La prostituzione sacra a Roma

Di Cesare Lombroso, Guglielmo Ferrero

Roma. Prostituzione sacra. Anche in Roma la prostituzione fu oggetto di un culto. Il più antico tempio pare essere stato quello di Venere Cloacina (1), intorno a cui accorrevano ogni sera le cortigiane a cercar fortuna, riservando parte del loro salario per offrirlo alla Dea.
Il tempio di Venere Volupia (2), nel decimo quartiere v’attirava i dissoluti dei due sessi. Il tempio di Venere Salacia o Lasciva era visitato colla massima devozione dalle cortigiane bramose di perfezionarsi nel mestiere; il tempio di Venere Lubenzia o Libertina era fuor delle mura in mezzo ad un bosco che prestava loro la sua ombra propizia.

(1) Cloacina, la dea etrusca associata all’ingresso della rete fognaria, fu successivamente identificata con la dea romana Venere per ragioni sconosciute, secondo Plinio il Vecchio.

(2) Voluptas (dal latino “lussuria”, “godimento”, “godimento”) è la personificazione della concupiscenza della vita e del desiderio sessuale nella mitologia romana. – Legata a Volupta era Volupia, la dea del benessere, il cui tempio era presso la Porta Romanula. Non è chiaro se i due siano equivalenti o se siano concetti diversi.[3] In ogni caso, il culto di Volupia era antico, poiché nel suo tempio si trovava la statua di Angerona, che Plinio il Vecchio riferisce al nome segreto di Roma.

Riporta Strabone nella sua Geografia che il famoso tempio di Venere Ericina in Sicilia era ancora ripieno di femmine addette al culto della Dea e ricchissimo di offerte erotiche: le meretrici offrivano le insegne o gli arnesi della loro professione: bionde parrucche, pettini, specchi, cinti, spilli, calze, fruste, sonagli ed altri oggetti numerosi i quali caratterizzavano gli arcani del mestiere: i loro amanti offrivano chi la lampada stata testimonio della sua felicità, chi una torcia e una leva che gli avevano servito a bruciare e a sfondare la porta della sua amica; la maggior parte portava lampade itifalliche e voti priapici.

A Roma e nelle provincie alle oscene feste priapiche partecipavano le cortigiane e le donne oneste. Solo distintivo delle femmine oneste dalle dissolute era il velo, dietro cui il pudore si credeva sicuro. Spesso le dorate corone o le ghirlande non si ponevano sul capo al Dio, ma sospendevansi al pene. Cingemus tibi mentulam coronis ! grida un poeta dei Priapi.

D’altra parte questo culto comprendeva quello del Dio Mutino, Mutuno o Tutuno, che non differiva da Priapo che nell’atteggiamento in cui era rappresentato: in luogo d’essere ritto, sedeva.
Col suo culto si perpetuava in Roma la forma più antica della sacra prostituzione. Le giovani spose erano guidate davanti all’idolo prima di andare dal marito, e sedevano sopra le sue ginocchia, come per offrirgli la propria verginità. In celebratione nuptiarum, dice Sant’Agostino, supra Priapi scapum nova nupta sedere jubebatur.
Lattanzio sembra accennare che non si limitassero ad occupare soltanto questo seggio. Et Mutinus, scrive egli, in cujus sinu pudendae nubentes praesident, ut illarum pudicitiam prior deus delibasse videatur.
Questa libazione, insomma, della verginità era talvolta un atto reale.
Maritate una volta, le donne che volevano vincere la sterilità, tornavano a visitare il nume, il quale ricevevale ancora sopra le ginocchia e le rendeva feconde.
Racconta Arnobio osceni particolari di questo sacrifizio. Etiamne Tutunus, cujus immanibus pudendis, horrentique fascino restras nequitare matronas, et auspicabile ducitis et optatis?

In Roma però questo culto scaduto era nascosto all’ombra d’una cappella, dove il pubblico disprezzo aveva relegato l’infame Dio Muitino. Lo distrusse Augusto; ma il culto era tanto radicato nei costumi del popolo, che convenne rialzarne l’edicola nella campagna di Roma e soddisfare così i giovani mariti e le donne sterili che vi si recavano velate dalle più lontane terre d’Italia.

Pertunda, che Sant’Agostino preferiva chiamare il Dio Pretondo (che batte il primo), portavasi nel letto nuziale, e vi prendeva talora, secondo Arnobio, una parte sì delicata come quella del marito: Pertunda in cubiculis prosto est virginalem scrobem effodientibus maritis. Era anche questo un avanzo della prostituzione sacra, quantunque la Dea non ricevesse in sacrifizio la verginità della sposa, ma aiutasse lo sposo ad immolarla.

Il culto di Iside anche nei tempi più civili non era che una forma di prostituzione. Il tempio ed i giardini erano asilo agli adulteri travestiti con robe e veli di lino, a cui i sacerdoti servivano di lenoni, incaricandosi di tutti i negozi amorosi, delle corrispondenze, degli appuntamenti, dei traffici e delle seduzioni.

Prostituzione civile. – L’immensa diffusione della prostituzione civile a Roma è dimostrata dalla sinonimia così abbondante che ha fatto credere perfino a una suddivisione delle prostitute in caste ben più numerose che in realtà non fosse, per quanto certo superassero le nostre:

Le alicariae o le fornaie erano donne da trivio che bazzicavano dai fornai, specialmente da quelli che vendevano certe focaccie di fior di farina, senza sale e senza lievito, destinate alle offerte di Venere, Iside, Priapo e d’altri Dei o Dee, chiamate coliphia e siligines, che rappresentavano gli organi sessuali della femmina e dell’uomo.

Le bustuariae vagavano di notte intorno alle tombe (busta) ed ai roghi e compievano talvolta l’ufficio di lamentatrici dei morti.

Le casalides o casorides o casoritae erano prostitute dimoranti in tuguri (casae), da cui ebbero il nome; questo nome significava anche in greco la cosa stessa, xmoảUPX 0 xadipis. Le copae o tavernaie erano le donne delle taverne e delle osterie. Le diobolares o diobolae erano vecchie estenuate che non domandavano più di due oboli, come indica il nome loro. Plauto, nel suo Penulo, dice la prostituzione delle diobolarie non appartenere che agli infimi schiavi o agli uomini più vili (servulorum sordidulorum scorta diobolaria).

Le forariae o foranee erano fanciulle venute dalla campagna per prostituirsi in città. Le galline o pollastre erano quelle che andando ad appollaiarsi dappertutto, rubavano quanto loro cadeva tra le mani: lenzuola, lampade, vasi e perfino dei penati.

Le famosae erano patrizie, madri di famiglia e matrone, che non si vergognavano di prostituirsi nei lupanari per soddisfare brame disoneste, per acquistarsi un ignobile peculio, dispensato poi in sacrifizi alle divinità predilette. Le junicae o vitellae e le juvencae dovevano questo nome alla loro grassezza.

Le noctilucae erravano pure di notte come le noctuvigiles o veglianti di notte.

Le doridi dovevano questa denominazione alla loro nudità, chè mostravansi assolutamente nude come le ninfe del mare, fra le quali la mitologia caratterizzo Doride, loro madre. Giovenale rimbrotta queste doridi, che, dice egli, come un vile istrione rappresenta una saggia matrona, spogliavansi d’ogni loro veste per rappresentare delle Dee. Le donne pubbliche passavano ancora sotto altri nomi, i quali tutte indifferentemente le comprendevano: mulieres o femmine; pallacæ, dal greco Txakxu; pellice, in memoria delle baccanti che avevano tuniche di pelli di tigre; prosedae, perchè aspettavano, sedute, il momento che alcuno le chiamasse. Erano nominate peregrinae o straniere, come sono dette sempre nei libri ebrei, perchè vennero per la maggior parte da ogni contrada per vendersi a Roma, e portavano ancora un nome che fu conservato quasi in ogni linguaggio popolare: putae o puti, putilli.

Vague o circulatrices erano le prostitute erranti; ambulatrices quelle che passeggiavano; scorta le meretrici più abbiette, le pelli come conviene tradurre il motto ingiurioso; quanto alle scorta devia, esse aspettavano gli amatori a casa propria, ponendosi solo alla finestra per chiamarli. Venivano tutte egualmente ingiuriate quando trattavansi di scrantiae, scraptae o scratiae, che siamo forzati a tradurre vasi di camera o seggette forate, con espressione che si ritrova nel milanese (seggiona). Venivano ancora appellate suburranee o figlie del sobborgo, perchè la Suburra, sobborgo di Roma presso la Via Sacra, era abitata solamente da ladri e da donne perdute. Finalmente le schaeniculae, che vendendosi a soldati ed a schiavi, portavano cinture di giunchi o di paglia (oxoivos) per dinotare che esse erano sempre occupate.

Le naniae erano nane o ragazze che formavansi dall’età di sei anni all’infame mestiere.

Le donne di piacere erano diverse fra loro ancora pel modo di danzare e per la musica. Si distinguevano le Spagnuole (gaditanae), che colle danze e col canto sapevano a meraviglia eccitare le concupiscenze e le brame degli spettatori anche più freddi.

E la prostituzione in Roma si annidava dovunque, sulle vie, nei templi, nei teatri.

Salviano diceva delle orgie popolari: «Si offre un culto a Minerva nei ginnasi; a Venere nei teatri»; ed altrove: «Quanto v’ha di osceno si pratica nei teatri; quanto v’ha di disordinato, nelle palestre». Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie, va più avanti dicendo che il teatro è sinonimo di prostituzione, perchè ivi stesso, dopo il termine dei giuochi, le meretrici si prostituivano in pubblico.

Esisteva pure in Roma una prostituzione, la quale non dipendeva certamente dagli edili (magistrati) in alcuna maniera, che potrebbesi nominare estetica ed opulenta, quella che la lingua latina qualificava per bona. Anche le femmine che vi si prestavano, erano chiamate buone meretrici, per esprimere la perfezione del genere: diffatti tali cortigiane non avevano alcuna analogia colle altre sciagurate, imperciocchè avevano quasi tutte amanti privilegiati, amasii od amici, e potrebbero paragonarsi alle cocottes dei nostri tempi ed alle etere greche. Esse, come le etere in Grecia, esercitavano a Roma un’influenza grandissima sopra le mode, sui costumi, sulle arti, sulla letteratura, in genere, sul mondo patrizio.

Gli uomini di Stato più gravi, i più austeri, non si privavano del piacere di frequentare le cortigiane, e d’immischiarsi negli intimi loro misteri; lo stesso Cicerone banchettava con Citeride, che era stata schiava prima di essere riscattata da Eutrapelo, e che divenne la donna favorita del triumviro Antonio.

Queste cortigiane della moda comparivano sulle vie, sui passeggi, al circo, nel teatro circondate da una folla d’amanti. Talora si facevano portare da robusti Abissini entro lettighe, ove giacevano seminude, con uno specchio d’argento in mano, cariche di smanigli, (bracciali) di gemme, di orecchini, di diademi e di spilli d’oro: ai loro fianchi gli schiavi rinfrescavano l’aria con grandi ventagli di penne di pavone; davanti e dietro le lettighe camminavano eunuchi e ragazzi, suonatori di flauto e nani buffoni, che chiudevano il corteggio. Talora sedute, o in piedi, in cocchi leggeri, dirigevano esse medesime i cavalli, cercando di sorpassarsi le une le altre.

Le meno ricche, le meno ambiziose, le meno turbolenti andavano a piedi, tutte adorne di stoffe screziate; le altre portavano parasoli, specchi, ventagli, quando non le accompagnavano più schiavi, o per lo meno una fantesca.