LA TORTURA NEL SECOLO PASSATO


‘Articolo del 1862’


Le pene consuete erano l’infamia, quasi non sia questa una manifestazione morale, indipendente da comandi o da atto materiale; i lavori publici nelle fortezze, oppure a sfangare i porti e spazzar le città, trascinando le catene in mezzo al lusso ed ai passeggi; il remar sulle galere, al qual uopo ogni anno la Lombardia consegnava molti rei a Venezia; le battiture ad arbitrio, il marchio, la scopatura, la morte. Il padre Labat racconta che in Italia, oltre la forca, usavansi ne’ supplizii la mazzuola e la mannaia. Colla prima, messo il condannato sul patibolo con mani, piedi e ginocchia avvinte, e gli occhi bendati, il boia gli dava d’un maglio sul capo, e così stordito lo sgozzava. La mannaia era un telaio con scanalature ai lati, entro le quali scivolava un ceppo pesante, con un fendente, che cascando sul collo del paziente, facevagli balzar la testa. Voi ravvisate qui da secoli usata la ghigliotina, della cui invenzione ci usurpano il tristo vanto i Francesį.

La morte infliggeasi in modo diverso secondo le persone e i delitti, e i nobili aveano il privilegio di essere decollati con un certo fasto. Allorchè Piemontesi e Francesi, nel 1746, invasero la Lombardia, trovarono alcuni che li favorirono, sicchè al pronto ritornar degli Austriaci, quei che non potettero fuggire vennero castigati. Fra questi il conte Giulio Biancani, feudatario d’Azzate, questore del magistrato ordinario, e già segretario del Senato, ebbe mozzo il capo sul corso di Porta Tosa il 26 novembre, vestito in abito talare, gran cappa da lutto, il cui strascico era sorretto da un paggio, pure a scorruccio: precedevano e seguivano, oltre il satellizio, due squadre di fanteria, due di cavalleria; una di queste guardava il palco coperto a gramaglia (1).

In altri casi la morte veniva esacerbata da squisiti tormenti, i quali sarebbero bastati a mostrare come per sè stessa non fosse giudicata abbastanza esemplare. Ognuno ricorda troppi fatti atroci; e per dire di uno, quando i Napoletani, nel 1585, uccisero il Genoino eletto del popolo, cinquecento persone furono arrestate, e di esse impiccati poi squartati trentasei, quattordici anche tanagliati, ad alcuni mozze le mani, due alla frusta, settantuno alle galere; di dodicimila persone che perciò fuggirono, trecento ebbero il bando, pena la vita se presi, e grosse taglie a chi gli uccidesse. Dappoi «S. M. C. ha posto fine a questa giustizia con l’indulto».
Lo racconta il residente di Venezia a Napoli e soggiunge: «Questa così esemplar giustizia di tanti miseri, molti di loro anche non meritevoli del supplizio havuto, ha posto tanto terrore nel popolo, che, se ben non haverà potuto accrescere negli animi delle genti la poca loro buona disposizione verso questo governo regio, haveranno però questi così fatti spettacoli atterrite le menti e le lingue di maniera, che non credo che siano per qualsivoglia accidente per pensar a novità di alcuna sorte» (2).

(1) Un cerimoniale preciso regola fra i Turchi i supplizii, come tra noi gli onori. Il più onorevole è l’essere strozzato con una corda d’arco, e serbasi ai grandi dell’impero; infame è l’esser decapitato e peggio la forca e il palo; s’impiccano i volgari, si strangolano gli ulemi e i militari; gli ufficiali civili e militari sono decapitati, e le loro teste esposte tre giorni con un cartello che ne indicano il nome e la colpa. Nessuno visita Costantinopoli senza questi orridi spettacoli; ivi la testa d’un visir o d’ un bascià da tre code si espone in un vassoio d’argento sopra una colonna di marmo, presso la seconda porta del serraglio; quella d’un bascià da due code, d’un generale o ministro, sovra un tagliere di legno sotto alla prima porta; davanti alla quale si gettano sul suolo quelle degl’inferiori. Le teste recise in provincia si salano e inviano a Costantinopoli.

(2) MUTINELLI, Storia arcana, II, 153 lettera, 20 dicembre 1585.

Soggiungeremo come la casa del principal reo fu demolita, ed erettovi un monumento con molti loculi, entro i quali furono collocate ventiquattro teste dei giustiziati per tal cagione.

Nè i supplizii colpivano solo l’assassino e il perduelle; e morte infliggevasi persino a chi non pagasse una multa. Nello statuto di S. Geminiano in Toscana quest’era stabilito per regola, e si ha da carte dello spoglio Strozzi nell’archivio di Firenze, che nel 1258 due persone furono colà per abigeato condannate in lire 30, che sarebbero ora 200 franchi, e non avendole pagate il giorno stesso, furono impiccate: e a chi fece da boia perdonaronsi lire 400 che dovea per condanna al Comune. Al tempo degli Sforza, i cavallari, cioè corrieri milanesi, aveano diritto di esigere alle stazioni cavalli pronti, sotto pena della forca; in segno di che nella soprascritta delle lettere stampavansi tre forche, Pio V papa fe’ rei di morte i negozianti che fallissero per propria colpa, massime se per trascuraggine e lusso. Si è, declamato contro gli appaltatori delle finanze in Lombardia; ma le cose procedevano assai peggio in Francia, dove i fermieri generali poteano tutto per punire il contrabbando, massime del sale e tabacco, e condannavano senza appello sin alla ruota e alla forca; e siffatti sussistettero fino al 1789.

E a chi pur s’ostinasse a imputare di barbarie l’Italia, ricorderem solo come l’amorevole e gentilissima madama di Sevigné, narrando, fuor di pericolo e di passione, le irrequietudini de’ Brettoni, e i modi con che erano represse nel gran secolo di Luigi XIV, scriva: «Nos paysans ne se lassent pas de se faire pendre». Tanto dimenticavasi la dignità di ciascun uomo, non derivatagli dallo Stato, dalla patria, dall’età, ma dalla natura di uomo, dalla santificazione di cristiano.

Quando Damiens ferì con un temperino l’osceno Luigi XV nel 1757, il popolo fu invaso da entusiasmo di furore, come altre volte di entusiasmo d’applausi e di statue per un re che non stimava. Allora si fe’ ricerca fra tutti i tribunali qual possedesse un più tormentoso metodo di torturare il reo. Parigi lo stirava al possibile, e lo gonfiava d’acqua, o rompevagli lentamente le gambe fra due tavole; Dieppe lo sospendeva con tanaglie per le unghie, o schiacciavagli le dita; così Rouen; Metz ficcava delle punte sotto le unghie; Besançon colle strappate lussava le ossa; Autun distillava olio bollente traverso a botti porose, che talvolta prendendo fuoco, bruciavano l’accusato; Avignone usava la veglia, scanno di legno, a punta di diamante, sulla cui cima appoggiavasi l’estremità della spina dorsale, donde veniva uno spasimo insopportabile, che rinnovavasi finchè il reo confessasse, il quale, intanto, dinanzi a un grande specchio vedeva tutte le contraffazioni del proprio viso. I medici chiamati a consulto, dichiararono che la più tormentosa era la tortura degli stivaletti, e Damiens la sostenne, fermo a ripetere di non avere complici. Condannato al patibolo, gli fu arsa a lento fuoco la mano, armata del coltello parricida, tanagliato per tutto il corpo, e stirato quasi un’ora da quattro cavalli in senso contrario; nelle piaghe gli venne colato resina, olio, cera e piombo liquefatti. Morto che fu dopo cinque quarti d’ora di supplizio, i suoi avanzi si bruciarono, e furono banditi in perpetuo suo padre, la moglie, il figlio; ai fratelli imposto di cambiar il nome; atterrata la casa ov’era nato.

E fin agli ultimi anni del secolo, sull’altura di Montfaucon, alle porte di Parigi fra i sobborghi di San Martino e del Tempio, stavano forche composte di travi piantate su sedici grossi pilastri, e alte da dodici metri, dove sospendeansi i condannati e v’erano lasciati, in modo che fin sessanta a un tratto se ne videro penzolare. Blakstone racconta che in Inghilterra il reo d’alto tradimento non vien condotto al supplizio a piedi o su carro, ma trascinato per la strada, solo ponendovi un graticcio perchè non batta la testa sulle pietre: appiccato per la gola, prima che spiri gli sono strappati i visceri e gettati al fuoco; allora gli si taglia la testa, e il corpo è diviso in quattro parti.

Dopo di ciò farà meno ribrezzo il sapere che nel 1763 una grida in Lombardia nomina dugencinquantasei bauditi cui nel 65 se ne aggiungono trecentottanta, che possono uccidersi impunemente, e se côlti saranno bollati e che nel Diutile de’ notari milanesi pel 1775 è inserita la tariffa delle competenze del carnefice per eseguire l’arte sua fuori di Milano; assegnando lire 126 per dar la morte con forca o ruota o decapitazione, oltre le giornate a lire 30 ciascuna; 84 per fustigazione, berlina, taglio della mano, bollo; 25 di più, qualora il condannato deva esser tratto a coda di cavallo; per la tavola su cui distenderlo per tal uopo, lire 18; lire 3 ogni paio di bisaccie da cavallo in cui ripor la testa o teste; e così via per la ruota, la colonna, le scale, la gabbia in cui espor una o più teste.

Perchè innoridite a questa enumerazione? Se la pena è un male inflitto a chi fece male, perchè vorrassi attenuarla? se è un esempio onde sgomentare, perchè non esacerbarla? Diffatti non è quella immanità che desti ribrezzo, bensì un sentimento ingenito di giustizia ricalcitra a questa separazione dell’atto materiale dal morale. Eppure quel sentimento è rintuzzato dall’ abitudine; e alcuni aneddoti potrebbero mostrare quanto esiguo conto faceasi del sangue.
A Roma l’estremo supplizio si eseguiva sulla Rupe Tarpea, poi verso il 1500 si cominciò a darlo sulla piazza di Ponte Sant’ Angelo; e in Campidoglio dipingevasi anche a capo in giù i maggiori rei. Certi delinquenti erano condannati a stare in berlina, a cavallo del leone di marmo delle scale del Campidoglio, con mitera di carta e il volto impiastricciato di miele, che attirava le mosche. I supplizii serbavansi pel tempo di carnevale, e procuravasi che, durante questo, si avessero torture ogni giorno, per isgomentare i delinquenti.
L’ arciduca Carlo, che fu poi imperatore e padre di Maria Teresa, per voto fatto mentre si trovava assediato in Barcellona, donò un ricco altare alla chiesa di Santa Francesca a Milano; e per manutenzione assegnò agli Agostiniani Scalzi quel che ricaverebbero, dal salvar ogni anno due condannati a morte; prezzo di sangue ch’essi trovarono sconveniente, e che fu mutato, in quanto? in soli cento scudi…

… All’ operetta Dei delitti e delle pene sta indelebilmente affissa l’idea dell’ abolizione della tortura, qual modo di scoprire la verità. Un ladro che vuol costringere altri a svelare nascosi denari; un marito offeso che dalla donna esige una rivelazione, minacciano, battono. È passione, è istinto, mentre la tortura opera egualmente, ma per raziocinio. Se una colpa è denunciata, fu dunque commessa: se fu commessa, v’è un reo: se uno è imputato, devon esservi titoli a suo carico se esso nega, defrauda la società del diritto che essa ha di conoscere il delinquente: potrò dunque astringerlo a confessare, come si astringe a consegnar un reo. Anche oggi in questo vantato meriggio della civiltà, noi pretendiamo che il giudice deva trarre la verità dall’ accusato, e questo accusar sè stesso; laonde ci tocca lo scurrile spettacolo della maestà del giudizio compromessa ne’ costituti e ne’ pubblici dibattimenti contro la vulgarità e l’insolenza d’un ribaldo, che si esalta di potere sbraveggjar un magistrato, e di meritare le ovazioni della ciurma colla baldanzosa menzogna, alla quale educherà una demoralizzata plebaglia (1).

Sola finora l’Inghilterra repudiò l’interrogatorio del reo contro lui stesso, il quale rimane là silenzioso in faccia alla giustizia, udendo provare il suo delitto dai testimonii. Noi, generazione di qualità medie, oggi ci fermiamo a mezzo della via, che i nostri padri con logica deliberazione battevano sin alle ultime conseguenze. Se è giusto interrogare il reo, se la sua confessione è il miglior mezzo di certezza, perchè non istrappargliela con qualunque sia modo? Voi sapete ch’è naturale ch’ egli mentisca: dunque dovete obbligarlo a non mentire. Il giudice trovasi alle prese coll’accusato dunque moltiplicherà i mezzi morali, lo farà giurare di dir il vero, lo stancheggerà con interrogatorii arguti, capziosi: infine adoprerà il tormento. Quanti hanno confessato, dopo aver negato lungamente! Dunque si insista, si esacerbi.

Il sofisma non si produce mai a fronte scoperta. Rinvolgetelo di formole giuridiche o di frasi retoriche; ed abbaglierà, e contenterà quel démone che si chiama pubblica opinione.

(1) Ho aggiunto queste parole sotto la desolante impressione di due sconci processi agitantisi (dicembre 1861) nella patria del Beccaria. Nell’ uno, molti ribaldi, forse senza concerto, ma incoraggiati dalla debole opposizione trovata a una prima e concertata dimostrazione, s’ avventano sopra una manifattura per incendiare e saccheggiare. Coltine moltissimi, nel pubblico interrogatorio ostentano eroismo, imbaldanziscono contro il magistrato fin a obbligarlo a parlare in dialetto, e ottengono un trionfo nella posizione loro dai correi incatenati e dagli amici ascoltanti e plaudenti. Nell’altro processo, un bassissimo assassino confessa con cinismo la morte data calcolatamente a molte persone e il giudizio esita davanti a un’impudenza che somiglia a follia; e il vulgo urla a morte, e bisogna la forza per sottrar l’assassino a un assassinio. Costui, freddissimo in tutto il giudizio, impallidisce e sviene quand’ ode pronunziare la pena di morte. Contemporaneamente un processo consimile si agita in Francia dal tribunale dell’Ain, e colà pure la pubblica indignazione prorompe in grida e minaccie di morte contro l’ imputato Dumollard.

CESARE CANTÙ.

Questo interessante squarcio di storia è tolto al nuovo volume di CESARE CANTU’: Beccaria e il diritto penale, pubblicato teste dal Barbéra di Firenze. È una preziosa e completa monografia su quel grande scrittore, e la sua celebre opera, sullo stato della legislazione a quel tempo, sui progressi fatti di poi, sugli effetti del libro Dei delitti e delle pene, sull’ entusiasmo dei contemporanei e l’ammirazione dei posteri. In questo libro tutta la storia italiana, specialmente lombarda, del secolo passato ti passa dinanzi: e storia diciamo nel più bel senso della parola, perchè è storia civile che parla delle leggi e dei costumi e dei ministri e degli scrittori e del popolo. Il Cantù non può a meno di schizzare anche a proposito dei morti un po’ della sua bile per i vivi, di fare allusioni pungenti al presente, di schernire l’opinion pubblica; ma questi difetti, e qualche altro, si fanno perdonare grazie a quello stile vivace e facile, ch’è proprio del Cantù, e che rende piacevoli anche al grosso pubblico i più gravi argomenti…

(T.)

Stralcio di un articolo da: Museo di famiglia: rivista illustrata pag. 382
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