LAURETTA

Matilde Serao

Salvo quel difetto, Lauretta era una buona figliuola: lo dicevano tutti. Ella era simpatica, nonostante fosse bruna e grassotta; quando rideva con quel suo riso argentino, trillato, a scoppietti, avrebbe diradato le rughe del più serio tra gli uomini. Laboriosa, perchè la mattina, prima di fare un briciolo di toelettina, dava una mano a spolverare gli antichi e venerabili mobili borghesi; Lauretta avrebbe forse preferito dei mobili moderni, soffici, a tinte dolci, ma infine vi si adattava senza mormorare.
Pia abbastanza, sebbene si distraesse talvolta in chiesa a computare i nastri, i fiori, le piume del nuovo cappellino portato dalla figlia dei farmacista.
Compiva benissimo i suoi doveri di figlia; toglieva, per esempio, il cappello e la mazza di mano al padre quando questi tornava a casa, gli baciava la mano e gli scriveva una lettera nel giorno onomastico; cuciva a meraviglia gli abiti della madre, cercando di migliorarne il gusto, e la pettinava scrupolosamente ogni mattina.
Forse la maliziosa sapeva che queste piccole premure le valevano dal padre una cera fra la burbera e la benevola, ed in capo a qualche mese un vestito nuovo, un medaglioncino d’oro e qualche passeggiata domenicale per l’ombreggiata Foria. La madre aveva per essa altre misteriose concessioni: non le enumero perchè si conoscono tanto bene le concessioni materne!
Lauretta aveva un fratello. Il fatto rientra nelle sue virtù, forse perchè Gaetanino era cosi vivace, così impertinente, tanto ingegnoso nelle malizie, tanto brigantello e schiamazzatore, che quando rimaneva in casa, era per lei un continuo arrabattarsi a rimediare i suoi malestri, a implorar grazia per i rabbuffi e per gli scappellotti che aveva meritati; ma dopo un momento si era daccapo e ci si perdeva la testa a volerlo solamente fare stare un po’ fermo; il fuoco in persona era entrato in corpo a quel diavoletto di dieci anni.
Era per Lauretta un grande conforto che il bambino fosse costretto a scendere ogni mattina ed ogni pomeriggio col padre, al loro negozio di panni, e che rimanesse là otto ore a misurare castoro o lanetta, a salire sulle scalette, ad imparare come si tengono i registri: in quelle ore si stava in pace, ma quando Gaetanino ritornava, metteva a soqquadro mezzo mondo per ripagarsi del tempo in cui aveva dovuto essere quieto, obbediente e attento.
Il babbo, che possedeva solo quel rampollo maschile, era con lui un po’ di maniche larghe, anche perché molte marachelle di Gaetanino erano ricoperte dalla pietosa sorella, e la famiglia viveva beata e tranquilla, nonostante quel monello.
Qui il racconto sarebbe finito, se non vi fosse il difetto di Lauretta. Difetto piccolo, una macchiolina d’inchiostro sulla manica di un vestito chiaro, un’ombra leggiera, una inezia…

Ella era paurosa. Grande, grossa, allegra… ed aveva paura. Aveva paura dei ladri, delle ombre, degli spiriti, del monacello: fantasma che pei suoi gusti particolari, ha preso domicilio fisso a Napoli, dove si diletta a tormentarne i pacifici abitanti.
Essa aveva paura specialmente di notte. Prima di andare a letto passava una minuta ispezione per tutta la casa, tanto per vedere se ogni chiave avesse fatto il suo bravo compito, se i catenacci fossero debitamente scivolati negli anelli, se le sbarre degli anelli incastrassero bene. Poscia, col lume in mano, che rischiarava la sua fresca e graziosa figura di napoletanina, andava rovistando ogni divano, ogni tavola e financo la credenza.
Tutto questo accompagnata dall’immancabile Gaetanino, che si divertiva a cacciarsi sotto i mobili, lui che di nulla aveva paura, a far capriole negli angoli oscuri: ogni tanto poi egli dava in un comico grido di terrore, quasi avesse visto la befana, e la sorella scappava, spaurita! La povera Lauretta non andava a letto senza avere esaminata anche la sua stanzetta e talvolta la punta di uno stivalino che spuntava sotto la frangia della coltre, le sembrava la scarpa di un ladro che ivi fosse nascosto. E quando la notte non poteva dormire, sebbene avesse chiuso la porta con somma cura, le sembrava non di rado che qualcuno mettesse pian piano la mano sulla maniglia e la girasse con precauzione; allora si raggomitolava nel lettuccio e tutta tremante toccava con le dita una santa imagine del Carmine, che teneva sotto l’origliere.
Di giorno il timore diminuiva. La piena luce faceva svanire le ombre notturne, i fantasmi, i vampiri spaventosi: ogni mobile era illuminato, ogni cantuccio chiarissimo ed ella andava allegra e svelta per la casa, canticchiando il ritornello popolare in voga: però se doveva prendere un bicchier d’acqua, mentre immergeva il cristallo nel secchio, ella, quasi senza volerlo, spingeva lo sguardo nella oscura profondità del pozzo e rimaneva li, attonita, sgomenta, credendo veder salire per quell’angusto passaggio un mostro terribile.
Ogni tanto, poi, temeva di morire asfissiata, avvelenata, assassinata; allontanava i fiori odorosi dalla sua camera e ne chiudeva l’uscio per non lasciarvi penetrare il puzzo del carbone; analizzava il fondo delle cazzeruole e dei tegami per isnidarvi il tristo verderame; non mangiava mai confetti colorati.
Se le doleva un dito, credeva di avere il tetano; se infieriva un morbo, al primo disturbo era spacciata. Contava gli spilletti e gli aghi del suo agoraio, sospettando sempre di averne inghiottito uno.
Faceva sforzi sovrumani per liberarsi da questo difetto, per diventare coraggiosa.
Ma intanto leggeva avidamente certi libri tenebrosi, pieni di spettri, prestatili da una amica; prestava un orecchio curioso ed attento agli spettacolosi racconti di spiriti, che la serva del primo piano confidava in tutta segretezza a quella del terzo, dalla finestra della cucina; le apparizioni che tentarono sant’ Antonio nel deserto, cantate con voce nasale dal vecchio ed asmatico cantastorie, non le parevano indegne di fede.
Non poteva guarire, no. I proponimenti svanivano quando veniva l’oscurità o quel furfantello di Gaetanino si dava il matto gusto di gironzare per la casa con la camicia da notte in testa, ed una gonnella bianca della mamma. Nè più, nė meno, il monacello!

Lauretta lavorava volentieri coll’ago torto, ed eseguiva meravigliose trine, merletti dai fantastici disegni, con una facilità ed una destrezza da maestra. Quando aveva compiuto uno dei suoi graziosi e leggeri lavori, lo guardava con occhio di compiacenza e lo serbava con un zinzino di orgoglio nel cassetto della biancheria, dove i mazzetti dello spigo e le foglie secche di rose profumavano i bellissimi fazzoletti di battista, e le pile di camice ricamate.
Lauretta con le agili dita, con la punta sottile, lucida, acuta dell’ago torto, creava i mosaici, i ghirigori, i gigli, le rose, sottomettendo il filo forte e resistente, amando quello strumentuccio di acciaio, il grosso gomitolo di filo che si svolgeva egualmente, il lungo bandolo che non formava mai un’arricciatura, nè un nodo, amando tutto quel suo lavoro in cui metteva quasi una parte del suo cuore.
Una sera il babbo, per premiare Gaetanino di una buona relativa condotta, lo condusse al teatro. La mamma andò a letto e Lauretta li attese. Per non lasciarsi prendere dalla paura, si mise a lavorare alacremente, senza alzare gli occhi. Poi la stanchezza la vinse e voltò il capo due o tre volte, presa dal sonno; infine appoggiò le braccia al tavolino e si addormentò.
Il domani, che era domenica, non toccò il suo lavoro. Ma il lunedì mattina riprese il lavoro, spiegò la trina, ravvolse il filo tutto svolto e volle incominciare. Guardò l’ago torto… lo guardò per due o tre minuti secondi, con gli occhi sbarrati, il volto pallido, il sangue tutto al cuore. Un lampo le traverso il cervello, pensò, si ricordò e dando in un acutissimo grido di spavento, svenne. Dopo che il babbo fu accorso al rumore, che l’ebbe rialzata, che le ebbe bagnate le tempie, Lauretta rinvenne.

Dopo che l’ebbe rialzata, che le ebbe bagnate le tempie…

Non si lasciò sfuggire una parola; disse che era stato un capogiro, un turbamento momentaneo, che si sentiva meglio. Infatti raccolse il suo cestino e con passo ancora barcollante andò in camera. La mamma la guardò fare, domandando a sè stessa la ragione di un caso cosi strano; e vedendola seduta presso il letto, pallida ancora, ma calma e quieta, ritornò di nuovo alle sue faccende.
Dopo un momento Lauretta piangeva col capo sepolto nei guanciali.
Nientemeno aveva ritrovato il suo ago torto senza punta! Fatto gravissimo. E non ne mancava solo la punta, ma pure un bel pezzetto di esso, in modo che la parte assente rappresentava uno spillo acuto, sottile, senza testa. L’ago torto, ossia il frammento che n’era rimasto, appariva spezzato, un poco incurvato: uno spettacolo evidente ed orribile per la fanciulla.
Mettete le paure infantili di cui non aveva potuto disfarsi, il ricordo di aver lavorato la sera del sabato, di essersi addormentata con l’ago torto fra le mani ed il capo sulle braccia… poi nessuno toccava il suo ago torto… Insomma, Lauretta credette per fermo di avere inghiottita la punta dell’ago torto e si persuase di dover morire dopo pochi giorni, dopo poche ore forse.
Non ne parlò a nessuno, non pianse, celò il suo affanno, cercò di sorridere. Ma vi riusci male, franca come era. Doveva morire, morire. Il pericolo era là, presto sarebbe accaduta la perforazione del polmone, del cuore, dello stomaco, ed allora addio vita!
Passò la notte in veglie, soffocando i singhiozzi. Al suo male non vi era rimedio. Lauretta non discuteva neanche, non ammetteva che l’avere inghiottita quella punta di ago torto non producesse la morte. Eppoi non aveva inteso ella, due volte nella giornata, una trafitta dolorosa, verso l’alto del petto, sotto la gola?
Era lui che manovrava, che non aveva dimenticato il suo antico mestiere di andare avanti, indietro, avanti, indietro, attorno, attorno e che ora lo continuava in corpo alla signorina Lauretta. Servo tristo ed infedele! Averlo ammirato tanto e avergli voluto bene come ad un essere vivo, non averlo mai trascurato, averlo conservato sempre nella polvere di cipria per sottrarlo alla ruggine, averlo ripulito con la carta velina prima di toccarlo! Tante cure, tanto affetto sprecato per un ingrato che, giunto al momento opportuno, ammazzava quietamente la sua padrona.
Passavano le ore e la follia di Lauretta cresceva. Quel mal di capo, quelle punture nel cervello la facevano delirare; in quattro giorni deperì a poco a poco. Era smorta, non si reggeva sulle gambe, aveva la orribile febbre della paura. Fu un allarme generale. Non l’avevano vista mai ammalata, neppure malinconica. Ora era là abbattuta, silenziosa, senza un sorriso. Il padre le comprava i dolci, i fiori; la madre la baciava, la interrogava; nulla. Babbo e mamma si disperavano.
Chiamarono un medico. Scrollò il capo, trovò una debolezza grave, uno sfinimento generale. La madre piangeva in silenzio, il babbo era torvo, Gaetanino guardava la scena con viso attonito; non ci capiva nulla. Vedeva solo che la sorella era ammalata, vedeva l’affizione dei genitori, ed avrebbe voluto aiutar Lauretta, la sorella che gli voleva tanto bene, ma non trovava nulla per sollevarla dacchè i suoi ultimi soldi li aveva spesi in certi ingegnosi balocchi.
Però con l’istinto dei bambini, che non li inganna mai, le fece il sagrifizio delle sue impertinenze. Non corse, non saltò, non gridò: camminava in punta di piedi, si sedeva quieto in un cantuccio ed ogni poco andava nella camera di Lauretta, la guardava, restava immobile un tantino, senza parlare, e poi se ne ritornava al suo angolo solitario. La casa era un mortorio; una fanciulla ammalata, un fanciullo che non scherzava più.
Due giorni dopo, volle il caso che sollevandosi sul letto, alla Lauretta sanguinasse alcun poco una gengiva e che ella sentendosi in bocca un sapore strano e dolce, portasse il fazzoletto alle labbra, ritirandolo leggermente macchiato di rosso. Da quel nomento essa disperò della sua vita; non vi era più nulla da sperare. Quindi una febbre violenta, fortissima, il delirio, quasi l’agonia…
Nella mezza luce del crepuscolo, Lauretta vide una figura ferma innanzi alla porta. Ella chiese con voce lieve:

– Chi è?
– Io, Gaetanino – le fu risposto, ed il fanciullo si accostò.
– Ah! sei tu? Non sei andato al negozio?
– No, Lauretta; ho pregato il babbo che mi lasciasse a casa; volevo stare un poco con te. Egli prese uno sgabellino e lo mise ai piedi di lei, vi si sedette, appoggiando il capo sulle ginocchia della sorella come faceva quando era piccino piccino, e la sorella gli narrava le storielle per tenerlo buono. La fanciulla si mise a giocare coi capelli del bambino; egli era triste.
– Perché sei malinconico, Gaetanino? Non vedi che mi affliggi maggiormente?
– Son dispiacente perché sei ammalata, Lauretta, e non ho più voglia di scherzare. Quando vuoi guarire, Lauretta mia bella, bella?
Egli le diceva queste cose con a voce affettuosa e carezzevole dei bambini compiacendosi a ripetere un dolce diminuitivo.
– Non lo so, Gaetanino; non so quando guarirò… Ma dimmi, tu vuoi bene alla mamma?
– Quanto a te, carina.
– E al babbo?
– Lo stesso.
– Vorrai loro sempre bene? Non sarai più tanto vivace? Non li farai più arrabbiare?
– Perchè mi dici questo, Laura? Non vi sarai sempre tu per farmi perdonare, per difendermi, per farmi essere tranquillo?
– Io non ci potrò esser sempre, Gaetanino; io potrò andarmene – disse ella sottovoce e la mano che ne sfiorava i capelli, si fermò sulla fronte del fratello.
– Dove vuoi andare, Laura, dove vuoi andare senza noi? – le chiese il bimbo con voce spaurita.
– Nulla, ho scherzato, non ci pensare.
E stettero un momento in silenzio.
– Ascolta, Lauretta, voglio dirti una cosa. Mi dai retta?
– Si, si, parla.
– Sai, non l’ho fatto per cattiveria, ma piuttosto per capriccio, perchè non avevo di meglio… tu non mi sgriderai molto, eh?
Ella s’era già distratta, credeva che il fratello volesse parlare di qualche piccolo guasto, che egli spesso confessava senza esserne richiesto: un bicchiere rotto, un oggetto perduto. Ella non lo udiva più.
– Vedi, Laurina, io non pensai allora che ti sarebbe dispiaciuto, quindi… anche babbo quel giorno mi aveva tolti i due soldi quotidiani ed io non sapevo che fare… Aggiungi che Peppino, il figlio del chincagliere, che ha la bottega accanto alla nostra, mi aveva detto che quel giuoco della calamita era bello. Volli farlo anche io: egli mi donò la calamita… io feci una navicella di carta… però…
– Che dici? Io non t’intendo! – esclamò la fanciulla, imbrogliata da quelle frasi, in cui si attortigliava il fratello per scusare la propria colpa.
– Se ti arrabbi, non ti dico più nulla, sorellina.
– No, no, io non vado in collera; soltanto ti ho detto che non capisco.
– Aspetta, aspetta, ti spiegherò io. Fuggì in un camerino oscuro dove riponeva i suoi teatrini e le sue cianfrusaglie, ritornò subito, nascondendo dietro il dorso un oggetto.
– Guarda, io avevo fatta la navicella e l’avevo messa nell’acqua di quella vasca grande, che abbiamo sulla terrazza; ma per farla attirare dalla calamita ci voleva… un pezzo di acciaio o di ferro…
– Un pezzo di acciaio o di ferro – ripetette macchinalmente Lauretta, prestandogli un’ansiosa attenzione.
– Allora in questa piega qui della barchetta, non avendo altro, ci misi… ma non mi sgriderai cosi forte da far udire alla mamma! Ci misi la punta del tuo ago torto!
Misericordia divina! Era dunque stato un sogno, un triste sogno? Pare; perché la navicella di carta, parto dell’ingegno architettonico-navale di Gaetanino, portava superbamente al suo bompresso un rostro di acciaio fino ed acuto…
Gaetanino si ricorda di essere stato mai abbracciato con tanta frenesia, coperto di tanti baci furiosi; egli non ha mai vista la sorella cosi allegra, cosi fiorente, così rosea di piacere.

Foria – Via storica di Napoli.
Castoro – Tessuto pesante di lana pesante, morbido, adoperato per gli abiti con effetto lucido-bagnato.
Origliere – Cuscino.
Ago torto – Uncinetto.
Zinzino – Quantità piccolissima, parte minuscola.
Spigo – Lavanda.

Tratto da: Giornale per i bambini.
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Matilde Serao, nata il 7 marzo 1856 a Patrasso (Grecia) e morta il 25 luglio 1927 a Napoli (Italia), è stata una giornalista e scrittrice italiana di origine greca da parte della madre. Fu lei, con il marito Edoardo Scarfoglio, la fondatrice del quotidiano Il Mattino nel 1892, prima di lanciare il suo quotidiano Il Giorno.