L’Illuminazione Elettrica

Arnoldo Usigli

Il quesito dell’illuminazione preoccupa in oggi il pubblico di tutti i paesi. La lotta impegnata fra gas e luce elettrica interessa non solo alcune società finanziarie, ma i cittadini tutti, perché tutti in questa battaglia della scienza e del progresso ci sentiamo più che spettatori, attori fidenti nella vittoria.

Ma le speranze di successo sono basate su buoni argomenti? È lontano il giorno in cui il gas ritirandosi dalle vie e dalle piazze, rinunciando ai sontuosi palazzi, si ridurrà alla modesta casuccia, o abdicando alla produzione della luce si limiterà a provvedere le officine di forza motrice?

Non lo sappiamo ancora. Ma per giudicare delle sorti serbate all’illuminazione elettrica dobbiamo formarci un’idea chiara e precisa dello stato attuale della questione. Tutti infatti, più o meno parliamo di luce elettrica, perché ne troviamo notizie sui giornali scientifici e non scientifici, perché ne vediamo esperimenti nelle vie e nei negozi; ma forse appunto per questo, il pubblico è un po’ confuso fra i tanti sistemi di cui assiste alle prove, o di cui ode raccontare le meraviglie.

La curiosità di avere notizie esatte – non volendo o non potendo ingolfarsi in volumi spesso aridi e astrusi, – è ben naturale; perciò una folla di persone appartenenti a tutte le classi sociali assisteva la settimana scorsa alle due conferenze sull’illuminazione elettrica, che l’egregio prof. Giuseppe Colombo tenne nella vasta aula della Società d’ Incoraggiamento.

Il problema dell’illuminazione elettrica è immensamente arduo. – Finché si tratta d’illuminare qualche via o qualche piazza ci si riesce subito, e quasi ogni grande città ne ha dato l’esempio; ma l’illuminazione a domicilio richiesta dal pubblico in sostituzione del gas, presenta difficoltà maggiori. Attualmente nella sola Nova York è applicata la luce elettrica a domicilio; in Europa non si può citare un esempio in grandi proporzioni, giacché l’impianto di Santa Radegonda, nella città nostra, non è ancora compiuto.

Tuttavia chi ha indicato il modo di risolvere il problema, è l’Edison coll’invenzione delle lampade a incandescenza.

Vi sono infatti due differenti sistemi d’illuminazione elettrica: ad arco e a incandescenza.

Il primo è conosciuto da più lungo tempo per le esperienze che se ne fecero in Galleria, in Piazza del Duomo, e per l’applicazione sua alla Stazione Centrale e al Caffè Gnocchi. Le lampade di questo sistema sono molto potenti; hanno un’intensità luminosa di almeno 200 candele (la candela stearica o di paraffina è il tipo unitario per valutare l’intensità) e arrivano a molte migliaia. – La luce è prodotta dall’arco luminoso che scatta fra due punte di carbone, le quali si consumano a poco a poco, e perciò dopo un certo tempo devono essere sostituite. – Ma la luce così ottenuta non riesce gradita; è bianca, di un pallore lunare funereo, in causa del predominio di raggi violetti. – Inoltre per quanto sia perfetto il meccanismo che avvicina i carboni, a mano a mano bruciano, – per mantenerli sempre alla stessa distanza, – si verificano delle intermittenze, degli sbalzi di luce che affaticano la vista.

Il secondo sistema, a incandescenza, è pur noto in Milano, dopo l’esperimento che ne fu fatto sotto il portico Thonet, e la sua applicazione ai negozi sottostanti. – Come tutti sanno, le lampade di questo tipo sono di un’ intensità poco superiore a quella d’un beccuccio a gas; la luce però n’è più tranquilla, e di tinta dorata assai piacevole. – Sono costituite da un filamento di bambù carbonizzato contenuto in un palloncino di vetro. I due capi del filamento si uniscono a due fili metallici che terminano al di fuori della lampada in un tondino e in una vite di metallo isolati con gesso. Mettendo in comunicazione il tondino e la vite coi fili conduttori della corrente, questa è costretta a passare attraverso il filamento carbonizzato, portandolo all’incandescenza.

L’intensità luminosa dipende dalla lunghezza e dal diametro del filamento. Se il filamento è breve e sottile, la fiamma è debole; se lungo e grosso, il potere luminoso aumenta.

L’intensità normale delle lampadine è di 8 candele: ce n’è però da 10, da 16 e dà 32 candele come nel negozio dell’orologiaio Franceschi sotto il nuovo portico in piazza del Duomo.

Col variare della intensità della corrente, varia pure la tinta della luce, che, dapprima rossastra, diventa poi più brillante e d’una bianchezza temperata da riflessi dorati, quando la corrente è d’intensità normale. Aumentando l’intensità il filamento si spezzerebbe.

Qualcuno potrà chiedere: Perché il filo carbonizzato brucia e non si consuma? La ragione è evidente: Il globo di vetro che racchiude quel filo è privo d’aria; n’è stato vuotato con la massima cura prima di otturarlo. – Manca dunque l’ossigeno e non avviene la combustione; ma la fibra si consumerebbe all’istante e quindi la lampada si spegnerebbe, se penetrasse la più piccola quantità d’aria.

Tuttavia, a farla di rimanere incandescente il filamento non può a meno di emettere vapori di carbonio, che lo assottigliano a poco a poco, finché giunge un punto in cui si spezza e la lampada si spegne; on le la necessità di rinnovare di tratto in tratto gli apparecchi.

Vediamo un po’ le spese di manutenzione e di consumo. Ammettendo che una lampada, la quale costa 5 lire, dia luce in media per 800 ore, si avrà una spesa di 2/3 di centesimo ogni ora di luce, senza calcolare però il costo della forza motrice.

Il prof. Colombo disse che i filamenti durano talvolta anche di più; e citò i risultati di alcuni opifici della Lombardia e della Liguria ove alcune lampade durarono per ben 1070 ore.

Le lampadine si montano molto facilmente, vale a dire qualunque persona può farne il ricambio. Esse vengono applicate ai così detti porta-lampade, di cui vi sono due tipi: con rubinetto e senza rubinetto.

Il primo tipo ha, nell’interno, degli organi che corrispondono al tondino e alla vite della lampada; avvitando la lampada al porta-lampade, avviene il contatto perfetto. Il secondo tipo è analogo al primo; ma è fornito di un rubinetto, simile alla chiave d’un beccuccio a gas, col quale si apre o si chiude il circuito, vale a dire si lascia passare o s’interrompe la corrente accendendo o spegnendo la lampada.

Coll’uso di questi sistemi d’illuminazione i pericoli d’incendio sono scongiurati. Quando la corrente è di normale intensità il palloncino di vetro che racchiude il filamento non è neppure caldo. – Se taluno obbiettasse, che il palloncino può rompersi accidentalmente, e allora il filo arroventato può appiccare il fuoco, dimenticherebbe che in presenza dell’aria il filamento si consuma subito e la lampada si spegne.

Altri pregiudizi esistono sui pericoli delle lampade. – Si ha paura della corrente elettrica; e la paura, dopo tutto, è salutare, perchè tiene lontano il pubblico

da quanto non conosce ancora bene. – Ma in realtà, il pericolo esiste toccando il circuito delle lampade ad arco, non quello delle lampade a incandescenza. Ciò che rende pericoloso il contatto di due fili elettrici è la tensione della corrente. Oltre un certo limite, com’è noto, la tensione dà una scossa terribile da uccidere all’istante; e si hanno pur troppo a deplorare per questa ragione degli infortuni. Ora, le lampade a incandescenza richieggono una tensione tanto piccola da non poter produrre nemmeno una scossa sensibile.

Un vero pericolo esisterebbe però nell’ arroventarsi dei fili conduttori della corrente quando passasse in essi un eccesso di elettricità. In via normale ciò non succede; ma potrebbe avvenire per qualche fortuito contatto col terreno. Edison ovviò a questo inconveniente coll’invenzione dei fili di sicurezza. – Se in un condotto di metallo, soggetto a riscaldarsi, introduciamo un filo di lega di piombo e stagno, facilmente fusibile, questo a temperatura elevata fonde, si spezza, interrompe il passaggio della corrente e spegne la lampada, togliendo la possibilità d’un incendio.

Ma i contatti col terreno non sono difficili; perciò si avrebbe spesso un’interruzione di corrente e quindi di luce. S’è pensato allora di suddividere la luce nelle case e nei negozi in tanti piccoli circuiti limitati a un certo numero di lampade; così, ove avvenga la fusione d’un filo, si spegnerebbero solo poche fiamme.

Quando si vuole accendere la lampada basta girare la chiave di cui è munita, in un senso; quando si vuole spegnerla, girarla in senso opposto; vi sono poi degli interruttori, cioè delle chiavi che permettono di accendere o di spegnere un numero determinato di lampade nelle stesso istante; non c’è dunque bisogno di nessuna comunicazione coll’ufficio centrale. Nel luogo ove sono le macchine si regola la distribuzione della corrente secondo l’intensità d’una lampada che si prende per tipo. – Se la luce ne diventa più brillante è segno che parecchie lampade sono state spente, e allora si riduce la corrente al grado voluto, se invece la luce campione impallidisce si rinforza la corrente.

Il prof. Colombo parlò, da ultimo, dell’illuminazione elettrica dei teatri. Ricordò la dolorosa statistica degli incendi avvenuti nei luoghi di pubbliche rappresentazioni. Dal 1830 al 1840 se ne contano in media tre all’anno; dal 1861 al 1877 tredici all’ anno; dunque il numero degli infortunii va aumentando: in parte per l’aumento dei teatri stessi, e in parte per le maggiori esigenze del pubblico in fatto d’illuminazione.

La quantità di materie infiammabili, scenari, legnami, veli e tele d’ogni sorta accumulate sul palco scenico, rendono questi disastri probabili e frequenti. Per formarsene l’idea basta rammentare la Scala in una sera di spettacolo. Ci sono durante il ballo 1400 fiamme a gas sulla scena, 600 fiamme negli alti traversi lontani dalla sorveglianza diretta del personale, in mezzo alle tele e al legname delle impalcature; poi le fiamme che devono spostarsi ad ogni cambiamento di scena: e poi fiamme ancora nel sottoscena, nei corridoi e negli angusti camerini. Il solo pensare ad un incendio, in queste condizioni, fa fremere.

L’introduzione della luce elettrica nei teatri è dunque indispensabile. Ma bisogna superare non poche difficoltà, provenienti in gran parte dalle esigenze sceniche.

È necessario di poter variare entro certi limiti l’intensità luminosa delle lampade divise in circuito come si fa delle fiamme a gas mediante il regolatore. – Ciò si ottiene con ingegnosissimi espedienti; interponendo nei condotti che vengono dalla macchina dinamoelettrica un filo sottile, le lampade impallidiscono, perché i fili sottili oppongono resistenza al passaggio della corrente; – diminuendo, invece, la lunghezza di questo filo di piccolo diametro, avviene il contrario. E dunque una specie di regolatore, analogo a quello del gas, che permette di variare l’intensità luminosa. Basta avvolgere il filo sopra un rocchetto, in modo da avere una grande lunghezza accumulata in un piccolo spazio. Girando un manubrio, si allunga o si accorcia questo filo sottile ottenendo così l’effetto desiderato.

Quanto alla spesa d’illuminazione d’un teatro coll’elettricità, per un ambiente analogo al nostro Carcano o al nostro Castelli, occorrerebbero cinquanta o sessanta mila lire; ma tenuto conto di un teatro che rimanesse aperto quasi tutto l’anno, una tale somma non supererebbe di molto quella richiesta pel consumo serale del gas. – In ogni modo le decine di mila lire non devono essere lesinate quando si tratta della vita di centinaia e centinaia di persone.

Così finì il prof. Colombo la sua prima conferenza, dottissima e brillantissima a un tempo; e così finiamo anche noi, che abbiamo tentato di darne un fedele riassunto.

Tratto da: L’Illustrazione italiana, Volume 10
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La centrale elettrica di Santa Radegonda, o Centrale elettrica di via Santa Radegonda, a Milano è stata la prima centrale termica dell’Europa continentale che ha consegnato l’energia elettrica generata a una rete di distribuzione elettrica.