Niccolò Tommaseo

Nacque Niccolò Tommaseo a Sebenico, in Dalmazia, da Gerolamo e da Caterina Chessevich, nel 1802.

Studiò, come secolare, in un seminario ed ebbe a maestro un vicentino che gl’ispirò l’amore dell’Italia. Amò fra tutti i poeti Virgilio; di Dante solo conosceva il Convitto, poco d’Ariosto.

A dodici anni scrisse sestine e sonetti contro Napoleone: a quattordici, improvvisa quinari, e gli ozi occupa a tradurre Virgilio in dialetto vicentino. Uscito dal seminario viene in Italia, contrae amicizia con alcuni letterati e si pone a studiare in modo prodigioso. Delle molte pubblicazioni fatte in quell’epoca si pentì più tardi e lo confessò candidamente. Ricorderemo di quell’epoca due tragedie, la traduzione in latino del primo canto della divina Commedia, e la dissertazione fatta, laureandosi in legge.

Collaborò nell’Antologia; nel 1823 pubblicò un volumetto di preghiere ecauristiche, gli Enimmi storici, Il Perticari confutato da Dante e compendiò il Galateo di Gioia. Da Milano passò a Rovereto dal Rosmini, dette opera agli studi danteschi e tradusse in parte la Soirées del Di Maistre.

Nel 1827 aveva frequenti colloquii con Rosmini e Manzoni, leggeva i canti popolari della Grecia, traduceva parecchi opuscoli rettorici di Dionigi, compilava i sinonimi. Andò quindi a Firenze, chiamato dal Viesseux, dopo aver scritto sul Sublime.

Ivi fa studi sulla lingua parlata, stende ogni giorno una facciata dei sinonimi, traduce, annota dal Greco, compone inni sacri e morali, prepara saporiti proemi alle strenne della stamperia Pezzati, comincia una commedia intitolata: Non arrossire della virtù, raccoglie sulle montagne pistoiesi proverbi e canti popolari toscani, conosce Gino Capponi, e scrive molto per l’Antologia, ove si firma con le iniziali K. X. Y.

Questi cenni abbiamo riassunti da una bella biografia pubblicata nella Gazzetta d’ Italia, da cui pure sono tolte le notizie, disposte cronologicamente che seguono:

1834. Per un articolo pubblicato nella Antologia, e che fu causa della soppressione di quel giornale, va esule a Parigi. Scrive italiano e francese, prose e versi, continua a tradurre Virgilio, compone romanzi storici, pubblica, illustrandoli, i documenti degli ambasciatori veneti, relativi alla storia di Francia, dà in luce un commento sulla Divina Commedia, scrive i cinque libri dell’Italia.

1838-39. Egli è in Corsica, proclamata l’amnistia, e vi raccoglie i canti popolari. Torna in patria: ai canti delle montanine toscane e delle tarchiate forosette di Cagliari aggiunge i canti popolari illirici e greci; ghirlanda di fiori fragrantissimi, collana di perle di grande semplicità e nitore.

Prende dimora a Venezia, e in quella città vedono la luce quattro de’ suoi scritti: Le memorie Poetiche, La Bellezza Educatrice, Il Dizionario Estetico, Le Scintille, proibite dalla ferrea censura austriaca per generosi entusiasmi. Il romanzo Fede e Bellezza, un poco nebuloso e intricato, ma autobiografico e spesso affettuosissimo, leva molto rumore.

Dal 1846 comincia lo agitarsi politico di Niccolò Tommaseo per migliorare le sorti di Venezia. Come il Manin, il Tommaseo, sebbene repubblicano, non voleva distruggere il dominio austriaco, ma soltanto addolcirne il rigore: e a quei tempi sembrava ardimento inaudito.

La polizia cercò la sua dimora, frugò le sue carte.

E qui ci si para dinanzi alla politica con i suoi volubili e indefiniti erramenti, con le sue mutabilità, con le sue tenzoni asprissime.

Ma sia pace all’uomo che a questa ora riposa sul suo letto di morte; non rinnoviamo contese sterili, non riattizziamo odii, nè rinfreschiamo sanguinose memorie.

In un interrogatorio, il Tommaseo rispose ai suoi giudici:

“Se cercassi lucri e vantaggi non sarei qui. Negli Stati Romani mi fu profferta la direzione di tre giornali e una cattedra: in Piemonte la direzione di un altro giornale; in Toscana due cattedre. Potevo anche rimanermene in Francia, e, scrivendo in quella lingua, ch’è la lingua del mondo, aver fama, ricchezza e titoli puramente acquistati. Ma io dal mio esilio in Francia ho riportato non ricchezze, non croci; ho riportato cosa che alle dame inglesi non è lecito nominare, ma che nelle carceri nominare si può; ho riportato questi calzoni che ho indosso, che mi costano otto franchi, cioè tre fiorini; e dal 1839 al 1848 ogni inverno li porto, e, in pena della mia cupidigia e ambizione e fellonia, sono venuto a finire di logorarmi nelle carceri di Venezia”.

Il 17 marzo del 1848, Tommaseo e Manin uscivano libero dalle prigioni, e il popolo li portava festante, e come in trionfo, per le vie di Venezia.

Il 22 marzo fu proclamata la repubblica di Venezia, con un governo provvisorio composto da otto persone; presidente Manin e primo degli Otto il Tommaseo.

Non vi è ormai colto italiano che non abbia letto la storia di quel periodo, avventuroso: che non sappia come il governo provvisorio cadesse il dì otto di giugno, come si ricostituisse e Tommaseo fosse ministro dell’istruzione e dei culti; come il Tommaseo si recasse due volte a Parigi, domandando aiuto indarno alla Repubblica Francese: e nessuno ignorava la caduta eroica della repubblica veneziana.

Dal 1849 al 1859 molta parte della sua vita descrive il Tommaseo nei tre volumi intitolati Il Secondo Esilio: e il luogo del suo esilio fu Corfù.

La specchiata onestà, la parsimonia veramente antica di Niccolò Tommaseo rifulse allorchè inviato a Parigi, come rappresentante della Repubblica veneziana, vi dimorò sei mesi e il suo soggiorno, comprese le spese di viaggio e il nutrimento di un altro uomo costò alla Repubblica settecento franchi. E ciò si legge nella Gazzetta Ufficiale di quei tempi !…

Nel 1851, Tommaseo fu nominato accademico della Crusca.

Scrisse nel 1851 il libro Delle due Potestà, ove si esprime rispetto al potere temporale:

“La separazione delle due potestà si farà presto o tardi (chè le generazioni nel cammino della verità sono istanti); ma, badate, o preti, che la non si faccia dopo scandali e discordie e bestemmie, delle quali in non piccola parte cadrebbe su di voi la vergogna e il rimorso”.

Nel 1854 il Tommaseo aveva preso stanza in Torino. Direttori di giornali, d’istituti scolastici gli fecero le più grandi offerte, la società più colta accolse con entusiasmo il proscritto venerando. Il Piemonte gli concesse ospitalità veramente generosa. Gli fu offerta la cattedra di eloquenza italiana nella Università di Torino; poi una cattedra libera nel Collegio delle provincie; ma ambedue, sdegnoso le rifiutò.

Non è vero che l’unità italiana egli vedesse di mal occhio, poichè scriveva al Vieusseux, nel maggio del 1859:

“Quello che dianzi pareva anco a noi un sogno di perfezione, ideale, quando se ne parlava con Alessandro Manzoni che sempre lo accarezzò, mi diventa il rimedio unico a mali tanto più da temere, che ci aggraverebbe la vergogna dell’aspettazione delusa.

Non vi spaventate voi se vi dico che questo rimedio è l’unità; che, se non possiamo ottenerla, dobbiamo proporla per discarico del passato, come germe dell’avvenire, che i tempi, più presto che noi non crediamo muteranno”.

Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859, opuscolo che pure pubblicò nei primordi della rivoluzione, apparve querulo e arcigno e seppe agro a taluno; e con esso il Tommaseo compì l’ultimo atto della sua politica.

Si stabilì in Firenze, che non sempre giudicò benevolo, e di cui scriveva nel novembre del 1852, durante il regime granducale:

“Che Alessandro Manzoni sia dimorato in Toscana senza toccare Firenze, è un atto degno di quella nobile vita. I cigni non si tuffano nella broda dei Ninci”.

Arduo sarebbe il ridire tutte le sue opere benefiche, altamente generose, gl’immensi studi e i lavori di lui dal 1859 sino al giorno della sua morte.

L’Italia perdé in Niccolò Tommaseo uno dei suoi più purgati scrittori, uno dei più eletti ingegni; i giovani perdono un maestro amorevole; gl’infelici un tenero e largo soccorritore; tutti perdiamo un esempio vivo di operosità, di virtù, di nobile grandezza.

Povero Niccolò Tommaseo! Egli è morto pochi mesi dopo la sua sposa adorata, è morto mentre dettava un libro alla cara memoria di lei, un libro di rimembranze soavi.

Coloro che abitano nel piccolo tratto del Lungarno che va dal ponte alle Grazie fino al canto di via delle Torricelle, non incontreranno più il veglio venerando, il cieco veggente, che solo usciva talvolta ai tiepidi raggi del sole, nei giorni in cui il cielo è più splendido e l’aria più carica di profumi inebrianti, e aiutandosi del suo bastoncello lungo la sponda, con andatura spedita e la persona diritta; mentre le madri che passavano, mormoravano ai loro bambini: Vedi, quello è Niccolò Tommaseo.



(Disegno del sig. Barchetta da una fotografia del signor Schem boche).

Tratto da Google Libri
L’illustrazione popolare Vol. X num. 8 – 21 giugno 1874