L’ULTIMA FATA

Jules Sandeau

I

Avevo sedici anni compiti quand’essa m’apparve per la prima volta. Fu, lo rammento benissimo, in una bella sera di maggio. Ero uscito solo soletto di città; vagavo senza meta nella campagna, trasognato, inquieto, senza una ragione. Ero cosi da poco tempo, e la solitudine mi piaceva.

Vidi il sole inabissarsi in un mare di porpora e d’oro, le ombre scendere dai pendii nella valle, le stelle accendersi l’una dopo l’altra nell’azzurro del cielo. Le rane gracchiavano dall’orlo degli stagni; di tratto in tratto scoppiavano i gorgheggi dell’usignuolo…. E sentivo anche commosso i fremiti delle foglie e le alte erbe piegarsi alla brezza con un mormorio melanconico, dolce.
La luna che s’era levata rossa sull’orizzonte, dormiva bianca e raggiante, sull’orlo di madreperla, d’una nuvola bianca, d’onde i suoi raggi cadevano in onde d’argento sulle spalle della notte. L’aria tepida era imbevuta di profumi inebbrianti: io ascoltavo presso le siepi in fiore le grida sottili degli uccelletti nei loro nidi.

Me ne andavo aprendo la mia anima a tutti questi profumi, a tutti questi rumori, quando scorsi una brigata di fanciulle giovani, che si tenevano per mano e ritornavano cantando in città.
Cantavano in coro la primavera e l’amore; le loro voci fresche vibravano nel silenzio dei campi addormentati come un lontano rumore di cascata.
Mi nascosi dietro un cespuglio di biancospini, e le vidi passare come uno sciame di quelle ombre bianche che si raccolgono la notte sulla riva dei laghi, e si muovono in danze leggere, e svaniscono ai primi chiarori dell’alba. Alla luce delle stelle io distinguevo le loro teste brune e bionde, e sentivo il fruscio delle loro vesti.

Quando sparvero, io mi sentii preso da un turbamento ignoto, ed essendomi seduto su un poggio, all’orlo dei prati che si stendevano ai miei piedi come un oceano di verzura, nascosi il capo fra le mani, restando immerso come in un sogno, ascoltando, cercando di comprendere i susurri confusi, i sussulti che si producevano in me.

Quello che provai, non ve lo saprei dire. Sentivo il cuore oppresso, in procinto di scoppiare. C’era in esso come una sorgente celata che cercava una uscita, come un flutto prigioniero che cercava di espandersi. Io gridavo, io piangevo, e nei miei pianti trovavo una certa voluttà.

Quanto tempo restai cola? Quando mi alzai, vidi a pochi passi da me una creatura celeste che mi guardava e sorrideva. Una tunica più bianca del giglio le scendeva in pieghe graziose e lasciava vedere, sul tappeto d’erba, due piedi nudi e bianchi come marmo pario.
I suoi capelli biondi scendevano sciolti attorno al collo; le sue guancie avevano la freschezza e il colorito dei fiori che coronavano la sua testa; sull’alabastro rosa del suo viso gli occhi brillavano come due pervinche sbocciate fra la neve ai primi tepori d’aprile; una mano di lei posava sul petto, mentre l’altra m’accennava cortese di appressarmi.

Restai qualche istante muto, immobile, rapito a contemplarla. Si, non c’era dubbio, essa veniva dal cielo, poiché la sua bellezza non aveva nulla di terreno, e vedevo come un’aureola luminosa che l’avvolgeva tutta.

Chi sei? dissi alla fine stendendo verso lei le braccia.

– Amico, – rispose con voce dolce più della brezza notturna; – io sono la fata che il re dei geni addormentó nel tuo seno quando sei venuto al mondo; stamane dormivo ancora, mi destai ai primi turbamenti del tuo cuore. La mia vita e fatta della tua vita; io sono tua sorella e sarò tua compagna fino al giorno che staccata da te, come un fiore appassito sullo stelo, ti lascierò nel mezzo della via, di cui, uniti, non avremo percorso che la metà. Questo giorno non è lontano, amico mio.
La rosa la quale non vive più di un mattino, è l’immagine del mio destino. Per volermi bene non aspettare d’avermi perduta, perchè nè i tuoi pianti, nè la tua disperazione, non potranno più rianimarmi quando non sarò più. Affrettati! Non ho nella mia mano nè palma incantata, nè bacchetta magica, non ho per ornamento altro che i fiori contesti ai miei capelli; pure avrai da me più tesori che mai fata benefica abbia seminato sulla culla di un re.
Ti porrò in capo una corona che molti principi si stimerebbero felici di poter acquistare a prezzo della loro vita; io evocherò per te un corteggio tale, che di rado videro e palazzi e corti. Invisibile e presente ti seguirò dovunque; dovunque sentirai la mia influenza feconda, seminerò la tua via di rose; balsami spargerò sul tuo letto, daró tutta l’anima mia alla natura per sorriderti ogni mattina quando aprirai gli occhi.
Però, figlio mio, impara a conoscere questi beni, còglili prima che ti sfuggano; e, toccandoli, non appassirli; fanne provvista per l’altra metà del cammino che dovrai percorrere senza di me…. Amico, te l’ho già detto, poco tempo ho di vita, dipende da te il prolungare la mia fragile e preziosa esistenza. Sono pari a quelle piante rare a cui bisogna misurare il sole e la pioggia.
I miei piedi sono delicati, non fare che si stanchino a seguirti. Il roseo delle mie guancie ha la freschezza del vilucchio del prato; non esporlo agli ardori troppo vivi se non vuoi vederlo svanire in un giorno, e non trascinarmi nemmeno sotto alle ombre troppe fitte.
Veglia affinchè nessun rimorso t’avveleni il rimpianto della mia perdita; che il mio ricordo ti sorrida; che rallegri ancora il tuo cuore con un dolce riflesso, molto tempo dopo che avrò cessato d’illuminare e di riscaldare la tua vita.

A queste parole, come un angelo custode che si pieghi sopra una culla, piegò verso di me la sua bionda testa; sentii il suo alito profumato più della menta che cresce attorno alle fontane, sfiorarmi la faccia….

Apersi verso di lei le braccia…. Ma la bianca apparizione era svanita come un sogno.

E infatti non era un sogno? lo continuai la mia via come ebbro dall’esuberanza di vita che sentivo in me. Parlavo ai fiori, agli alberi, ai cespugli. Ridevo, piangevo, e nuotavo in un mare continuo di gioie sovrumane.

Quando l’oriente cominciò a illuminarsi, mi parve di assistere per la prima volta al risveglio della creazione.
Il mio cuore si gonfiò, aspiravo orgoglioso l’aria profumata. Credetti per un istante che l’anima mia si levasse libera dal mio corpo per volare leggera negli spazi mista a leggeri vapori staccati, alle creste lontane, dal sole nascente.

Dall’alto del monte ove io mi trovavo, misuravo l’orizzonte con uno sguardo da trionfatore; la terra era stata creata per me; io ero il padrone del mondo.

II

Non avevo più di trent’anni quando essa m’apparve per la seconda volta. Fu, lo rammento benissimo, in una sera d’ottobre. Ero uscito solo di città; vagavo senza meta attraverso la campagna stanco: ero mesto e non ne sapevo il perchè. Ero cosi da gran tempo…. cercavo la solitudine.

Il cielo era basso e velato; una brezza gelata facea cadere, con un sinistro mormorio, le ultime foglie degli alberi. I cespugli non aveano altro ornamento all’infuori delle loro bacche rossigne. Dei guaiti lontani una striscia azzurrognola di fumo che si vedeva elevarsi attraverso i rami, rivelarono soli la vita in quella campagna desolata. Tuttavia qualche uccello smarrito volava qua e là, di ramo in ramo, e alcuni corvi picchiettavano il piano di macchie nere, e lunghi battaglioni di gru solcavano lenti l’atmosfera grigia del tramonto.

lo me ne andavo mescolando la mia anima al lutto della natura. Da gran tempo io ero, come essa, preso da quella fredda melanconia che accompagna il finire dei bei giorni. Sedutomi ai piedi d’un cespuglio sfrondato, vidi passarmi vicino due vecchierelle, lente lente, curve ognuna sotto un fardello di spine, provvista d’inverno che portavano alla loro capanna.

Ricordo strano! bizzarro confronto! Da quello stesso posto io avevo visto altra volta in una sera di maggio, passare una brigata di giovani fanciulle, che si tenevano per mano, e tornavano cantando. Avevo allora sedici anni, e i cespugli erano fioriti.

Nascosi la testa fra le mani, e ridestando nella mia mente i giorni passati da quella sera di maggio a questa di ottobre, io mi inabissai in breve in una cupa e profonda noia.

Quando mi levai, vidi davanti a me, a pochi passi, una figura pallida che mi guardava con tristezza. Era tanto cambiata che stentai a riconoscerla. Non l’avvolgeva più l’aureola luminosa della prima volta che m’apparve. Una tunica lacera la copriva. Aveva i piedi si sanguinanti, le sue braccia sottili e fiacche cadevano abbandonate lungo i fianchi. L’azzurro de’ suoi occhi s’era velato di nero, le lagrime avevano scavato un solco sulle sue guancie livide. La poveretta si reggeva a stento, e piegava verso il suolo come un giglio appassito.

– Che vuoi? le chiesi.
– Amico, l’ora di separarci è venuta; ma prima di lasciarti per sempre, ho voluto dirti addio…. – mormorò con voce angosciata, più triste del vento d’inverno.

Vattene, vattene, – esclamai io, – vattene, fata mentitrice…. Cos’hai fatto per me? Ove sono i beni che mi avevi promesso? Gli ho cercati invano sul mio cammino; non vi ho trovato che miseria… Dov’è quel diamante che dovevi porre sulla mia fronte? La mia la mia testa non portò che corone di spine…
E il corteggio principesco che dovevi evocare per me? Io non ebbi per scorta che la disperazione e la solitudine. Tu dici di separarci! a meno che tu non sia il genio del dolore; che cosa vi fu mai di comune fra me e te ? Ah!… se è vero che tu m’abbia seguito da per tutto, e che da per tutto abbia subito la tua influenza, vattene, maledetta… tu sei lo spirito del male.

Non sono nè lo spirito del male, nè il genio del dolore, rispose mesta mesta, – ma è il destino degli uomini di non conoscermi che dopo avermi perduta; di conoscere quanto valgano i miei benefici solo quando non si possono più godere. Amico, sei stato ingrato come gli altri tuoi fratelli. Tu mi accusi, io ti compiango. Presto mi conoscerai, e tu chiederai a prezzo degli anni che Dio ancora ti concede, di rivedermi un giorno, un giorno solo, quale m’hai vista la prima volta.
Tu mi chiedi con amarezza: Ove sono i beni che mi hai promesso? Io le ho mantenute tutte le mie promesse, ma tu hai sdegnato i tesori che t’ho prodigato a piene mani. Per diadema ti posi in fronte la freschezza, lo splendore, la serenità d’un mattino di primavera.
Per corteggio l’ho dato l’amore e la fede, la speranza e l’illusione. Ho fatto la tua povertà tanto ridente e bella, che molti potenti, molti ricchi l’avrebbero voluta scambiare coi loro palazzi e colla loro opulenza.
Ho popolato la tua solitudine di sogni incantati. T’ho fatto amare la tua disperazione, e seppi farti inebbriare colle tue lagrime al punto che il tuo gran dolore sarebbe il non poterne più versare.
Quando camminavi, destavo attorno a te la simpatia, e la benevolenza; e tu non incontravi che sguardi amichevoli e mani fraterne; il cielo ti sorrideva; anche la terra fioriva sotto i tuoi piedi….
A tua volta rispondimi, cosa hai fatto della mia liberalità? Cosa hai serbato de’ miei doni? Che ti resta di tante gioie che ho seminato lungo il tuo sentiero? Se non hai saputo conservarle, è mia la colpa? Se non hai saputo godere di nulla, è forse me che si deve accusare?

A questo punto una luce tarda illuminò il mio essere…. lo sentii un velo cadere da’ miei occhi, e restai colpito di spavento leggendo chiaro nel mio proprio cuore.

– Resta, resta! non partire, – esclamai supplichevole. – Rendimi questi beni che non riconobbi…. i miei occhi si riaprono a nuova luce. Rendimi l’amore e le illusioni, la fede e la speranza. Per un giorno, per un giorno solo…. e chiunque tu sia, morirò benedicendoti.

– Ahime! – rispose, – son io che morrò. Nol vedi ?… Guardami…. Da lungo, da lungo tempo un male crudele mi consuma, un verme divoratore ha succhiato dal mio seno la sorgente della vita. Il sangue più non giunge al mio cuore: toccami le mani, e sentirai il madore gelato della morte. Pure se tu l’avessi voluto, avrei avuto da vivere a lungo ancora. Tu mi uccidi, crudele. Ho esaurito le mie forze, i miei piedi sanguinarono per seguirti. Invano implorai grazia; tu mi dicevi: cammina! e io camminavo. Camminavo ansante, le mie vesti andavano a brandelli impigliandosi agli orli ronchiosi della via.
La mia la mia fronte bruciava sotto il sole del meriggio…. Ferma! supplicavo…. Invano…. Nemmeno il tempo mi lasciavi di riannodarmi la cintura o di raccattare i fiori della mia corona già scolorita. Invano…. tu continuavi la tua corsa sfrenata trascinandomi senza pietà attraverso le aride sabbie… Mi hai tu mai risparmiato una fatica ? hai tu mai protetto il mio capo da una sola bufera ? Quante volte mi sedei accasciata, scoraggiata, decisa a non seguirti più…. Ma, ingrato!… ti volevo troppo bene; e, quando sorpreso di non sentirmi più vicina, tu ti volgevi per chiamarmi o con un gesto o colla voce, io mi levavo e correvo sulle tue traccie. Oggi la mia fine è giunta…. non posso più reggermi. Il mio sangue s’arresta, il mio sguardo si confonde, le mie gambe si piegano…. io muoio….

– No…. non devi morire…. – esclamai stendendo le braccia. – Ma, strana creatura…. parla, chi sei?

– Non sono più, – mi rispose, – fui…. la tua giovinezza.

A queste parole io volli afferrarla, ma era già sparita, e dove essa era non vidi che pochi fiori appassiti caduti da’suoi capelli… Non ne trovai uno che serbasse qualche profumo.


Jules Sandeau è uno scrittore e drammaturgo francese, nato ad Aubusson (Creuse) il 19 febbraio 1811 e morto a Parigi il 6 il 24 aprile 1883.

Tratto da Google Libri
L’Illustrazione popolare, Volume 21