LE MASCHERE

Al principio del nostro secolo si aveva ancora in teatro un ricreamento di più colle maschere che rallegravano la commedia: anche allora vi erano i drammi di gran sentimento, ne’ quali si piangeva da principio a fine; vi erano gli spettacoli con temporali, burrasche, uragani, guerre, i monti che crollavano, il cielo che si versava sulla terra; tutti colpi di scena con cui si finiva un atto, e il pubblico al solito batteva le mani: anche allora vi erano le tragedie, nelle quali tutti gli attori si ammazzavano disperatamente, e il suggeritore si annicchiava nella buca, perchè non cadesse il sipario a mandarlo all’altro mondo.
Ma fra tanto mare di pianto, almeno qualche volta alla settimana si assisteva ad alcune liete commedie, ove le maschere rappresentavano la parte festiva e popolare delle varie provincie d’Italia: ora anche queste son divenute storia a chi non frequenta i teatri delle marionette e dei burattini; quindi non inutile vederle fra le ricordanze passate.
Eccole che vi appajono innanzi. Quel col berretto e naso lungo è calabrese, il Giangurgoli: cammina con smorfie, è sciocco: l’ altro cogli occhiali è Tartaglia, popolare di Napoli, eloquente se non disperasse gli uditori con continuo tartagliare: quel col cappello a tre punte e la zazzera è Don Pasquale di Romagna, uomo d’importanza che dà consigli sempre scioperati. L’altro a naso lungo, che getta un mazzolin di fiori ad una finestra , è il buon Stenterello, nato nel contado di Firenze, e che senza crusca infiora di bei modi il parlare del popolo. Son tutti raggruppati non in teatro, poveretti! da cui sono quasi sempre cacciati , ma a far baccano per la festa de’ Moccoli nel Carnevale di Roma.

Brighella

Questa maschera, che anche si chiama Burchiella, fu inventata da Antonio da Mulino; Brighella è uomo piacevole, destro e furbo, che parla il greco e lo schiavone, frammisti coll’italiano: narratore di stranezze e di favole: è mezzano di matrimonii, serve a scrocco, approfitta di tutti: pronto d’ingegno, canta, suona la chitarra talor mancino: è il filosofo delle maschere. Costui s’accosta sovente a Pantalone, maschera veneziana inventata da Francesco Cherea: è uomo di commercio, buon veneziano, talora astuto, ma di buona fede: spesso gli altri godono, e Pantalone paga.

Pulcinella francese

Pulcinella è una delle maschere che hanno maggior credito, e fu imitata da varie nazioni: in Francia fu introdotto al teatro delle Marionette, e per questo titolo merita di essere effigiato. Era lepido, ma non troppo destro. Pulcinella variò nome: in Olanda si chiama Toneelgek, in Inghilterra Punch, però è più manesco che lepido, crudele nella sciocchezza: uccide il figlio perchè non pianga, la moglie che gliel chiede, il can che abbaja, e infine anche il diavolo, e sta allegro perchè il diavolo è morto.

Pulcinella napoletano

Ma il vero Pulcinella, padre di tutti gli altri è napoletano, l’eroe dei maccheroni: naso lungo, berretto a coda, abito bianco, voce nasale e forte; il bastone facilmente alle mani, pronto alle bestemmie ed ai fatti; calabrese di origine, incivilito a Napoli. Questa maschera ebbe un tipo anche fra gli antichi, e si chiamava Pullicero; fu il comico Silvio Fiorillo che lo creò al nostro teatro. Un sartore, Andrea Calcese detto Cinuccio, fu valente a rappresentare Pulcinella, e morì nel 1636. Pulcinella a Napoli ha un teatro colle marionette, antagonista a San Carlo, e si chiama San Carlino; ha uno scrittor di commedie, Francesco De-Pretis, che ne pubblicò già molte in dialetto napolitano. Pulcinella era la delizia di Bayle che stava lunghe ore ad udirlo, fu il maestro d’eloquenza di Curran, che postosi a farlo ballare nella baracca per ricreamento, si fe’ tal dicitore, che sali fra’ primi al parlamento inglese e fu gran cancelliere. Pulcinella intraprendente, coraggioso, lieto, senza essere buffone, è un eroe che ha la simpatia di tutti; fu il primo ad essere sbandito dal teatro e rilegato ai burattini, talchè non scrisse per lui neppur Goldoni.

Il Dottore

Il comico Lucio nel 1560 pensò copiare in teatro un vecchio barbiere Graziano delle Celtiche di Francolino, uomo nuovo e strano, e ne fé il Dottore. Ludovico da Bologna lo rese più perfetto e vi diede il dialetto bolognese. Il Dottore è un laureato in leggi, vestito in toga, sciocco, ma che presume di sapere; non ha nulla in zucca, e si crede qualche cosa, vuol dare sentenze e citazioni e tutto a sproposito.

Arlecchino

Cavatevi il cappello: eccovi il più grande eroe della commedia italiana, e quello che solo, senza mutar nè lingua, nè costumi, chiamò l’attenzione di tutte le nazioni, la frequenza di tutti i teatri, le lodi e il sorriso degli accigliati e delle belle.
Arlecchino rappresenta il carattere popolare della valle del Brembo nella Provincia di Bergamo; è originario di San Giovanni Bianco, poche miglia lontano da Cornello, poggio che fu patria d’origine ai due Tassi; Arlecchino non cede loro in celebrità, forse li vinse in fortuna. Arlecchino veste un abito a pezze di vario colore, porta una maschera nera che gli copre la testa fino al cucuzzolo, un cappello bianco di feltro, con larga tesa; ha una cinghia a cintola, e in questa tiene una striscia di legno che gli vale di spada, che mena volentieri sulle spalle altrui, ma fa poco male.
Arlecchino cammina cantarellando, pensa al presente, nulla al passato ed al futuro: sorride alle ricchezze, ma non procaccia di acquistarle; è faceto senza malizia, allegro senza rumore: celia con tutti que’ che incontra, dimanda con curiosità le altrui notizie, e narra con facilità quanto sa.
Guai se alcuno gli affida qualche cosa a secreto! guai se ei pone con sè stesso che non gli esca di bocca! cammina a cautela, si volge inquieto intorno, come un geloso che crede tutti gli sguardi rivolti alla sua bella; immagina i detti e motti delle persone intesi a rapirgli il segreto; e come è leale, francamente dichiara loro, che non ne sapranno nulla, che niuno penetrerà la missione commessagli dal padrone per vendicarsi d’ un rivale.
È curioso de’ fatti altrui, spia, va origliando quanto altri discorre; se gli è affidata una lettera, la apre, la legge, ma giura cogli amici che non sapranno mai la dichiarazione amorosa che vi è scritta: e se alcuno prontamente indovina quanto vi contiene, ei si spaventa perchè sia uno stregone e fugge.
Vi è una novità da pubblicare? La si affidi ad Arlecchino, e in breve ne parlerà tutta la contrada; pare un giornalista! Vi è un’impresa a cui porre mano ei si presenta il primo anima e corpo; ma se è riposta nel pigliarsi una buona corpacciata, certo riesce il più prode; se vi corre rischio la pelle, è primo a darsi alle gambe. Si desidera prendere una vendetta e far bastonare un amico? Arlecchino se ne toglie la cure, corre, cerca il paziente, lo avvisa di volerlo battere; ma il più delle volte ritorna egli stesso con peste le spalle.

Bisogna un servo?  Arlecchino è ai vostri ordini; egli non sa rifiutare l’opera propria a nessuno che nel richiegga, talchè se è ricercato da due, diviene servo di due padroni. Però è fedele, e manca mai al debito proprio: se il padrone corre fra i pericoli, ei trema, piange, ma gli è vicino; lo chiama sempre addietro, lo sgrida imprudente, ma non lo abbandona mai.
Arlecchino è superstizioso: crede nelle streghe, nei fantasmi, ai morti risuscitati; ma se il padrone lo impone, e gli è compagno, va tremante ad incontrarli, e li serve a tavola; col padrone ei discende anche all’ inferno.
Arlecchino è brutto, ha mezza la faccia nera ed è sempre in mal arnese; pure ha un cuore facile, appassionato come quello d’un vagheggino.
Sinnamora facilmente, ma però invece delle signore, delle donne di spirito, di quelle che sentono di lettere, di giornali e d’almanacchi, gli sanno meglio le cameriere e le fantesche.
Non cura lo spirito, ma le vuol bracciatoccie e in buon assetto di carni; ei non usa molte galanterie, ma canta loro spiccio, spiccio, i sentimenti del proprio animo; e mentre poi i padroni gioiscono in tenerezze sentimentali nelle sale dorate, ei seduce le cameriere in cucina, perchè gli siano larghe di qualche bicchiere di vino e di qualche buon boccone. Arlecchino vuole maritarsi tutte, e non ne sposa mai nessuna.

Nè si creda che Arlecchino sia un discolo; è invece una creatura di tutto sentimento; i suoi affetti tengono del romantico. Egli ha un suo ideale in animo; ama una donna che non esiste, e che trova realizzata in tutte: costei è Colombina: è l’archetipo delle cameriere e delle fantesche, è il sospiro continuo d’Arlecchino; ei viene e va all’altro mondo con Colombina in cuore.
Arlecchino è commerciante, è impresario, è medico, non però mai avvocato; vi vuole troppa astuzia! Egli ha molti malanni , si scontorce pei dolori, si dispera perché è presso a morire, e dopo un momento è sano, specialmente se gli si offre un buon piatto di polenta.
Ei ride e piange nelle stesso tempo, si terge le lagrime col cappello e si passa allegramente pensando che non ha denari in tasca.
Arlecchino è ballerino, è saltatore e quel che più monta è filosofo: egli si propone scherzando di castigare i costumi, e questo lo fa in mille modi: ora vuole mordere il vizio altrui e narra una favola; ora racconta una propria avventura, la storia d’un animale, d’una pietra; come Fedro Pimplai, ei dà vita e favella a tutta la natura, e da tutto cava una moralità come Socrate: la morale nacque nei primi secoli delle nazioni colla favola: tale è quella dei sette savii: ne’ secoli che tutto si riduce a sistema, Arlecchino riproduce la morale antica pel popolo; è l’Esopo delle nazioni moderne, come quello era forse l’Arlecchino degli antichi. Arlecchino muore mille volte, ed è sempre risorto; non muore mai come il Dio Brama. L’orazione funebre d’Arlecchino non può essere fatta che da chi ha preso da lui cognizioni e dottrina: il popolo che corre sulla piazza alla mattina e sta a bocca aperta ascoltandolo sotto una casuccia di legno, e ride, potrebbe solo dire udendo che è morto: Povero Arlecchino; io ho da lui imparate tante cose!

Alcuni vorran sapere chi abbia inventato il carattere d’Arlecchino: cerca, fruga, dagli, sventura! non s’è trovato: però vediam parlato di un certo Arlecchino che a’ tempi di Filippo II re di Spagna, capo d’una compagnia comica, recitò alla corte di Madrid, ove levò grandissimo rumore, e aveva le grazie dei grandi in que’ tempi burrascosi.
Sarebbe mai costui il primo Arlecchino del mondo? Prima di quest’epoca non troviamo Arlecchini, e pare anche dietro tutte le regole del sillogismo date dagli scolastici, che si possa stabilire essere quella l’età che vide la prima volta Arlecchino sulle scene.
Tanto conferma il sapere che a questo Arlecchino succede nel teatro spagnuolo un altro italiano detto Ganassa, che faceva commedie ove era lo spirito e la modestia, e valse a migliorare il teatro spagnuolo: siccome poi di Ganassa suoi seguaci si segna nei fasti di quel teatro il cognome, e del primo si parla solo di Arlecchino, fa luogo a credere che questo fosse veramente il suo nome.

Ma, e visse tanti secoli questo personaggio? V’ingannate; Arlecchino dopo il primo che diede il proprio nome a un essere con questo carattere, venne svolto e rappresentato da parecchi che lo imitarono in tutti i teatri d’Europa: Arlecchino apparve sempre collo stesso carattere, collo stesso linguaggio, e sua mercè si accorse ad udire la commedia italiana.
La storia d’Arlecchino, i suoi tratti di spirito, le sue lezioni risultarono da tanti individui parziali: sono insomma i Rapsodi che cantavano la guerra di Troja, sono i Bardi scandinavi, coi quali Omero e Macpherson crearono l’Iliade e i canti d’ Ossian.
Verrà tempo che Arlecchino sarà considerato come essere mitologico, e sloggiati dal cielo gli antichi Dei, chi sa che non prenda il posto di Momo, e forse anche qualche altro più sublime!

ORIGINE DELLE MASCHERE

Dopo aver veduti questi personaggi, verrà ad alcuno pur la curiosità di sapere come abbiano avuto origine: se furono maschere antiche rinnovate fra’ moderni, o se sono originali italiane. La risposta è breve: ripullularono anch’esse sulla radice antica come la moderna civiltà: sono nipoti delle maschere dei teatri d’Atene e di Roma; ma nipoti che hanno un carattere originale, come siam noi, razza d’uomini moderna, sebben discesa da quella antica.
Quai fossero le maschere greche, la loro origine, non accade or parlarne, perché non si vuole impacciarsi di archeologia: è certo che nelle loro commedie avessero i buffoni, e usassero chiamare Zanni (Sannos ) alcuni scempi che facevano ridere: così li nominò Cratino, e lo conferma Nonnio Marcello, ove dice che i Sannoni sono così detti da Sanni, stolti ne’ parlari, nei costumi, nelle figure.
Giacchè siamo sulle citazioni classiche, eccovi anche Cicerone: Chi può essere più ridicolo quanto un Sanione, il quale procaccia di far ridere colla bocca, colle contrazioni del volto, col contraffare i movimenti, la voce e tutto il portare del corpo?

I Zanni, come gli altri comici, portavano una maschera, ma sconcia, nera, senza occhi, e con soli due fori per vedere; un abito a pezze di colore diverso, due scarpette senza pedule, testa rasa é un breve cappello. Questi mimi di basso stato, si chiamavano in genere anche Planipedi, e se ne vedono spesso nelle commedie antiche.
In Italia, dopo il secolo di Poliziano, lasciata l’originalità che Dante e Petrarca avevano data alla vergine letteratura, tutto si volle coniare sulla latina e si corse a questa imitazione anche nella commedia.
Allora si dimenticò che essa è destinata a rappresentare i costumi contemporanei, e nel modo che sia a intelligenza di tutti, e si fecero commedie foggiate alla romana, e le si scrissero anco in latino; talora si recitarono quelle stesse di Terenzio, e quando pur si fecero italiane, si seguitò per alcun tempo ad attenersi in tutto al tipo antico. Allora il Zanni antico divenne maschera italiana, e il personaggio più burlesco della nuova commedia.

Però la commedia italiana nel secolo XVI prese un carattere nazionale: Macchiavello, l’Aretino, il Bibiena si spacciarono delle imitazioni latine, e senza copiare gli antichi personaggi ridicoli, vi seppero dare grande amenità colla satira dei costumi, sebbene talora cadessero nella licenza: Alcuni però che non avevano nè il loro spirito nè la loro feconda invenzione per trovare novità, pur si volsero a studiare in Plauto: si accorsero ch’egli aveva trovata una fonte del ridicolo coll’introdurre dei dialetti, come nel Penulo, ove un Cartaginese parla la propria lingua; ed altrove molti che facevano giocarelli di parole col latino: quindi pensarono essi pure di far parlare ad alcuni personaggi, ed in ispecie agli Zanni, che richiamarono ancora in iscena, vari dialetti d’Italia.
Tanto usarono il Russante, il Colmo ed il Cini nelle loro commedie, ove si parla il veneziano, il padovano, il bergamasco, e nella Vedova dell’ultimo anche il napoletano.

In questo modo per trovar varietà di personaggi burleschi s’introdussero nella commedia i dialetti d’Italia e le loro facezie: avvenne poi che alcuni di questi comici fecero con tanto ingegno la propria parte, che diedero il proprio nome al carattere che rappresentavano: pare che un certo Arlecchino nativo delle vallate di Bergamo, facendo la parte da Zanni, e parlando il patrio dialetto, rappresentasse sì bene quel carattere, da fare dimenticare il nome di Zanni e surrogarvi invece il proprio.
Così accadde d’un altro delle stesse valli detto Scappino, che tolse a fare lo Zanni astuto, e vi tramutò il nome. Di questi mutamenti ne avemmo esempio oggidì; vedemmo un caratterista prendere il nome di Babbeo, e in Milano, uno di Roma detto il Romanino, che facea ballare i burattini, per la tanta sua riputazione dare loro il proprio nome, sicchè si usa tuttavia di chiamare i romanini quella compagnia comica di legno.

Così avvenne delle altre maschere, e quindi presero secondo il capriccio o le circostanze de’ comici diversa forma e nome. Quindi le vere maschere italiane furono create nel secolo XVII, nel secolo del Marini e del Bernini, quando in tutte le arti si voleva l’esagerato. Questa pare la loro origine più ragionevole; chi ne pensa o ne trova un’altra la esponga; si occupano gli uomini di tante frivolezze, che certo non sarà la più piccola o inutile, l’origine di Pulcinella e di Arlecchino.

Tratto da Google Libri
Cosmorama pittorico anno secondo – 1836
Defendente Sacchi.