Lo Jettatore

Tratto da Il Corricolo

Il Corricolo (in edizione originale francese Le Corricolo) è un’opera scritta da Alexandre Dumas (padre) 1835

Libero da diritti.

(ndr: Dumas non mise mai il nome dello jettatore ehm… del nobile principe perchè prese l’ispirazione da un personaggio che è veramente esistito e non volle essere colpito da eventuale sventura; e così faccio pure io, vi aggiungo un link dove potrete scoprire chi poteva essere costui e quant’altro; Badate! Non sono io a chiedervi di cliccare e declino ogni responsabilità per quello che vi possa capitare).

La jettatura è una malattia incurabile; si nasce jettatore, si muore jettatore. Ma con un po’ di pratica si può diventare jettatore; ma una volta che lo si è, non si può più cessare d’esserlo.
In generale, gli jettatori ignorano la loro influenza fatale: siccome non è un bel complimento dire a un uomo che è un jettatore, perchè ci sono persone che prenderebbero molto male la cosa, siamo contentissimi di evitarli come possiamo e, se non possiamo, evitare la loro influenza tenendo la mano nella posizione sopra menzionata.
Ogni volta che vedi a Napoli due uomini che parlano in strada, e uno di loro mantiene la sua mano piegata contro la schiena, guardate attentamente quello con cui parla; è un jettatore, o almeno un uomo che ha la sfortuna di passare per tale.
Quando uno sconosciuto arriva a Napoli, egli comincia ridendo della jettatura, poi, a poco a poco, si preoccupa. infine, dopo tre mesi di soggiorno, lo vedrai ricoperto di corna da capo a piedi e la mano destra eternamente tesa.
Dalla jettatura non c’è nessuna garanzia, se non coi mezzi che ho indicato. Non c’è rango, non c’è fortuna, non esiste una posizione sociale che ti metta al di sopra dei suoi colpi.
Tutti gli uomini sono uguali davanti a lei. D’altra parte, non c’è età, non c’è sesso, non c’è uno stato per lo jettatore: può anche essere un figlio o un vecchio uomo o una donna, avvocato o medico, giudice, prete, industriale o gentiluomo, lazzarone o grande signore; l’unica domanda è se uno o l’altro di queste età, uno o l’altro di questi sessi, una o l’altra di queste condizioni, aggiunge o rimuove gravità alla malevolenza.
Su Napoli c’è un lavoro estremamente elaborato del gentile signor Niccolo Valetta; discute in un volume tutte le questioni che dividono gli studiosi antichi e moderni su questo argomento per venticinque secoli.
Viene esaminato:
1. Se l’uomo che lancia il sortilegio, sia più terribile di quello di una donna;
2. Se uno che indossa la parrucca è da temere di più rispetto a chi non la indossa;
3. Se la persona che indossa occhiali non è da temere di più che uno che indossa una parrucca;
4. Se la persona che prende il tabacco non è più da temere ancora di colui che indossa gli occhiali, e se gli occhiali, la parrucca, la tabacchiera, combinandosi, triplano le forza della jettatura
5. Se la donna jettatrice è da temere di più se è incinta.
6. Se c’è più da temere da lei quando c’è certezza che non lo è più.
7. Se i monaci sono generalmente jettatori come gli altri uomini, e tra i monaci qual è l’ordine da temere di più su questo punto;
8. A che distanza può essere lanciato l’incantesimo;
9. Se si può gettare di fianco, davanti, o indietro
10. Se ci sono in realmente dei gesti, dei suoni di voce e particolari sguardi con i quali possono essere riconosciuti gli jettatori
11. Se ci sono preghiere che possono garantire da una jettatura e, in questo caso, se ci sono preghiere speciali per garantire la jettatura che viene dai monaci;
12. Infine, se la potenza dei talismani moderni è uguale al potere di un talismano antico, e se più efficace quello a un corno o quello a doppio corno.

Tutte questa ricerche sono scritte in un volume e che è del più alto interesse e che vorrei far conoscere ai miei lettori. Purtroppo, il mio libraio si rifiuta di stamparlo nelle mie note di supporto, con il pretesto che è un libro di 600 pagine.
Invito tutti i viaggiatori a procurarselo arrivando a Napoli, con la modica somma di x pugs. Ora che abbiamo esaminato la jettatura nei suoi effetti e le sue cause, raccontiamo la storia di un jettatore.
Il principe di *** , gli occhiali, la parrucca, e la tabacchiera esclusi, nacque con tutte le caratteristiche della jettatura.
Le sue labbra erano sottili, gli occhi grossi e fissi, e il naso come un becco di corvo; sua madre, di cui era il suo secondo figlio non ebbe nemmeno la felicità di vedere il nuovo nato: morì nel parto.
Abbiamo cercato una nutrice per il bambino, e abbiamo trovato una bella e vigorosa paesana del quartiere di Nettuno.
Ma appena l’infelice bambino le toccò il seno, perse il latte. Giocoforza fu nutrire il principino con il latte di capra, che ha dato a lui per tutto il resto della sua vita un’andatura saltellante, per cui grazie al cielo, è riconosciuto a trecento passi di distanza, mentre con i suoi grandi occhi può bruciare solo toccando. Lodiamo il Signore, ciò che ha fatto è ben fatto.
Sentendo la morte della moglie e la nascita di un secondo figlio, il principe della *** che era ambasciatore in Toscana, accorse a Napoli, scese al palazzo, pianse la principessa, abbracciò paternamente l’infante e si presentò alla corte del re. Il re gli girò la schiena; il principe aveva lasciato la sua ambasciata senza autorizzazione; aveva fatto prevalere l’amore paterno, e l’amore paterno gli costò il posto.Questa catastrofe ha un po’ raffreddato l’animo del principe di *** per suo figlio. Inoltre come abbiamo già detto, ha avuto un figlio maggiore, al quale, titolo, onori e ricchezze appartengono di diritto.
E’ stato quindi deciso che il cadetto entrasse in un ordine. Il principino era troppo giovane per avere qualche opinione del suo posto in avvenire, lasciò fare.Il giorno in cui entrò in seminario tutti i bambini della classe in cui egli fu messo presero la pertosse.
Si noti che in mezzo a tutto questo alcun accidente personale raggiunse il principino, è cresciuto in un colpo d’occhio è prosperò che era un fascino. Fece le sue classi con grande successo, vincendo tutti i suoi compagni.
Solo una volta, non sappiamo come, questo successe, ha vinto solo il secondo premio; ma lo studente che aveva vinto il primo, ricevendo la sua corona, si ruppe una gamba sul primo gradino della piattaforma.Tuttavia, il bambino divenne un giovane, ritiratosi che fu dal seminario, i suoni del mondo arrivarono a lui. Inoltre, nelle sue passeggiate con i suoi compagni, egli vide delle belle donne che passavano in auto eleganti, e dei bellissimi giovani sulle cavalcature eleganti; poi, alla fine della strada di Toledo notò un edificio chiamato Saint-Charles, (Teatro San Carlo)e dell’interno del quale gli fu detto tante meraviglie, che i giardini e i palazzi di Aladino non erano niente in confronto.
Di conseguenza il principino aveva un gran desiderio di conoscere le belle signore, di montare a cavallo come i bei giovani, e soprattutto di entrare a Saint-Charles per vedere che cosa succedesse per davvero.
Purtroppo la cosa era impossibile; il principe di ***, che aveva sempre la disgrazia sul suo cuore, vedeva con risentimento il suo figlio minore, d’altra parte, il principe Hercule, che lo si stava far viaggiare affinché non avesse nessun contatto con suo fratello, diventava giorno dopo giorno un po’ più perfetto cavaliere, e prometteva di sostenere a meraviglia l’onore del nome. Ragione di più per il povero principino di restare confinato nel suo seminario.
Tuttavia gli affari erano disturbati tra il reame delle Due -Sicilie e la Francia; si parlava di una crociata contro i repubblicani; Re Ferdinando, come abbiamo detto altrove, voleva dare un esempio.
Si alleò con truppe da tute le parti e assemblò un esercito, annunciò con grande solennità che l’Arcivescovo di Napoli avrebbe benedetto le bandiere nella Cattedrale di Saint-Charles.
Dato che questo era un fatto molto curioso, e che sì grande che fosse la chiesa, non c’era la possibilità che tutta Napoli essa potesse contenere.
Si decise che solo dei deputati dei diversi ordini dello Stato avrebbero partecipato alle cerimonie. Inoltre i collegi, le scuole e i seminari avevano il diritto di inviare gli scolari di ogni classe che sarebbero stati i primi nella composizione più vicina al giorno in cui doveva avvenire la cerimonia. Il principino era il primo nella sua triplice composizione del tema, della versione e della teologia; il principino, che faceva del resto dei progressi miracolosi, era in questo periodo in retorica, e poteva avere dai 16 a 17 anni. Il grande giorno arrivò.
La cerimonia era piena di solennità; tutti passavano con calma e perfetta grandiosità; solo nel momento in cui gli stendardi, dopo la benedizione, sfilano per uscire dalla chiesa, uno dei portabandiera cadde morto con una stupefacente apoplessia passando davanti al principino. Il principino che aveva un buon cuore, si precipitò immediatamente su questo uomo infelice per salvarlo, ma egli aveva già reso l’ultimo sospiro.
Visto ciò, il Principino preso lo stendardo, e lo agitò con un’aria marziale che indicava quale uomo sarebbe stato un giorno e lo consegnò a un ufficiale, gridando: Viva il re! grido che fu ripetuto con entusiasmo da parte dell’intera assemblea.
Tre mesi dopo, l’esercito napoletano fu battuto, lo stendardo cadde in potere dei francesi insieme a una dozzina d’altri e il re Ferdinando s’imbarcò per la Sicilia.
Il principino aveva finito le sue lezioni, e doveva decidersi nella scelta di un convento.
Il giovane scelse i Camaldolesi. Di conseguenza, lasciò il seminario dove aveva trascorso la sua adolescenza, ed entrò come novizio nel monastero dove doveva passare la sua virilità e dove la sua vecchiaia si sarebbe estinta. Il giorno dopo della sua entrata nei Camaldolesi apparve l’ordinanza del nuovo governo che aboliva le comunità religiose.
Il giovane uomo fu costretto a seguire la carriera di prelatura, visto che, nei conventi soppressi, ci restavano solo i cadetti, e (lui)non era più ricco per esso. Per tre mesi egli camminò per le strade di Napoli con un cappello a tre corni, un cappotto nero e delle calze viola, poi egli si decise di prendere gli ordini minori.
La mattina del giorno fissato per la cerimonia, la repubblica partenopea, appena stabilita, decise che non c’era nessuna uguaglianza davanti alla legge fino a quando non ci fosse uguaglianza tra le eredità e che pertanto il diritto di primogenitura fu abolito.
Questo nuovo decreto tolse centomila franchi al principe Hercule, fratello maggiore del nostro eroe, che era possessore di un capitale di due milioni.
Poiché il principino non aveva una grande vocazione per la chiesa, egli fece (fare)delle calze rosse come aveva fatto (fare) un abito bianco, mandò il tricorno a raggiungere il cappuccio, fece venire il miglior sarto di Napoli, comprò il più bel carro e più bei cavalli che poteva trovare, e prenotò per la sera un posto a Saint-Charles. Saint-Charles appagava veramente il desiderio che il principino aveva sempre intrattenuto: era uno dei monumenti di cui Carlo VII, durante la sua reggenza temporanea, aveva dotato Napoli.
Un giorno (il re)aveva fatto venire l’architetto Angelo Carasale, e mise tutti suoi tesori a sua disposizione, e gli disse di non risparmiare nelle spese, ma di fargli la più bella sala che esisteva al mondo. L’architetto si impegnò (gli architetti s’impegnano sempre); quindi, sfruttando la licenza concessa, scelse un posto vicino al palazzo, abbatté numerose case, e spianò un immenso terreno sul quale si elevò con meravigliosa rapidità la fiabesca costruzione.
In effetti, il teatro, cominciato nel mese di Marzo 1737, fu pronto il 1 Novembre e aprì il 4 dello stesso mese. Il giorno di Saint-Charles.
Se non avessimo rinunciato alle descrizioni, perché eravamo convinti che nessuna descrizione lo descrivesse, cercheremmo di annotare il numero di specchi, contare il numero di candele, enumerare gli alberi fioriti, durante questa grande serata, il teatro Saint-Charles, la ottava meraviglia al mondo.
Una grande loggia era stata preparata per il re e la famiglia reale, e nel momento in cui i nobili spettatori furono entrati, l’impressione fu così grande che essi dettero in un segnale di applaudimento, immediatamente la sala tutta intiera scoppiò in bravos e in grida di ammirazione.
Non era tutto. Il re fece venire l’architetto nella sua loggia, e, gli posò la mano sulla spalla alla vista di tutti, si felicitò per il suo successo ammirevole.
– Una sola cosa manca nella vostra sala, disse il re.
– Quale? chiese l’architetto.
– Un passaggio che porta dal palazzo al teatro.
L’architetto abbassò la testa come in segno di assenso.
Quando lo spettacolo finì, il re lasciò la sua loggia e trovò Carasale che l’aspettava.
– Cosa avete fatto durante tutta questa rappresentazione? chiese il re.
– Ho eseguito gli ordini di Vostra Maestà, rispose Carasale.
– Quali?
– Che Vostra Maestà si degni di seguirmi, e vedrà.
– Lo seguiamo, disse il re, rivolgendosi alla famiglia Reale, qualunque cosa abbia fatto, nulla mi stupirà, siamo nella giornata dei miracoli.
Il re seguì dunque l’architetto; ma, quello ch’egli avrebbe potuto dire, se il suo stupore non fosse stato così grande, quando vide aprirsi davanti la porta di una galleria interna tutta tappezzata di seta e specchi, questa galleria, aveva due ponti gettati a una altezza di 30 metri e una scala di cinquantacinque gradini, erano stati improvvisati durante le tre ore, quanto era durata la rappresentazione.
Questo e ciò che era Saint-Charles dopo sessanta anni, per sessanta anni Saint-Charles produceva invidia e ammirazione di tutto il mondo.
Non è stato perciò sorprendente che il principino fosse così ansioso di vedere Saint-Charles.
Ecco dunque, la sera stessa quando il principino vide Saint-Charles, e come ultimo spettatore stava attraversando la soglia della sala, il fuoco prese il teatro, il giorno successivo Saint-Charles non era altro che un mucchio di ceneri.
Già da molto tempo circolavano voci allarmanti sul principino; ma a partire da quel giorno le voci presero una consistenza reale.
Ci si ricordava con paura i controversi risultati che egli aveva ottenuti, e si cominciò a sfuggirgli come se avesse la peste. Tuttavia queste voci trovarono degli increduli a Napoli, come altrove, ci sono forti menti che si vantano di non credere a niente.
Inoltre, la presenza dei Francesi aveva posto lo scetticismo nella moda e madame la contesse de M***, che era molto affezionata ai francesi, dichiarò ad alta voce che non credeva una parola di quello che si diceva sul povero principino, e come prova della sua incredulità ella avrebbe dato una grande serata espressamente per ricevere e per provare, con l’impunità, che tutte le voci che si erano diffuse su di lui erano ridicole e errate. La notizia della sfida alla jettatura della contessa di M*** si diffuse a Napoli; la prima parola di tutti gli invitati fu che certamente non sarebbero andati a questa serata, ma il grande giorno è venuto, la curiosità ha prevalso sulla paura, e, alle nove di sera, i saloni della contessa erano affollati. Fortunatamente, tutta questa folla straboccava nei magnifici giardini illuminati con dei vetri colorati, nei boschetti erano disposti dei gruppi di strumentisti e di cantanti.
Alle dieci della sera arrivò il principe di ***, era in quel tempo un affascinante cavaliere, che portava da molto tempo degli occhiali, questo è vero; che aveva appena preso la tabacchiera, anche piuttosto di genere che mai, ciò è ancora vero, ma con una magnifica capigliatura ondulante e riccia che doveva ancora per lungo tempo dispensare a ricoprirsi di una parrucca. Era un di un carattere affascinante, appariva sempre gioioso, si strofinava le mani incessantemente, e non mancava di spirito, insomma, era un uomo di successo, non era certo maledetto da jettatura.
La sua entrata presso la contessa di M *** fu segnata da un piccolo incidente; ma è giusto dire che questo incidente potrebbe essere stato dovuto sia a goffaggine che a una fatalità: un valletto, che portava un vassoio di bicchieri, cadde giusto nel momento in cui il principe aprì la porta.
Tuttavia, la coincidenza della sua apparizione con l’avvenimento fece che qualcuno lo notasse, pur piccolo che fosse. Il principe si mise alla ricerca della padrona di casa.
Ella camminava nei suoi giardini, così quasi come tutti gli ospiti.
Era uno di quelle magnifiche serate del mese di giugno dove il caldo, a Napoli, è temperato da questa doppia brezza del mare che non si conosce che là. Il cielo era sgargiante di stelle, e la luna, che sorgeva sopra il Vesuvio fumante, sembrava un enorme palla rossa lanciata da un mortaio gigantesco. Il principe, dopo aver vagato dieci minuti nella folla, aver respirato quell’aria, aver goduto di quei profumi, aver ammirato quel cielo, incontrò infine la padrona di casa, alla ricerca della quale egli si era lanciato, come avevamo detto.
Non appena vide il principe, Madame la contessa di M*** si avvicinò a lui: i soliti complimenti furono scambiati, poi per dimostrare il disprezzo che aveva per le diffuse voci, la contessa lasciò il braccio del suo cavaliere e prese quello del principe.
Sensibile a questo segno di distinzione, il principe volle riconoscerla elogiando la festa.
– Ah Madame, disse, quale festa affascinante date, e come ne parleremo per molto tempo!
– Oh! principe, rispose madame di M***, lei esagera il valore di un piccolo incontro di nessuna conseguenza.
– No, d’onore, disse il principe, E’ vero che tutto è da concordare e che Dio vi ha dato i tempi più belli.
Il principe non aveva finito questa frase che un colpo di tuono maestoso si fece udire, e che una nuvola che nessuno aveva visto, scoppiò improvvisamente, si diffuse in una spaventosa pioggia.
Tutti scapparono per conto proprio, come poterono, alcuni cercarono rifugio temporaneo nelle grotte o nei chioschi, gli altri fuggivano verso il palazzo, la contessa M*** e il principe furono nel numero di questi ultimi. Però, si noti che nel mese di giugno, Napoli è una specie di Egitto vicino all’acqua, e che ci sono tre mesi nell’anno, giugno, luglio e agosto, durante i quali la siccità, anche se fosse pure libica, non si avrebbe l’intenzione farla cessare portando fuori dal santuario di San Gennaro il tabernacolo, per non compromettere la potenza del santo.
Il principe non aveva detto che una sola parola, e un altro diluvio nello stesso istante aperto le cataratte del cielo. Il salone principale, una vasta rotonda intorno alla quale giravano tutti gli altri appartamenti, era illuminato da un magnifico lampadario di cristallo che la contessa di M*** aveva ricevuto dall’Inghilterra tre mesi prima, e che ella aveva fatto accendere per la prima volta.
Questo lampadario era di un effetto magico, tanta luce, riflessa da mille sfaccettature dei vetri si moltiplicavano, brillando con tutti le luci dell’arcobaleno.
Così, nel momento in cui il principe e la contessa arrivarono alla soglia della porta, il principe si fermò abbagliato.
– Ebbene! Cosa avete dunque, principe? chiese la contessa di M***.
– Ah madame, gridò il principe, che voi avete un magnifico lampadario! Il principe aveva appena lasciato scappare queste significative parole, che uno degli anelli dorati che sosteneva quest’altro sole sul soffitto si ruppe, e che il lampadario, cadendo sul pavimento, si ruppe in mille pezzi.
Fortunatamente, era giusto il momento dove ognuno prendeva posto per la contredanse; il centro del salone era dunque vuoto, e nessuno era ferito.
Madame di M*** cominciò a pentirsi ella stessa di aver tentato così Dio invitando il principe; ma l’idea che si era rivelata innanzi i primi tre incidenti, che potevano, nel complesso, essere l’effetto del caso; la paura dei sarcasmi dei suoi amici se ella sembrasse cedere a questi timori, la difficoltà di liberarsi del principe, a cui diede il braccio e che si mescolava al rimpianto sulle catastrofi incredibili quanto erano inaspettate, avevano rattristato la festa, tutte queste considerazioni si conbinavano, e determinarono di far “buon viso a cattivo sorte” e di seguire il cammino in cui si era impegnata.
La contessa dunque non fu quindi che più che amabile con il principe e, a eccezione del vassoio ribaltato, tranne la tempesta che era avvenuta, tranne il lampadario rotto, tutto continuava ad andare meravigliosamente.
La serata era inframmezzata da canti; era il momento dove Paisiello e Cimarosa, due antenati di Rossini, si condividevano le adorazioni del mondo musicale.
Si cantava a turno dei pezzi di uno e dell’altro. Uno dei migliori interpreti di questi due grandi geni era la signorina Erminia, prima donna dello sfortunato teatro di Saint-Charles, che ancora fumava.
Era un soprano di grande estensione, di una sicurezza voce e di metodo che non si ricordava, per memoria e da dilettante, di aver mai sentito qualcosa di simile.Infatti, per tre anni la signorina Erminia era a Napoli, mai il minimo raucedimento, mai il minimo dubbio, giammai, infine, per noi usare dei termini consacrati, mai il minimo gatto in gola.
Ella aveva promesso di cantare la famosa melodia: Pria che spunti, ed era arrivato il momento di mantenere la sua promessa.
Così, la contredanse finì, ognuno si mise in piedi al suo posto per lasciare il salone libero alla signora Erminia. L’accompagnatore si pose al pianoforte, la signora si alzò per unirsi a lui; ma siccome egli doveva attraversare da solo tutto questo immenso salotto, il principe che aveva apprezzato il suo valore l’unica volta che era stato a Saint-Charles disse una parola di scusa alla contessa di M***, e, portandosi al lato della celebre cantante, le offrì il braccio per portarla al suo posto.
Tutti applaudirono a questo di galanteria tanto più rimarchevole che veniva da parte di un giovane che, il giorno prima, era al seminario.
Il principe tornò poi a chiedere il braccio della Contessa di M***, in mezzo a un mormorio generale di approvazione.
Ma ben presto le parole Chuts! Silenzio! Ascoltiamo! si fecero sentire. L’accompagnatore gettò alla folla impaziente il suo brillante preludio.
La cantante tossì, tentò di arrossire; poi aprendo la bocca, sentì il suo primo suono. Aveva preso un mezzo tono troppo alto e alla metà del quarto tempo, ella fece un orribile contrattempo.
Come questo era cosa miracolosa, qualcosa di inaudito, cosa pressoché impossibile a credere, tutti si affrettarono a rassicurare la cantante con applausi; ma il colpo fu portato: la signora Erminia, sentendosi dominata da una forza superiore al suo talento, capì che era la jettatura che agiva; uscì dal salotto, gettando un terribile sguardo sul povero principe, a cui ha attribuito la débacle che le era venuta.
Questa serie di eventi ha cominciato a portare madame di M*** a pensare che peggio di così non si può peggiorare; tutti gli occhi erano fissati su di lei e sul principe sfortunato, la cui prima apparizione nel mondo era segnata da strane catastrofi.
Ma visto, da parte sua, a parte le parole di cordoglio, che egli riteneva obbligato a fare a madame di M***, il principe non apparve consapevole che era la causa presunta di tutti questi effetti, e che. fiero dell’onore di avere al suo braccio il braccio della padrona di casa, egli non sembrava disposto ad allontanarsi per tutta la serata, madame di M***, trovò un metodo educato per ritrovarsi in possesso di se stessa, fingendo di essere stanca, e pregò il principe a condurla in un piccolo salone elegante che si affacciava sula salotto e che era tutto ammobiliato, con l’obiettivo proprio di offrire un luogo di riposo ai ballerini e alle ballerine affaticate. Questa oasi incantevole era tanto più piacevole, che la sua porta a due battenti si apriva sul salone, e chi, cessando di far parte del ballo come protagonista continuava ritirandosi in questo piccolo boudoir, di rimanere come spettatore.
Fu dunque là che il principe di *** condusse la contessa, e dato che era un cavaliere pieno di attenzioni, andò a prendere una poltrona da contro il muro, la trascinò in faccia alla porta, affinché, mentre si riposava, madame de M*** poteva perfettamente vedere, avvicinò una sedia d’Auteuil, al fine di non essere obbligata a lasciarla e, salutandola fece un cenno di sedersi.
Madame di M*** si accinse a sedersi, ma mentre si sedeva due piedi dietro la poltrona si ruppero allo stesso tempo in maniera che la povera contessa fece una caduta delle più sgradevoli.
Così quando il principe correndo verso di lei, le offrì la mano per aiutarla ad alzarsi ella respinse la mano con vivacità che aveva cessato di temperare ogni cortesia, e arrossendo e confusa, si salvò nella sua camera da letto, dove si chiuse, e da dove, nonostante le suppliche che lui fece alla porta, lei non sarebbe uscita di nuovo!
Vedovo della padrona di casa, il ballo non poteva più continuare.
Così ciascuno si ritirò, maledicendo l’ospite sfortunato che aveva cambiato tutta quella deliziosa celebrazione in una serie di incidenti ininterrotti.
Solo il principe non percepì le cause di questa precoce diserzione, rimase l’ultimo, e si ostinava ancora nel tentativo di far riapparire madame di M***, quando i servi gli fecero osservare che non c’era nient’altro che la sua presenza che impediva di spegnere i candelabri e che si potesse chiudere le porte.
Il principe, che alla fine era un uomo di buon gusto, comprese che un soggiorno più lungo sarebbe stato improprio, si ritirò a casa sua, felice del suo debutto nel mondo, senza dubitare che la sua cortesia non aveva prodotto nel cuore della contessa l’effetto più disastroso per la sua tranquillità in avvenire.
Si comprende che i risultati di questa famosa serata produsse un’immensa sensazione; ci si attendeva di dare un parere preciso al principe di ***.
Da quel momento l’opinione fu dunque fissata.
Nel frattempo, il principe Hercule, di cui abbiamo gia detto alcune parole, ritorna dai suoi; aveva attraversato la Francia, l’Inghilterra e la Germania e aveva avuto dappertutto i più grandi successi.
Era una cosa giusta, poiché pochi uomini li avevano meritati così giustamente. Era un ottimo cavaliere, un ballerino meraviglioso, e soprattutto un tiratore di primo ordine con la spada e con la pistola, superiorità che era stata constatata da una dozzina di duelli nei quali egli aveva sempre ucciso o ferito i suoi avversari, senza aver mai preso un solo graffio.
Il principe Hercule, dunque, era in confidenza con questo genere di cose, che naturalmente era ancora aumentato dalla paura che egli ispirava.L’incontro tra i due fratelli fu un po’ freddo; non si erano mai visti, e il principe Hercule, pur perdonando al giovane fratello, per l’afflizione che aveva inflitto (in parte) alla sua fortuna, non aveva abbastanza filosofia per dimenticare completamente.
Tuttavia, il principe maggiore era così fedele, il principe cadetto era così un buon figlio, che dopo pochi giorni i due fratelli erano diventati inseparabili.
Ma il principe Hercule non aveva passato che qualche giorno in una città che non si intratteneva altro che del fatale influsso legato al suo fratello minore, senza beccarsi qua e là qualche pezzo di conversazione che aveva risvegliato la sua suscettibilità.
Il risultato fu che il principe aprì le orecchie a tutto ciò che si diceva all’indirizzo di suo fratello, e prendendo nella Villa Reale un giovane uomo in flagrante delitto di narrazione, cominciando con le sue esplicazioni con lui per gettargli gettando in faccia una di quelle smentite, che non ammettono altre riparazioni di quelle che si fanno con le armi in mano. Giorno e ora furono presi per l’indomani; i testimoni dovevano regolare le condizioni di combattimento.
Una provocazione così pubblica fece un gran rumore nella città. Se fosse stato al tempo del re Ferdinando questa notizia sarebbe stata un piacere, perchè avrebbe senza dubbio le orecchie della polizia, che avrebbe preso misure in modo che il duello non avrebbe avuto luogo; ma il regime era notevolmente cambiato: la Repubblica Partenopea era stata decretata da Gaeta a Reggio, e lei avrebbe considerato come un attacco alla libertà individuale impedire ai cittadini che vivevano sotto la sua materna protezione di fare ciò che sembrava a loro di buono. Quindi la polizia lasciò andare le cose a seguire il loro corso naturalmente.
Ora, è stato nel corso di queste cose che il nostro eroe apprese che suo fratello doveva combattere il giorno dopo, pur continuando a ignorare la causa per cui stava combattendo.
Egli si precipitò immediatamente presso suo fratello maggiore per informarsi di ciò che era di vero nelle notizie che l’avevano appena raggiunto; il principe Hercule gli confessò allora che egli doveva battersi in effetti l’indomani , ma aggiunse che l’atteso duello aveva luogo a proposito di una donna, non poteva dire a nessuno del perchè di questo futuro duello, tanto meno colui che era suo fratello.Il giovane principe capì perfettamente questo eccesso di delicatezza ma chiese a suo fratello si permettergli di essere il suo testimone.
Quest’ultimo rifiutò in un primo momento, ma il principino insistette talmente che il principe Hercule infine acconsentì e glielo mandò a dire, a una condizione tuttavia: che non avrebbe chiesto il motivo sulla causa della querelle, né consentiva ad alcuna intesa.
Per quanto riguarda la scelta delle armi, il principe Hercule la lasciò completamente alla scelta del suo avversario, la pistola gli era ugualmente familiare come la spada, e viceversa.
Due ore dopo questo colloquio, i testimoni si erano fermati, senza ulteriore spiegazioni, che i due avversari si sarebbero incontrati il giorno successivo alle sei del mattino, al lago di Agnano e che l’arma scelta per il combattimento era la spada.
Il principe Hercule si addormentò con tanta tranquillità, e che era necessario l’indomani, alle cinque, il fratello dovesse svegliarlo. Tutti e due partirono con il loro calesse, portando il loro medico, che doveva dare un aiuto indifferente a colui dei due avversari che sarebbero stati feriti.
All’ingresso della grotta di Pozzuoli essi raggiunsero coloro i quali avevano a che fare e che venivano a cavallo. I quattro giovani si salutarono, poi si infilarono dentro la grotta.
Dieci minuti dopo eravamo sulle rive del lago Agnano.
Gli avversari e i testimoni smontarono; ciascuno aveva portato delle spade, Tirarono a sorte al fine si sapere quali usare. La sorte decise che si sarebbero serviti di quelle del principe Hercule.
I due giovani misero il ferro nelle loro mani: La sproporzione era inaudita. l’avversario del principe Hercule aveva toccato un fioretto appena tre volte nella sua vita; mentre il principe Hercule, che aveva fatto della scherma la sua distrazione preferita, maneggiava la sua spada con una grazia e una precisione che non permetteva di dubitare un solo attimo che tutte le chances non fossero a suo favore.
Ma, al primo tocco e contro tutte le probabilità il principe Hercule fu infilato e cadde senza nemmeno pronunciare un grido. Il dottore accorse: le principe era morto; la spada del suo avversario gli aveva attraversato il cuore.
Il giovane principe voleva continuare il combattimento; egli strappò la spada dalle mani del suo fratello e chiamò il suo assassino per incrociare il ferro a sua volta con lui; ma il medico e il secondo testimone si lanciarono contro di lui, dichiarando che essi non avrebbero permesso una tale violazione della legge del duello, così che il principino fosse costretto a cedere alle loro ragioni, non importa quanto volesse vendicare suo fratello.
E’ stato portato a casa sua disperato, anche se questo fatale evento raddoppiò la sua fortuna. Il vecchio principe, che viveva da molto tempo come pensionato nel suo castello del Capitanate, sentita la morte del suo figlio maggiore il giorno dopo spirò.
Siccome l’aveva sempre amato molto, e che questa notizia gli era stata annunciata senza precauzione alcuna, lo colpì con un colpo assai doloroso quanto inaspettato. Lo stesso giorno si mise a letto; l’indomani era morto. Il principino era dunque a capo della famiglia, e padrone a ventuno anni di una fortuna di otto milioni.

Le combat

Il dolore del principe era grande; così decise di viaggiare per distrarsi.
C’era proprio nel porto una fregata francese che stava preparando a navigare per Tolone; il principe chiese una raccomandazione per il capitano e ottenne il passaggio.
Alcuni amici del capitano gli avevano ben detto, quando avevano appreso che il principe di *** sarebbe stato imbarcato a bordo, chi fosse il compagno di viaggio che la sua cattiva fortuna gli aveva mandato; ma il capitano era uno di quei vecchi lupi di mare che non credono né a Dio né al diavolo, e lui n’aveva fatto che ridere alle suscettibilità dei suoi amici.
Tutte le probabilità erano per una felice attraversata: il tempo era splendido, la flotta britannica sotto gli ordini di Foote, incrociava nei pressi di Corfù; Nelson viveva felicemente a Palermo vicino alla splendida Emma Lyonna; il capitano partì, orgoglioso come un conquistatore che corre alla ricerca di un mondo.
Tutto andò bene per due giorni e due notti, quando al risveglio, al terzo giorno, all’altezza di Livorno, il capitano sentì il marinaio sul belvedere gridare: vela a dritta! Il capitano salì subito sul ponte con il suo telescopio e puntò lo strumento sull’oggetto designato.
Ad un primo sguardo riconobbe una fregata di dieci cannoni più forti della sua,e, per certi dettagli della sua costruzione, egli credeva di essere certo che fosse inglese.
Ma dieci cannoni di più o di meno erano una miseria per uno vecchio squalo come il capitano; ordinò all’equipaggio di tenerli pronti casomai servisse, e continuò a esaminare la nave.
Evidentemente egli manovrava per avvicinarsi alla fregata; il capitano, che era molto appassionato di quello che i marinai chiamano il gioco delle bocce, risoluto a risparmiare metà del cammino, si diresse direttamente sulla nave del nemico.
Il capitano si voltò, puntò il telescopio all’altro orizzonte, vide una seconda nave che, lasciò maestosamente il porto di Livorno avanzando al suo fianco con l’evidente intenzione di fare la sua parte. Il capitano la esaminò con particolare attenzione e riconobbe una nave di linea della prima forza.
– Oh! oh! mormorò, tre file di ponti a destra e due a sinistra, che fanno cinque.
Noi abbiamo a che fare con delle mascelle troppo forti; e subito, chiedendo il suo megafono, diede l’ordine di dirigersi su Bastia e coprire la fregata di tante vele che essa poteva portare.
Immediatamente si vide dispiegarsi così tanti stendardi le leggere cuffie, e il bastimento, cedendo al nuovo impulso che gli era stato dato da questo aumento della tela, s’inclinò delicatamente e fendeva il mare con un nuovo vigore.Il principe di *** era sul ponte, e aveva seguito tutti questi movimenti con estremo interesse e curiosità.
Egli era coraggioso e non temeva combattere, ma vedendo le due navi, ma, comunque, vedendo i due bastimenti a cui il capitano aveva a che fare, comprese che c’era altra salvezza per la fregata, che di prendere velocità e “de tailler le plus longues croupières” che poteva ai suoi nemici. (Significato : espressione francese che significa: causare danni a qualcuno, per ostacolare i suoi piani).
Fortunatamente, il vento era buono, Anche la fregata che aveva solo una linea retta da seguire, mentre le altre due navi seguivano la diagonale, guadagnava visibilmente sugli Inglesi.
Il capitano, che fino a ora aveva tenuto il porta-voce in mano cominciava a lasciarlo appeso negligentemente al suo piccolo dito e a fischiare la Marsigliese, che significava chiaramente: Enfocés, (Fare penetrare profondamente dentro, qualche cosa), messieurs gli Inglesi!
Il principe capì perfettamente questa linguaggio, e avvicinandosi al capitano, sfregandosi le mani con il solito sorriso:
– Bene! capitano. disse, noi abbiamo quindi gambe migliori di loro?
– Sì, sì disse il capitano; e se questo vento dura, noi presto li lasciamo a una distanza così lontana che non li sentiremo nemmeno più abbaiare.
– Oh! durerà, disse il principe, e fissando con i suoi grandi occhi verso il punto dell’orizzonte da cui veniva la brezza.
– Ohé! capitano, gridò il marinaio di vedetta.
– Allora? – Il vento soffia da est a nord.
– Mille tuoni! gridò il capitano, siamo bruciati! In effetti un soffio di mistral, passando immediatamente attraverso le strutture della nave, confermò quello che il marinaio aveva appena detto.
Tuttavia, questo poteva essere solo che un salto improvviso del vento.
Il capitano, quindi, aspettava qualche altro minuto prima di prendere una decisione; ma dopo un attimo, non c’era più alcun dubbio, il vento era fissato a nord.
Questo nuovo impulso fu testato al contempo dai tre bastimenti, il vascello a tre ponti approfittò per prendere il comando e tagliare la strada alla fregata francese.
Per quanto riguarda la fregata inglese, essa si mise a correre lungo una rotta al fine di non allontanarsi, non era in grado di avvicinarsi direttamente.
Il capitano era un uomo di testa; egli subito prese una risoluzione decisa e audace, era di avanzare dritto sulla più debole delle navi, per attaccarlo corpo a corpo, e portarlo alla collisione prima della nave di prima linea potesse venire al suo soccorso. Di conseguenza, fu ordinata la manovra necessaria, e il tamburo rullò per avvertire di prendere i posti di battaglia.
Eravamo così vicino alla fregata inglese, che sentimmo il loro tamburo rispondere alla nostra sfida.
Da parte sua, il vascello di prima linea, compresa la nostra intenzione, mise tutte le vele fuori e governava dritto su di noi. I tre bastimenti sembravano quindi disposti su una sola linea e seguire lo stesso cammino. Solo, erano distanziati a diversi intervalli. In tal modo, la fregata francese, che era al centro, era solo un quarto di lega appena dalla fregata inglese, e a più di due leghe dal vascello di prima linea.
Ben presto queste distanza diminuivano ancora, perché la fregata inglese, visto l’intenzione del suo nemico, conservava solo le vele strettamente necessarie alla manovra e attendeva l’urto di cui era minacciata. Il capitano francese, vedendo che il momento dell’azione si avvicinava, invitò il principe a scendere al fondo della stiva, o almeno di ritirarsi nella sua cabina.
Ma il principe, che non aveva mai visto un combattimento navale e che desiderava usufruire dell’occasione, chiese di rimanere sul ponte, promettendo di restare appoggiato all’albero di trinchetto e di non interferire in alcun modo con le manovre. Il capitano, che amava i coraggiosi di qualunque paese fossero, acconsentì alla sua richiesta.
Si continuava ad avanzare, ma, appena avuta la distanza di un centinaio di passi, che una piccola nuvola bianca apparve a babordo della fregata inglese; Poi si vide rimbalzare una palla a pochi metri dalla fregata francese, poi si sentì il colpo, infine si vide il vapore leggero prodotto dall’esplosione aumentare e indebolirsi e scomparire attraverso l’albero spinto come era dal vento che proveniva dalla Francia.La partita era stata ingaggiata dall’orgogliosa figlia della Gran Bretagna, che, provocata prima dal suono del tamburo, aveva voluto rispondere per prima con il suono del cannone.
Le due navi cominciarono ad avvicinarsi l’una all’altra; ma sebbene i cannonieri francesi fossero ai loro posti, sebbene le micce erano accese, sebbene i cannoni, accovacciati sui loro pesanti affusti, sembravano domandare a dire una parola a loro volta in favore della repubblica, tutto rimase in silenzio a bordo, e non si sentiva altro che l’aria della Marsigliese, che il capitano continuava a fischiare. Era vero che, era quasi l’unica aria che egli sapeva, e l’applicava a tutte le circostanze; solamente secondo la tonalità con cui fischiava, l’aria cambiava di significato, e si poteva riconoscere dall’intonazione se il capitano era di buon o di cattivo umore, contento o dispiaciuto, triste o gioioso.
Questa volta, l’aria aveva preso un’espressione di minaccia stridula attraverso i suoi denti che non prometteva niente di buono per gli inglesi. In effetti, niente era più d’aspetto terribile che un bastimento, muto e silenzioso, che avanzava in linea retta e di una ala così solida come quella dell’aquila, sul suo nemico, che, di cinque minuti in cinque minuti, virava e revirava di bordo, lui gli mandò una sua doppia bordata senza che tutto questo uragano di ferro che passava attraverso le vele, le attrezzi di manovra, e gli alberi della fregata francese, sembrò fare un male sensibile e fermarlo per una attimo nel suo corso.
Alfine, le due navi erano quasi a lato; la fregata aveva appena scaricato la sua bordata; venne dato l’ordine di virare per presentare quello dei suoi fianchi, ancora armato; ma, al momento in sui si offrì alla nostra artiglieria, la parola Fuoco! risuonò; venti-quattro pezzi tuonarono subito, un terzo dell’equipaggio inglese fu spazzato via, due alberi crollarono e s’abbatterono, e il bastimento, tremando dai suoi alberi alla chiglia, si fermò in breve nella sua manovra, tremando sul posto e costretto ad aspettare il suo nemico.
Poi la fregata francese si girò di bordo a sua volta con una perfetta leggerezza e grazia, e venne con impegnare il bompresso nelle cime dell’albero di mezzana; ma, mentre passò davanti al suo nemico, essa lo salutò alla fine portando la sua seconda bordata che, colpendo in pieno nei legni, spezzò lo scafo del bastimento e fece otto o dieci morti e venti feriti sul ponte.
Nello stesso momento si udì l’urto dei due bastimenti che si scontravano tra loro e che i rampini si attaccavano l’uno all’altro di quell’abbraccio fatale che quasi sempre segue l’annichilimento di uno dei due. Era un momento di orribile confusione; Inglesi e Francesi erano così mescolati e confusi che non si sapeva quali attaccavano, quali si difendevano.Tre volte i francesi debordarono (con i cannoni) sulla fregata inglese come un torrente che si precipita, tre volte essi rincularono come una marea che si ritira. Infine alla quarta debordata, ogni resistenza parve cessare; il capitano era sparito, ferito o morto.
Tutti erano a bordo della fregata inglese; la bandiera britannica protestava sola ancora contro la sconfitta; un marinaio avanzò agilmente per abbassarla.
In quel momento, il grido: Al fuoco! risuonò; l capitano inglese, con una miccia in mano, era stato visto avanzare verso la santa barbara.Immediatamente, Inglesi e Francesi si precipitarono a bordo della fregata francese per fuggire al vulcano che poteva aprirsi sotto i loro piedi e che minacciava di inghiottire sia i nemici che gli amici. I marinai, con le asce nelle mani, si lanciarono a tagliare le catene dei rampini e per rilasciare il bompresso.
Il capitano prese il megafono e comandò la manovra con cui sperava di allontanarsi dal suo nemico, e la bella e intelligente fregata, come se capisse il pericolo che stava correndo, fece un movimento all’indietro Allo stesso istante, si udì un rumore simile a quello di un centinaio di pezzi di cannone; il bastimento inglese scoppiò come una bomba lanciando in cielo i resti dei suoi alberi, i suoi cannoni rotti e gli arti dispersi dei suoi feriti e morti.
Poi un silenzio orribile susseguì a questo terribile rumore, un vasto focolaio ardente rimase per qualche secondo ancora sulla superficie del mare, affondando a poco a poco e facendo bollire l’acqua che lo stava abbracciando; fece tre giri su se stesso e si inabissò.
Quasi immediatamente, una pioggia di sartiame rotto, di membra sanguinanti e detriti di combustione cadevano attorno alla fregata francese.
Tutto era finito, il nemico aveva smesso di esistere.Ci fu un istante di emozione suprema durante la quale nessuno era sicuro della propria esistenza, dove i più audaci si guardavano a vicenda rabbrividendo, e non si capiva, tanto la fregata francese era così vicina alla fregata inglese, come non fosse stata trascinata in fondo al mare o lanciata con essa fino al cielo.
Il capitano riprese il suo sangue freddo; ordinò di condurre i prigionieri in fondo della stiva, di portare i feriti dentro l’entre-pont (spazio compreso entro due ponti di un battello) e di buttare i corpi in mare. Dopo che furono eseguiti questi tre ordini, si voltò verso il vascello a tre ponti che, durante la catastrofe che veniamo da raccontare, aveva guadagnato terreno, e che avanzava, cacciando la schiuma davanti alla sua prua come un cavallo da corsa la polvere dal suo petto.
Il capitano fece riparare all’istante le avarie che avevano raggiunto il corpo della nave, cambiarono due o tre vele bucate dai proiettili, sostituirono gli attrezzi rotti con degli attrezzi nuovi; poi, capendo che la loro salvezza dipendeva dalla rapidità dei loro movimenti, ripresero la fuga con tutta la velocità di cui il bastimento era suscettibile.
Ma anche se queste manovre erano state eseguite rapidamente, avevano preso un tempo materiale che il suo antagonista aveva approfittato, così che nel momento in cui la fregata s’inclinava sotto il vento, riprendendo la sua corsa verso le Baleari, un punto bianco apparve davanti al bastimento di prima linea, e quasi immediatamente, attraversando l’albero, una palla tagliò due o tre corde e trafisse la vela di randa e il fiocco.
– Mille tuoni! disse il capitano; i briganti avevano un ventiquattro! Effettivamente, due pezzi di questo calibro erano piazzati a bordo del vascello, uno nella parte anteriore, l’altro di dietro, quando il capitano della fregata pensava ancora di essere fuori dalla portata usuale, era, con sua grande delusione, sotto il fuoco del suo nemico.
– Tutte le vele fuori! gridò il capitano, tutto anche le bonnettes e cacatois! (vele leggere e contro-velacci)
Non si lasci un panno di tela grande come un fazzoletto da tasca negli armadi.! Andate! Immediatamente tre o quattro piccole vele si issarono e correvano per sistemarsi vicino alle vele più grandi che esse erano destinate ad accompagnare, e si senti, un aumento di velocità, che per quanto debole di questo aiuto, non era del tutto inutile.
In quel momento, un secondo colpo di cannone si sentì che passava come il primo vicino all’albero, ma senza altro risultato che forare una o due vele. così si navigò per il tempo di dieci minuti; Durante questo tempo il capitano francese non cessò di tenere il suo telescopio puntato sulla nave del nemico.
Poi, dopo questo esame di dieci minuti, facendo rientrare ciascuno dei vari tubi del suo telescopio con un colpo solo violento del palmo della mano:
– Certamente, signori, les Anglais! gridò noi filiamo mezzo nodo più di voi!
– Allora disse il principe, che non aveva lasciato il ponte, così domani mattina saremo fuori dalla vista?
– Oh mio Dio, s’, rispose il capitano, se noi andiamo sempre cdi questo passo.
– E se qualche palla maledetta non ci rompesse una dei nostri tre alberi, disse ridendo il principe.
Come egli diceva queste parole, il suono di un terzo colpo di cannone si sentì, e pressoché subito si udì un terribile crepitio; un proiettile aveva appena rotto l’albero su cui il principe si appoggiava, sotto la grande cima.
Allo stesso tempo, l’albero si inclinò come un albero che il vento sradicata; poi, tutto carico delle sue vele, della sua attrezzatura. e delle sue corde, la sua parte superiore si abbatté sul ponte, seppellendo il principe di *** sotto un un ammasso di vele, ma questo, con tanta di quella fortuna, che il principe non aveva neanche un graffio.
Una imprecazione fece dividere il cielo, accompagnò questo evento come il rotolamento dei tuoni accompagna il fulmine.
Era il capitano che stava guardando d’un colpo d’occhio la sua posizione. Ora questa posizione è stata decisa; ora, un combattimento era inevitabile, e il risultato di questo combattimento con una nave inferiore, gli uomini già stanchi di una prima lotta e di un equipaggio metà meno forte dell’equipaggio nemico, non si presentava neanche per un attimo la minima opportunità favorevole.
Il capitano non era meno preparato per questa lotta disperata con il coraggio e la perseverazione che tutti gli conoscevano; la chiamata ai posti di combattimento risuonò di nuovo, e la metà dei marinai nuovamente si precipitò verso le armi, che i resti non si aveva fatto che depositare temporaneamente sul ponte, mentre l’altra metà, slanciandosi sull’albero, si mise a tagliare con grandi colpi di ascia corde e attrezzi, poi si sollevò l’albero rotto, gli attrezzi, le corde, e le funi furono gettate in mare. Fu solo allora che si accorse che il principe era sano e salvo. Il capitano l’aveva creduto ucciso.
Tuttavia, così breve che fu il tempo trascorso dopo la catastrofe, il progresso del vascello era già visibile: continuare la fuga era dunque fuggire inutilmente; ora fuggire è una codardia quando la fuga non offre una possibilità di salvezza.
Così almeno pensava il capitano. Perciò ordinò immediatamente che la nave venisse spogliata di tutte le vele che non sarebbero state assolutamente necessarie per la manovra, e che si attendesse il vascello. Ma, mentre pensava che, in questa critica situazione, un discorso ai suoi marinai avrebbe fatto bene, si avvicinò alla scala del terzo ponte, e, si rivolse al suo equipaggio:
– Amici miei, disse, noi tutti siamo perduti da a fino a z.
Tutto quello che ci resta da fare ora è quello di morire il meglio che possiamo.
Ricordatevi di vendicare, e viva la repubblica! L’equipaggio ripeté con una sola voce il grido di: Viva la repubblica! poi ognuno correva al suo posto disinvolto e così disposto come se fosse stato appena convocato per una distribuzione di grog.
Quanto al capitano, egli si mise a fischiettare la Marsigliese. Il vascello stava ancora avanzando, e, a ogni passo che egli faceva, i suoi messaggeri di morte stavano diventando sempre più frequenti e di più in più funesti, alla fine, esso si trovò a portata ordinaria, e girando la sua fiancata armata di una tripla fila di cannoni, si coprì di una nuvola di fumo, da cui è scappata una grandinata di palle di cannone che venivano ad abbattersi sul ponte della fregata. In tali circostanze, è meglio correre del pericolo, che aspettarlo, il capitano ordinò di manovrare sulla nave inglese e di tentare l’abbordaggio.
Se qualcosa poteva salvare la fregata, era un colpo di di forza che faceva cessare la superiorità fisica del nemico, alla quale essa aveva da fare, impegnando l’impetuosità francese con il coraggio anglicano. Ma la nave inglese aveva un troppo buona posizione dalla sua parte.
Con i suoi cannoni da trentasei, la fregata poteva difficilmente raggiungerla, mentre il vascello, con i suoi cannoni da quarantotto, la colpiva impunemente.
Tuttavia, non appena vide che la fregata puntava su di lui, era lui a manovrare per mantenerlo alla stessa distanza, a partire da quel momento in uno strano gioco, il più forte sembrava fuggire, e il più debole sembrava inseguire. La situazione del bastimento francese era terribile: mantenuto sempre alla stessa distanza con la stessa manovra, ogni bordata del suo nemico la raggiungeva in pieno corpo, mentre i colpi disperati che la fregata tirava si perdevano inefficaci nello spazio di mare che la separavano dall’obiettivo che voleva raggiungere; non era più una lotta, era solo un’agonia, bisognava morire senza nemmeno difendersi, o ammainare. Il capitano era nel posto più scoperto, gettandosi per così dire davanti ad ogni bordata, e sperava che qualcuna di quelle palle lo tagliassero in due, ma si sarebbe detto che era invulnerabile; il suo bastimento era rasato come un pontone, il pavimento era coperto di morti e di moribondi, e lui non aveva una sola ferita.
C’era anche il principe che era sano e salvo. Il capitano si guardò intorno, vide il suo equipaggio decimato dalla artiglieria, morivano senza lamentarsi, qualsiasi cosa sia morivano libere da rivalse.
Sentì la sua fregata tremare e lamentarsi sotto i piedi, come se anche lei fosse stata animata e viva: egli comprese che era responsabile davanti a Dio per i giorni conferiti a lui, e alla Francia per il bastimento di cui ella l’aveva fatto re. Diede, piangendo con rabbia, l’ordine di ammainare la bandiera.
Appena che la fiamma a tre colori fu scomparsa dal corno dove essa fluttuava, il fuoco del vascello nemico cessò; e, mettendo capo sulla fregata, si manovrava per venire verso di lei; al fianco, la fregata lo vide avanzare in un silenzio cupo: si sarebbe detto che al suo approccio persino i morenti mantennero i loro lamenti. Con un movimento meccanico i pochi artiglieri che restavano vicini a duna dozzina di cannoni ancora in batteria vedevano appena il bastimento a portata, che si avvicinava, che essi avvicinavano meccanicamente la miccia dei cannoni; ma, su un segnale del capitano, tutte le lance furono gettate sul ponte, e ciascuno attendeva, rassegnato, capendo che ogni difesa sarebbe stata un tradimento.
Dopo un momento, le due navi si trovarono quasi a bordo contro bordo, ma in uno stato molto diverso: non un singolo uomo del vascello inglese mancava nella parte dell’equipaggio, non un albero era stato colpito, non una corda rotta il bastimento francese al contrario, tutto mutilato dalla sua doppia lotta, aveva perso metà della sua gente, aveva i suoi tre alberi rotti, e pressoché tutte le sue corde fluttuavano al vento come una capigliatura sparsa e desolata.
Quando il capitano inglese fu alla portata di voce, egli si rivolse, in un ottimo francese, al suo coraggioso avversario, alcune di quelle parole di consolazione con cui i la brava gente addolcivano il dolore della morte o la vergogna della sconfitta.
Ma il capitano francese si accontentò di sorridere, scuotendo la testa, dopo di che fece segno al suo nemico di mandare le sue scialuppe in modo che l’equipaggio prigioniero potesse passare da un bordo all’altro, tutte le barche della fregata era fuori servizio, Il trasporto è avvenuto immediatamente. Il bastimento francese aveva talmente sofferto, che stava facendo acqua da tutti i lati, e che, se non si fosse portato un pronto rimedio alle sue avarie, egli minacciava di affondare.
Si trasportò in primo luogo i miserabili che erano stati feriti più gravemente, poi quelle le cui ferite erano più leggere e, infine, i pochi uomini che erano miracolosamente sfuggiti al doppio combattimento appena sostenuto. Il capitano rimase l’ultimo a bordo, come era suo dovere; poi, quando vide il resto del suo equipaggio in una scialuppa, e che il capitano inglese faceva mettere la sua propria yole (scialuppa) in mare per mandarlo a prendere, egli entro nella sua cabina come se avesse dimenticato qualcosa; cinque minuti dopo si udì un colpo di pistola.
Due dei marinai inglesi e il giovane mezzo-marinaio che comandava l’imbarcazione si precipitarono immediatamente presso il ponte e corsero alla cabina del capitano, Loro lo trovarono sdraiato sul pavimento, sfigurato e nuotante nel suo sangue; lo sfortunato e coraggioso marinaio non voleva sopravvivere alla sua sconfitta: egli si aveva appena fatto saltare la testa.
Il giovane mezzo-marinaio e i due marinai stavano per ritornare, quando un fischio di fece sentire.
Nel momento in cui il principe di*** mise piede a bordo del vascello inglese, si cominciò a rendersi conto che il tempo era rivolto a tempesta; così il capitano inglese, visto che non c’era tempo da perdere per affrontare questo nuovo nemico, aveva deciso di tornare in tutta fretta verso il porto di Livorno o di Porto Ferraio.
Tre giorni dopo, il bastimento inglese, disalberato dal suo albero di mezzana, il timone rotto, galleggiava sull’acqua solo per mezzo delle sue pompe, entrò nel porto di Mahon, spinto dall’ultimo soffio della tempesta che l’aveva quasi annientato.
Per quanto riguarda la fregata francese, per un momento il suo conquistatore aveva cercato di trainarla con lui, ma ben presto era stato costretto ad abbandonarla, e, al tempo stesso che la nave inglese entrò nel porto di Mahon, stava ad arenarsi sulle coste della Francia con il corpo del suo coraggioso capitano, a cui ella serviva da gloriosa bara.
Il principe di *** aveva supportato la tempesta con la stessa fortuna del combattimento, ed era sceso a Mahon senza nemmeno avere avuto il mal di mare.

Tradotto e adattato per i tempi nostri, dal francese.

Di Alessamdro Dumas