LA STORIA DI DUE GATTI

I.

Il gatto Russo

Lo zio mio era stato in Crimea, e di quella campagna parlava volentieri, come parlava volentierissimo della compagnia di bersaglieri che egli comandava. Quei soldati li chiamava «figliuoli» e li amava come se essi fossero stati davvero suoi figli, e quando uno veniva a visitarlo era una festa per il vecchio colonnello in ritiro.
Una sera, dopo avere avuto appunto una di quelle visite gradite che lo mettevano di buonumore, mi prese sulle ginocchia, e pregato e ripregato mi raccontò quanto segue:
Alla fine di agosto del 1835, quando eravamo sotto Sebastopoli per dare a quella fortezza l’ultimo assalto, faceva un bel caldo nelle trincee, perchè i russi non si stancavano mai di molestarci. Di giorno il cannoneggiamento non cessava mai, e la notte non ci lasciavano mai dormire.
In ogni scaramuccia in cui mi trovavo impegnato con i miei, mi veniva fatto di vedere un russo, che mi pareva un soldato semplice, ma che valeva quanto tre uomini. Egli era grosso e robusto, più alto di me tutta la testa e bellissimo di viso; egli si batteva con un coraggio da leone. In ogni colpo che vibrava pareva che ci mettesse tutta l’anima sua, e si batteva davvero «per Iddio e per lo czar» come dice l’inno militare russo. Benchè quel colosso si spingesse sempre dove ferveva la mischia, pure pareva che fosse intangibile, perchè non era mai ferito. Un giorno ci trovammo l’uno davanti all’altro, e mi avrebbe mandato all’altro mondo vibrandomi un colpo sulla testa con la canna del suo fucile, se io non fatto prontamente un salto indietro.

Quando fui al sicuro vidi che egli ritirandosi si metteva la mano al petto come se fosse ferito. Io però non l’aveva colpito. Ripensando a quella mossa, mi parve che indicasse piuttosto la premura di accertarsi se aveva sempre sul petto una cosa che vi teneva nascosta, e difatti dopo mi accorsi che avevo ragione.
Dopo pochi giorni i russi ci attaccarono di nuovo appunto sul far del giorno, e fra noi s’impegnò un vivo combattimento nel quale restammo vincitori, e quando il fumo si fu un poco diradato non vedemmo davanti a noi che un russo solo, a una trentina di passi di distanza, che camminava sopra i cadaveri dei suoi compagni. I miei soldati stavano per fargli una scarica contro e fargli pagare con la morte la sua crudeltà, quando io li trattenni e mi avanzai solo verso di lui riconoscendolo per il colosso che già aveva veduto altre volte.
In quel momento egli cercava di tirar fuori da un ammasso di cadaveri un suo compagno ferito. Quando mi scorse rivolse su di me sguardo truce, ma io abbassai la sciabola per mostrargli che non avevo intenzione di fargli alcun male, e presi per i piedi il suo compagno affinchè egli se lo potesse caricare sulle spalle. Ad un tratto il gigante si rasserenó e lo sguardo che egli posò su di me era pieno di gratitudine.
— «Eto moi edinstreni brat!» (è il mio unico fratello) mi disse con voce commossa, e quelle parole io le sentii risonare nell’orecchio per più giorni.

Una settimana dopo avvenne l’attacco del giorno 8 settembre. Mi ricordo bene di quella mattina. Noi si stava a rango, silenziosi, ascoltando il rumore dell’assalto francese alla torre di Malakoff e attendendo il segnale di avanzarsi. Io credo che quegli ultimi cinque minuti sieno stati i più lunghi che abbia passati in vita mia, e quando ci giunse l’ordine di andare avanti ed io potei trasmetterlo ai miei bersaglieri, mi sentii togliere come una pietra di sul petto.
Mi parve peraltro che non decorresse un momento dal nostro avanzarsi fino a quando sentimmo fischiarci intorno le palle. Dopo mi parve un sogno tremendo, un sogno di morte. Vedevo gli uomini barcollare come ubriachi e cadere chi supino, chi bocconi.
La prima cosa di cui mi ricordo bene, dopo quella confusione, fu che avevo vicino una batteria e c’era un povero russo che mandava gli ultimi aneliti con la testa appoggiata al timone di un affusto. Allora cessò ad un tratto in me la febbre di combattere. Alzai con amore la testa del povero ferito e gli bagnai le labbra con la mia fiaschetta. Egli aprì gli occhi smarriti, che già avevano lo sguardo vitreo della morte.

– Come va? – gli domandai.
Sentendo dire quelle due parole in russo il povero ferito spalancò gli occhi e mi rispose:
– Padre, per me è finita, ma voglio mostrarti che ti sono grato per la bontà dimostrata a me ed a mio fratello.
Nel dir così messe la mano dentro il petto dell’uniforme e tirò fuori un gattino bianco assonnato e macchiato di sangue.
– È la sola cosa che mi dispiace di lasciare ora che mio fratello è morto – disse. — L’ho portato qui al fuoco affinchè morisse con me, ma Iddio ha stabilito diversamente. Vuoi esser buono verso il mio gattino quando io non ci sarò più?
Accennai di sì col capo perchè non potevo parlare, e gli strinsi la mano. Le dita già irrigidite del moribondo strinsero le mie per un momento, poi la sua testa ricadde all’indietro ed era morto.
Inutile dirvi che il gattino venne con me in Italia e che gli volli grandissimo bene. Lo avevo chiamato Malakoff


II

Il gatto Inglese

Era presente a questa narrazione un signore inglese che abitava un quartierino al primo piano della villa da più anni e ogni dopo pranzo soleva salire per giocare una partita di whist con lo zio. Il signor Taylor era un vecchio marinaro e se la diceva assai col vecchio soldato.
Sentendo narrare la storia del gatto russo gli venne la che voglia di narrare a sua volta la storia di un altro gatto.
Ero imbarcato sopra un legno da guerra e avevo un compagno per nome Tom, che amavo immensamente.
Prima di partire per una compagna di esercitazione navale passeggiavamo un giorno vicino al porto di Liverpool quando incontrammo un omaccione stracciato, che trascinava dietro a sè un gattino con una fune al collo e lo tormentava dandogli degli strattoni.
Egli era seguito da una folla di ragazzi crudeli i quali riderano a crepapelle. Io vidi Tom ad un tratto doventare rosso come il fuoco.
– Che barbarie! – gridò e avanzandosi verso l’omaccione lo fissò arditamente in faccia.
– Perché tormentate quella povera bestia?
– Perchè v’immischiate di ciò che non vi riguarda?
– Tenete la lingua al posto se no ve la strappo di bocca!
– Vorrei vedere anche questa!
– Provatevi.
– Devo provarmi? Vi assicuro che ci avrei un gusto matto – e senza aggiungere una parola gli dette un pugno in fronte e lo mandò a rotolare per terra.
Un altro si sarebbe allontanato senza curarsi d’altro. Tom invece che era un giovane focoso, ma pieno di cuore, si accostò al caduto per soccorrerlo, ma questi fece un lancio e tento di prendere alla gola l’avversario. Tom allora gli assestò un secondo colpo nella bocca e l’omaccione si allontanò brontolando, seguito dalla folla. Allora Tom liberò il gattino e lo portò a bordo dove fu festeggiatissimo dai nostri marinari.
Nel nostro viaggio il gatto non si moveva mai dalla cabina di Tom e lo seguiva come un’ombra quando comandava gli esercizi e quando era di guardia.
Una volta, durante quella campagna si messe un mare fortissimo che ci ruppe l’albero di maestra e ci ridusse in tale stato il bastimento da far decidere il comandante ad abbandonarlo, dopo aver fatto discendere stato maggiore ed equipaggio nelle lance.
Ad un tratto, mentre eravamo tutti occupati a portar via le cose indispensabili e care sentimmo miagolare pietosamente il gatto.
– Compagni – dissi – per l’amor di Dio facciamo attenzione da che parte viene quel grido, perchè scommetto che Tom è in pericolo.
Tutti aguzzammo la vista e vedemmo infatti Tom che lottava disperatamente con le onde per acchiappare una lancia e il gatto accucciato sulla sua spalla che chiedeva aiuto come un cristiano. Noi soccorremmo il compagno.
Il gatto lo aveva salvato come Tom aveva salvato lui.

Forese

Tratto dal Giornale per bambini – 1885
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