

CENNI STORICI – 1865

A capo della storia di quasi tutte le industrie troviamo la leggenda, che ne ingrandisce le origini. La leggenda vetraria riconosce a teatro la Fenicia, da cui pigliarono le mosse e le ispirazioni tante forme dell’umano lavoro e dell’umano pensiero.
Le arene di un fiume sacro (Belo) vi sostengono principal parte; comecchè ogni invenzione ed ogni fenomeno s’ imprimano primitivamente d’un arcano, terribile e sacro carattere. Plinio ci serba fra tanti miti anche questo: « Lo spazio del lito in cui il fiume sbocca nel mare non è più che cinquecento passi, e sembra da lunga stagione serbato a generare il vetro. È fama che, essendosi quivi abbattuta una nave di mercatanti, mentre sparsi per il lito mettevano ad ordine le vivande, non avendo tripodi su cui porre le caldaje, l’occasione fece che cavassero dalla nave alcuni pezzi di nitro, e che ve li sottoponessero, i quali essendosi accesi e mescolati all’arena del lito, videsi scorrere un lucente rivo di nuovo liquore e vuolsi che questa sia stata l’origine del vetro ».
Alla quale mescolanza, se pure avvenne, s’aggiunsero in appresso più dotte e sottili preparazioni, che trasformarono quell’ inatteso ritrovato in una certa industria; preparazioni ulteriori a cui la leggenda allude poco dopo: « In seguito, siccome è astuta e ingegnosa l’ umana cupidigia, non si contentò di mescolarvi nitro, ma vi commischiò ancora la pietra calamita perchè si crede che ella attiri a sè non solo il ferro ma anco il liquore ».
Con maggior verosimiglianza può dirsi che essendovi in quella spiaggia, come in tutta la marina della Siria e dell’ Egitto, copia grande di certa pianta, che gli Arabi appellano Kali, arsa pur questa e ridotta in cenere, mischiatasi accidentalmente coll’arena, sia venuta a formarsi una vetrificazione, la quale pose per avventura sulla via di conoscere gli ingredienti veri della composizione del vetro, ed a migliorarne e perfezionare l’operazione.
Nella Fenicia e nella Siria incontriamo pertanto la vetraria, da antico nota, forse eredata da più lontani tempi e da più lontane terre. I vetri e segnatamente gli specchi (colà a quanto sembra inventati) confermarono a Sidone quella fama già altrimenti assicuratale.
Giobbe ad attestare il pregio della sapienza dice che non ponno eguagliarla nè le opere d’oro, nè quelle di vetro (XXVIII, 17), e s’avverte a ragione che la lavorazione del vetro dovette essere coeva ai primi sperimenti de’ vasai, alla prima fornace che cosse mattoni od apprestò la molle pasta de’ vasi.
In ciò come in altro gli Egizi non paiono i posteri di nessuna altra gente; e Tebe precorse Sidone. Sapeva quel popolo muto e tenace tagliare, incidere e dorare il vetro; sapeva foggiare figure e gruppi lucicanti. Nel sarcofago di Tolomeo III si rinvenne un verde smalto in forma di scarabeo.
La Grecia sparse e ingentilì l’uso del vetro non che nelle maggiori città, ne’ villaggi e nelle isole. Ippocrate da Commette all’amico Cratere di spedirgli medicamenti in vasi di vetro. Aristotile considera per quali cagioni il vetro sia trasparente e non malleabile. Plutarco, oltre rammentare le tazze colme di vino, estima che il legno di tamarisco sia il più acconcio per accendere il fuoco e ben cuocere il vetro; estimazione che i Veneti volsero più tardi al legno dell’olmo.
I Romani rapirono ai Greci anche codesta primazia, a cui già potevano aspirare per vetusti italici esempi. Nei sepolcri della Campania e della Sicilia, tra i ruderi della rediviva Pompei, a Roma, ad Aquileja rinvengonsi oggetti di vetro quali molti secoli dopo uscivano dalle mani dei più sperimentati operai. Una patera, veramente mirarabile, del museo borbonico, trovata in una tomba, a Canosa, è formata, con ingegno che si direbbe modernissimo, di ritagli di cannucce. Tiberio, nemico d’ogni nuovo pensiero, fe’ demolire la casa, secondo alcuni, mozzare il capo, secondo altri, ad artefice che avea scoperto il modo di rendere flessibile e malleabile il vetro; lezione tremenda per gli inventori di quell’epoca; e Tiberio s’ebbe il plauso de’ moltissimi a cui la fragilità del vetro arrecava cospicui guadagni. I bicchieri di vetro formavano massimo ornamento delle mense romane, ed erano pregiati più dei bicchieri d’oro, d’argento, di cristallo di monte e di porcellana, che venivano dalle Indie.
Al tempo di Nerone tanto squisita n’era la fattura e tanta la ricerca che un petrotto, mezzano bicchiere a due manichi, costava circa un milliajo delle nostre lire. Ed erano anche serbati (alto onore !) a raccogliere, ne’ funerali, le compre lagrime delle prefiche, come allora e dopo furono serbati ai compri o bugiardi brindisi. La qual parte ne’ funerali ci ottenne che e bicchieri e ampolle ed urne si scoprissero, a gran gioia degli archeologi e nostra, nelle romane sepolture; e che Vinckelmann, considerando le urne cinerarie di Ercolano e Pompei, dichiarasse la vetraria antica di molto superiore alla moderna.
De’ vetri colorati già fin d’allora conoscevasi il magistero; e si adulteravano le gemme. Plinio (lib. XXXVI ) afferma che del vetro obsidiano si formavano gemme, i cui colori simulavano il bianco, il murrino, il giacinto, lo zaffiro. Però a tutti colori preferivasi il bianco, e lodavasi sovra ogni altro il vetro che emula il cristallo di monte. I cristalli più perfetti si fabricavano in Alessandria ed a Roma e salivano a gran prezzo.
Di vetro s’ornavano persino le camere; Scauro rivestì di vetro le scene del suo teatro; Agrippina coperse il pavimento delle sue terme di una mirabile vetrificazione a più colori. Lo smoderato lusso sopradominò la vetraria, raffinandone i produtti, ma isterilendo le fonti della prosperità generale e quindi di lunga mano apprestando ruina a tutte le arti.

Alcuni vogliono che i Veneziani apprendessero la vetraria a Sidone, fioritissima città anche al tempo delle crociate, come ce lo prova il Morosini nella sua opera Le imprese ed espedizioni di Terra Santa, ove leggesi : « Gli abitanti di Sidone vivono per la maggior parte del raccogliere la porpora e della facitura de’ vetri, è sono eccellenti nel tagliare il legname del monte Libano ».
È noto che ai Veneziani, per vittoria, toccò un quartiere in Sidone come in Tolemaide, nel quale quartiere soggiornarono ottant’ anni, tempo più che bastevole ad invogliarsi di un’arte e ad appararla; laonde non sarebbe inverosimile che alcuni di que’ Veneziani, reduci in patria, ed alcuni maestri sidonii allettati con denaro, stabilissero in Venezia, verso il 1487 (epoca in cui Saladino conquistò Sidone,) le prime manifatture di vetri, che vi avrebbero prosperato subitamente come tutto soleva in quell’ unica città.
Però eziandio nella veneta terraferma e sul margine della laguna disotterraronsi assai di frequente urne cinerarie ed ogni maniera recipienti di vetro, semplice o colorato; e cosi pure frammenti di musaici, ne’ quali alcune tinte, come interviene ne’ più antichi, si ottennero mercè pezzetti di smalto; de’ quali oggetti alcuni è provato appartenere a’secoli bassi: ed anche per altri fatti si conosce che Venezia, risuscitando l’antica tradizione italiana, tentava, fin da’ primi giorni della solitaria sua fortuna , le vie di questa industria come quelle di molte altre e del mare.
Dell’uso delle invetriate nelle lagune avremmo indubie testimonianze se possedesse più solide basi la conghiettura essere veneti quegli artefici che san Benedetto vescovo, chiamò, verso il 680, in Inghilterra per decorare e riparare dalle intemperie mercè le finestre il monastero di Wearmouth; ma non son conghietture i musaici che ornano le chiese di Torcello e di Venezia, ove la basilica di san Marco principiò andarne rivestita almeno nel secolo XI, e nuovo decoro ne ebbe per opera d’ un Pietro a’ giorni del doge Vitale Michiel nel 1959. Che se a tal uopo qui vennero musaicisti bizantini, non vennero ad introdurre un’arte nuova, ma solo a perfezionare l’antica.

Verso il 1250 cominciansi ritrovare documenti scritti che attestano il lustro in cui era salita la vetraria veneziana. Già fin dal 1268 incontriamo i vetrai, riuniti in corporazione, far mostra dei loro produtti nella processione di tutte le arti in onore del nuovo doge Lorenzo Tiepolo. Nel 1318 i fabricatori di margaritine costituivano una numerosa fraglia, che cominciò da quell’ anno a reggersi con particolare statuto, vantaggiata in ogni guisa dal governo la cui somma ingerenza può oggi spiacere e venir biasimata, ma i cui intendimenti rispondevano allora a bisogni che non sono i nostri, ad idee che non sono le contemporanee. Il maggior consiglio pigliava cura assidua, gelosa di tutte quante le arti; ed alla loro custodia avea deputato apposita magistratura, quella de’ giustizieri vecchi.
Dagli statuti (mariegole) emanati in quell’età apprendiamo che de’ vetrari quali nomavansi Buttigliari, quali Fialai, quai Paternostreri, quali Margariteri; e gli uni e gli altri andavano sommessi a leggi severissime.
Non potevano, a mo’ d’ esempio, riscaldar le fornaci e cuocere il vetro con altro legno che con quello d’olmario, reputato il migliore per tale oggetto.
Era loro proibito (savia cautela) il lavorare ne’ più caldi mesi dell’anno. Impedivasi la promiscuità delle industrie nella stessa fornace. I capi mastri dell’ arte erano astretti a giurare che non avrebbero in niun modo abusato delle grandi quantità di veleni e di materiali da guerra che maneggiavano.
Leggi punitive colpivano l’emigrazione degli artieri (di cui bassi esempio fino dal 4314), l’immigrazione di operai stranieri, lo spaccio di stranieri produtti, o di quei patri ma per mani forestiere: se non che, allo scopo che la disperazione non stabilisse i banditi negli altrui paesi, si mescolava il rigore all’ indulgenza, e con pieggiarie si rimettevano in grazia.
Venne pure contesa e vigilata l’esportazione della soda che in Venezia nomavasi allume gattino. Altre leggi, che potremmo appellare difensive (alla maniera d’allora), stabilivano le tariffe, ordinavano la formazione di buone statistiche, inibivano l’esercizio dell’arte a chi fosse privo di certe qualifiche di capacità e cittadinanza, questo esercizio nobilitavano.
A’ muranesi, che de’ vetri fecero il loro massimo vanto e la loro unica ricchezza, spettò la cittadinanza veneziana, il diritto di batter moneta, di seguire il doge e la signoria in publiche solennità, di esporre i più lodati produtti delle loro officine in una sala del palazzo dogale nell’assunzione di dogi o di dogaresse.
Molte fornaci di vetro stavano un tempo in Venezia medesima, ma ne fu ordinata la demolizione, e tutle le officine si trasportarono in Murano (1291) che da piccolo stato sali ad importanza di città con 30,000 abitanti, ora ridiscesi a 5000.
Fu nullameno conceduto che alcuni fornelletti da lavorar vetri ad uso delle osterie o piccoli vetri (verixelli), rimanessero in Venezia, ma a patto fossero almeno quindici passi per ogni parte lontani dalle case. Perchè i vetri ordinari non invilissero l’arte e non ingombrassero il mercato, i magistrati provedevano che non se ne formassero in soverchia quantità e ogni tanto ne sospendevano la fabricazione.
Alla fraglia dei fialai (phioleri) appartenne quell’ Angelo Beroviero che nella prima metà del quattrocento tenne in Murano una riputata fornace dove lavorava recipienti e fornaci. Egli era stato discepolo di don Paolo Godi da Pergola, il quale, espertissimo nella chimica, gli aveva communicate parecchie invenzioni per dare al vetro ogni imaginabile colore; invenzioni che il Beroviero perfezionò e descrisse in un libro di segreti che volea trasmettere a’suoi discendenti.
È fama che un tal Giorgio detto il Ballerino gli carpisse il ricettario, col quale potè, quantunque bruttissimo, ottenere una bella moglie e una cospicua dote, e piantare una fornace, durata con lode nella sua famiglia. Il Beroviero non mentì l’ epitaffio scolpito sulla sua tomba: Cui patuit vitrae quidquid in arte latebat.
Il figliò emulò il padre. Marino Beroviero nel 1468 era gastaldo dei fialai, e superava tutti per la vaghezza delle tinte che dava ai vetri. La famiglia Berovieri ebbe non piccola parte ne’ progressi dell’arte; per essa principalmente si ottennero vetri trasparentissimi detti cristallini, e vasi smaltati e dorati, e cannuccie di più colori, e si venne perfezionando la fabrica di quelle contigie o conterie la cui esportazione dovea dilatarsi nel più lontano oriente e ne’ paesi selvaggi.
Il lavorio delle margaritine a fuoco volante di lucerna riconosce a suo scopritore o perfezionatore un Andrea Vidaore (1528), intorno il quale si raggruppò nuova famiglia d’artefici, detta de’ soffialume, che impressero sempre maggior estensione al commercio delle conterie, uno de’ più importanti di Venezia. A mezzo il secolo XV uscivano meraviglie dalle fabriche muranesi, come ne tien fede l’Alberti nella sua descrizione delle isole italiane (1); fra cui giovi ricordare una galea di vetro fornita di tutti gli attrezzi marinareschi, ed un organo, parimenti di vetro, da cui effondevansi soavissime voci.
La riduzione del vetro in cristallo spianò la via alla fabricazione degli specchi di cristallo, che vennero sostituendosi ai pesanti e co-

(1) Isole appartenenti all’ Italia, ediz. ven. 1576, pag. 93.

-stosi e offuscabilissimi specchi d’acciaio; la quale fabricazione vuolsi promossa da un Vincenzo Roden, con tal fortuna che permise agli specchiai di congregarsi nel 1564 in una fraglia separata con speciali privilegi. Così lo spirito corporativo ubbediva a quel principio della divisione delle opere e degli operai che è fomite di progresso e di libertà.
Intorno al 1605 venne fatto a Girolamo Magagnati, dopo assidue, sperienze, di colorare i cristalli serbando loro la trasparenza; e così affaccettandoli si potè imitare ogni maniera di gemme. A lui pure dobbiamo la sostituzione dei cristalli da specchio agli antichi rulli delle finestre. Nell’industria poi degli specchi venne grandissima lode a Liberale Motta, che circa il 1680 li perfezionò, e ne fece di così ampie moli, che ancora non s’erano mai vedute.
Sino al 1600 circa serbò Venezia indisputato il monopolio dell’ arte vetraria; ma da quel tempo cominciarono a sortire effetto le insidie de’ governi stranieri per rapirne i segreti e corromperne gli artefici. « Vi sono stati dei ribelli della sua patria e del suo arle, così leggesi in un rapporto agli inquisitori di Stato, che l’hanno trasportata alle estere nazioni Francia, Inghilterra, Vienna e Norimberga e si è così disseminata ». Al Colbert riuscì, verso il 1670, introdurre nelle fornaci della Francia perfezionamenti solo noli a’ vetrai muranesi; de’quali alcuni passarono in quel torno medesimo in Inghilterra, ove il duca di Buckingham fondava pure una fabrica di cristalli. Anche nel terzo decennio del seicento, per simile oggetto, due muranesi, Giacomo ed Alvise Luna, erano andati in Toscana a’servigi pel granduca Cosimo II.
Uno speciale ricordo merita quel Giuseppe Briati, che udendo della floridezza e valentia delle fabriche boeme, vi si recò, e vi stette, semplice manovale, tre anni, durando ogni stento finchè gli furono palesi i più reposti artifici che addusse in patria. Ebbe in Murano a soffrire la rivalità e l’invidia de’ soverchiati colleghi, laonde il consiglio dei dieci, alla cui tutela, sola di tutte le venete industrie, era stata affidata l’arte vetraria, gli permise si trasportasse in Venezia, ove ebbe quiete e lavoro grande.
Non solo fabricò specchi di vaste dimensioni ma li accerchiò di cornici di specchio semplice o tinto, con lavori d’intaglio e con fogliami e fiori di rilievo. Le lampade a molte braccia decorò di foglie, di grappoli di uva e di fiori de colori più vivi. Formò lavori di filigrana d’un gusto squisito e d’una mirabile leggerezza, che, commisti al vasellame d’oro e d’argento, abbellirono le credenze e le mense de’principi e degli imperatori.
Delle fabriche muranesi saliva a bella rinomanza, nella seconda metà del decorso secolo, quella dei Miotti, segnatamente per la scoperta dell’ avventurina, leggiadrissima tra le produzioni vetrarie, a’ di nostri richiamata in vita; la quale, fosse lo studio o il caso che guidò a trovarla, ebbe il nome dall’avventurosa riuscita.
Gli usi singolari del compagnonaggio sopradominano, ne’ tempi anteriori alla rivoluzione, la vetraria francese. I vetrai formavano possente sodalizio, di cui è parola negli Stabilimenti di Stefano Boileau. Luigi XI s’occupò d’essi, come di tutto e di tutti; e ordinò che le porte a vetri sostituissero, negli appartamenti signorili, le massicce porte di legno, e prescrisse l’uso di vetri bianchi con sotlili mastietti di ferro.
E’ favoriva i vetri bianchi forse perchè nulla gli celavano de’ segreti de’ sudditi e delle case, e osteggiava i vetri colorati perchè contrastavano l’assiduo spionaggio che era per lui arte suprema di governo. I vetrai ebbero a patrono S. Marco; rigettarono dal proprio consorzio i bastardi; allungarono fino a nove anni l’umile tirocinio. Un’ordinanza di Luigi XI del 23 giugno 1467 fissa in otto lire tornesi le spese del ricevimento nel maestrato da pagarsi in parte al tronco (voce massonica) della confraternita, ed in parte alla bandiera sociale.
Vebbe in Francia come a Venezia un patriziato vetrario, Feudatari immiseriti dalle crociate, reduci dalla Palestina, tolsero ad esercitare, o a far esercitare per proprio conto da altri, l’arte vetraria, forse appresa nella città da cui alcuni pensano i Veneziani la traessero.
In Venezia gli artefici divenivano nobili; in Francia i re decretarono che solo i nobili potessero esercitare tale industria; la republica veneta fu in ciò, come in altro, più liberale e più illuminata.
Vi ebbero gentiluomini vetrai fino al 1789, seguatamente in Normandia, che illustrarono, più presto dell’industria da cui cavavano i redditi, la magistratura, la milizia, la poesia. Il poeta Saint-Aiman, l’orefice Filippo Aselin, i Novion furono patrizi vetrai; nobilità fragile!
Un epigrammista del tempo lancið questi versi :

Votre noblesse est mince,
Car ce n’est pas d’un prince
Dauphic que vous sortez ;
Gentilhomme de verre
Si vous tombez à terre,
Adieu vos qualités.

Incipit tratto da: IL Politecnico: repertorio mensile di studj applicati alla …, Volumi 26-27

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