Il mercante girovago

Di Carlo Dickens

Io sono un mercante girovago, e mio padre si chiamava Willum Marigold; alcuni supponevano che il suo nome fosse William, ma mio padre persistette sempre nel negarlo e nel sostenere che era proprio Willum. Su di che io faccio la seguente argomentazione: « Se non è permesso ad un galantuomo di conoscere il proprio nome in un paese libero, che cosa sarà dunque permesso di conoscere in un paese di schiavi? » Nè gli era dato rivolgersi per la decisione agli uffici dei registri di censimento, Willum Marigold era venuto al mondo ed era partito prima che venissero istituiti questi uffici di statistica. Io nacqui sulla pubblica via; mio padre era corso a chiamare un medico, un buon uomo, il quale non volle accettare altro in compenso dell’opera sua che un tondino da thè, laonde in segno di riconoscenza mi venne imposto il nome di dottore ed ecco perchè mi chiamo Dottor Marigold.

Ora sono un uomo di mezza età, largo di spalle, con delle uose alle gambe ed un abito ad ampie maniche; preferisco un cappello bianco ad un nero; mi piace portare uno scialle alle spalle; la mia posizione favorita è quella di stare seduto; se ho un gusto proprio in fatto di bigiotteria dirò ch’egli si palesa coi miei bottoni di madreperla! Ecco il mio ritratto.

Avendo detto che il dottore s’era scelto per compenso un piattellino da thè, voi avrete facilmente indovinato che mio padre era prima di me mercante girovago. Quel piattello era veramente grazioso: rappresentava una gran dama in cammino per un sentiero sabbioso che si stendeva serpeggiante sur una collina, sulla cui sommità si elevava una cappella: due cigni la precedevano. Io vidi spesse volte questo tondino, nella camera di consulto del dottore ove egli l’aveva collocato sopra una tavola ed appoggiato al muro. Ogni volta che i miei genitori viaggiavano per la parte ove era domiciliato il dottore, io andava regolarmente a sporgere la mia testa (la quale, al dire di mia madre, era allora bionda e ricciuta, quantunque arrischiereste oggi di prenderla per una vecchia spazzola di crine), io andava, dissi, a sporgere la mia testa alla porta del dottore, ed egli sempre lieto di vedermi mi diceva: Ah! confratello mio, entra, entra piccolo dottore in medicina. Dimmi, saresti contento di ricevere un pezzo di sei pence?

Non si può durare eternamente, come voi ve ne accorgerete, e o tosto o tardi mio padre che mia madre dovevano andarsene.
Se voi non ve ne andate tutti interi, quando è prossima l’ora di partire, si comincia ad involarsi parzialmente e vi ha tutta la probabilità che si principii ad abbandonare il mondo colla testa.
Poco a poco il cervello di mio padre sloggiò, poi quello di mia madre. Niente di più semplice, ed io fui costretto a metterli in riposo. La vecchia coppia, quantunque ritirata, non cessava tuttavia dall’abitudine di simulare la parte di merciai ambulanti. Appena la tovaglia veniva stesa sulla tavola, il vecchio cominciava a far suonar i piatti sotto le sue dita, come aveva l’uso di fare agli incanti. Sventuratamente egli aveva perduta la forza delle mani e il gioco finiva sempre colla rottura di qualche stoviglia.
La mia vecchia madre che aveva l’incarico di sedersi nella vettura e di passare al marito gli oggetti posti in vendita, continuava a maneggiare nello stesso modo le scodelle e i piatti di maiolica immaginaria. Ciò li teneva occupati tutto il giorno.
I due vecchi morirono l’istesso giorno ed una fossa comune li raccolse, la cosa io so assai bene, inquantochè ho seguito il loro convoglio ed ho portato un doppio lutto.
Mio padre era un bell’ingegno nella una sua industria di venditore ambulante, come lo provano le sue ultime parole al letto di morte; ma io le sorpasso. Nè dico ciò perchè son io, ma perchè ciò è generalmente riconosciuto da quanti sono in caso di farne il paragone. Io ci ho fatto studio. Mi son misurato con tutti gli oratori pubblici, membri del Parlamento e tutti quelli che parlano in cattedra o nel foro. Ho sentito i più famosi; dove ho trovato del buono, l’ho preso per imitazione; dove ho trovato del cattivo, l’ho lasciato. Ed ora volete che ve la dica? non voglio morire senza avervi dichiarato che il mestiere di mercante girovago è il più maltrattato nella Gran Bretagna. Perché non siamo noi una professione riconosciuta e classificata? Perchè non siamo dotati di privilegi? Perchè ci sforziamo a prendere una patente di mercanti girovaghi, mentre non esigono che i girovaghi politici, ne abbiano una? Ov’è la differenza fra essi e noi ? Essi vendono caro, e noi a buon mercato; non ce ne vedo altro. E se ce n’è, l’è tutta in nostro favore.
Ecco, vedete un po’, noi siamo ad un’epoca di elezione. Un sabato sera, in mezzo alla piazza, m’avanzo sul marciapiede della vettura. Mostro a quelli che mi circondano un lotto qualunque. Li interpello come votanti liberi nella scelta:

– « Elettori indipendenti, dico loro, vi offro una bazza, come non mai nè in questo mondo nè nell’altro. Ascoltatemi bene, e guardate: eccovi un paio di rasoi che vi raderanno alla pelle come il fisco; eccovi un ferro da stirare che vale tant’oro quant’è il suo peso; eccovi una padella, impregnata a tal punto di essenza di bistecche, che non avrete che ad immergervi una crosta di pane per essere satolli di carne durante tutto il tempo del viver vostro; ecco un cronometro in cassa d’argento sì solida di cui potreste servirvi come di martello per battere alla vostra porta e svegliare la moglie e i figliuoli dal sonno più profondo; ecco una mezza dozzina di piatti, che potete far risuonare come timballi e divertire un marmocchio ribellato contro la sua nutrice.
Aspettate! voglio aggiungervi un articolo di più! m’avete un’aria che non mi piace nè punto, nè poco, l’aria, cioè, di non voler comprar nulla se il mercante non fa proprio di gran sacrifizi. Orsù, io preferisco perdere piuttosto che non fare alcuna vendita questa sera. Prendete, vi do questo specchio, nel quale potrete vedere quanto siete brutti allorchè non fate alcuna offerta. Ebbene, parlate ora. Una lira sterlina? Una lira? No, non l’avete nelle vostre tasche. Dieci scellini? Nemmeno, perchè ne siete debitori al riscuotitore delle tasse. Ebbene, io vuo’ fare qualche cosa per voi, io! Tenete, ammucchio qui sul marciapiede tutti questi articoli. Eccoli tutti riuniti: rasoi, ferro da stirare, padella, cronometro, piatti di maiolica, specchio!…. prendeteli per quattro scellini, ed io vi farò anche regalo di sei pence pel vostro disturbo. »

Ecco in qual guisa parlavo io, il mercante girovago. Ma il lunedì mattina viene su quella medesima piazza il mercante politico: egli sale sopra un banco (che è come la sua vettura), e dice:

– « Elettori indipendenti, vengo ad offrirvi una bazza… (egli esordisce proprio come me), una bazza, come non ve n’è mai toccata una, la bazza di inviarmi al Parlamento. Vi dirò tutto quello che farò per voi. Curerò la prosperità della vostra magnifica città, che diverrà superiore a tutte quelle del mondo incivilito; avrete una strada ferrata, e i vostri vicini non l’avranno. Tutti i vostri figliuoli avranno un impiego assicurato negli uffici postali. L’Inghilterra vi sorriderà del suo più dolce sorriso.
L’ Europa intiera vi guarda. Avrete una sovrabbondanza di tutte le cose buone; del roast-beef a tutti i vostri pasti, messi e spiche, confort domestici e tutte le gioie del cuore. Sì tutto ciò è composto nel lotto che vi offro, e questo lotto sono io, il vostro candidato. Volete scegliermi al prezzo che vi ho detto? No; ebbene, io farò ancor meglio: avrete tutto ciò che chiederete, a vostra scelta. Delle tasse ecclesiastiche, o l’abolizione delle tasse ecclesiastiche, l’imposta sulla birra, o l’abolizione della imposta sulla birra, l’educazione universale in tutte le classi, o l’ignoranza universale, abolito il bastone per l’esercito, o una dozzina di colpi di bastone al mese ad ogni soldato, la schiavitù dell’uomo, l’emancipazione della donna… Mi volete? Si tratta di prendere o lasciare.
Sono dell’opinione vostra in tutte le cose. Che! non vi basta ancora? Allora, poichè siete indipendenti a tal punto, poichè siete un collegio sì nobile ed illuminato, sono ben superbo d’essere vostro candidato e di rappresentarvi al Parlamento; ben geloso dell’onore e della dignità che conferisce il mondo ch’io sollecito….. vedrete quanto saprò fare per voi. V’invito ad andare a bere gratis in tutti gli spacci di liquori. Vi basta? Siete contenti? Non ancora. Ebbene, attacco il mio cavallo, e vado a fare le mie offerte agli elettori della più bella città che troverò… No, no prima che io parta, sentite vuo’seminare per le vie della vostra magnifica città la somma di duemila lire sterline; le raccoglierà chi vorrà. Ma non basta, ascoltate ancora: duemila e cinquecento….. Non volete? Che si attacchi adunque. Alto! un momento. Non voglio volgervi le spalle per una bagattella. Seminerò duemila settecento cinquanta lire. Questa è la somma. Ne volete delle mie duemila settecento lire? parlate… Alla buon ora. Non potreste fare un negozio migliore, e ne potreste fare uno molto peggiore. Si, n’è vero? Detto, fatto. Urra! lo sono il vostro eletto. »

Questi mercanti politici adulano la gente in viso in modo vergognoso, la qual cosa non facciamo noi, negozianti a prezzi ridotti.

Vi racconterò ora il mio matrimonio. Feci la corte a mia moglie dall’alto della mia vettura. Ed ecco il come.
Ella era una ragazza della contea di Suffolck, e la sua casa era situata sulla piazza d’Ipswich. L’aveva osservata alla finestra giusto il sabato innanzi, in atto di applaudirmi. La mi diede nell’occhio, e dissi fra me: « S’essa non è ancora impegnata, mi pare che la sarebbe giusto a proposito per me. »
Il secondo sabato andai ad installarmi nel medesimo sito. Ero in vena; feci ridere gli avventori e spacciai tutti i miei articoli sino all’ultimo. Allora trassi da una tasca del mio abito una cartolina, ed alzai la mano verso la finestra della mia bella.

– « Ora, vaghissime fanciulle di Suffolck, dissi, ecco qui un altro articolo riservato a voi sole, il quale non lo cederei a nessuno al mondo neanche pel prezzo di mille lire sterline. Volete sapere che cosa sia? è un piccolo oggetto di puro oro, che non è punto spezzato quantunque abbia un buco nel mezzo, più forte di ogni anello da catena, benchè sia piccolo per cadauno de’ miei dieci diti. Perchè dieci? I miei genitori mi lasciarono in eredità dodici lenzuola, dodici tovaglie, dodici salviette, dodici coltelli, dodici forchette, dodici cucchiai e dodici cucchiarini; ma ad ogni mano mi mancava un dito per farne la dozzina e non potei ancora trovarne due per completarmi. Qui dentro adunque in quest’involtino c’è un solido cerchietto d’oro, un anello nuziale. Ed ora, debbo dirvi cosa intendo di farne? Non lo metto all’incanto, no; desidero offrirlo ad una delle più belle fanciulle di questa città che mi ascolta ridendo. Le annunzio la mia visita per domattina, quando l’orologio avrà suonato le nove. La inviterò a venire a spasso con me, e ce ne andremo insieme a farci pubblicare in chiesa. »

Essa rise, ed io le mostrai l’anello.
L’indomani mattina le feci la visita annunziata. Essa mi disse:
– No, non è possibile, voi non avete parlato sul serio.
– È possibilissimo, ed io son vostro per sempre.

Ci maritammo adunque, dopo compiute le solite pubblicazioni e formalità.
Non era una cattiva donna, ma qual violenza di carattere! S’ella avesse potuto correggersi dei suoi impeti non la avrei scambiata contro non so quale altra donna dell’Inghilterra! Vivemmo insieme tredici anni, sino alla sua morte.
Signori miei, vi confiderò una cosa che stenterete forse a credere: tredici anni in compagnia di un temperamento sì collerico e impetuoso esaurirebbero in un palazzo la pazienza di qualunque galantuomo, pensate poi in una carrozza dove si è tanto vicini l’uno all’ altro! Mille fra voi, che se ne vivono cheti come olio in una casa a tre piani, son certo che, abitando in una vettura, domanderebbero il divorzio.
Noi avremmo pur potuto condurre una vita piacevole! possedevamo la nostra larga vettura colle nostre numerose mercanzie sospese al di fuori: il letto sospeso al di sopra quando eravamo in viaggio, una pentola ed una marmitta di ferro, un fornello col suo tubo per il fumo, una tavola, un cane ed un cavallo.
Che occorreva di più? Ci arrestavamo ai lati delle vie, o ci avviavamo sino a qualche poggio d’erba, ove una siepe ci serviva di cortina. Si staccava il cavallo e lo si lasciava pascolare, poi s’accendeva il fuoco sulle ceneri abbandonate da coloro che ci avevano preceduti in quel luogo, e non ci avrebbero invidiati i figli di un re. Ma pensate le scene di collera e di furiosi trasporti nella vettura, le brutte parole e le mercanzie slanciate in faccia! Questa situazione era orribile.
Il mio cane comprendeva al pari di me quando una di tali scene stava per iscoppiare. Prima che mia moglie aprisse la bocca, egli si metteva ad urlare e spiccava un salto. Come l’indovinava egli? era un mistero per me; ma certo però che l’approssimarsi della tempesta lo scuoteva in mezzo al sonno: saltava, guaiva e prendeva il largo. In quei momenti avrei voluto essere il mio cane.

Il peggio si è che avevamo una figlia, ed io amo teneramente i fanciulli. Quando mia moglie era colta dalle sue furie, essa batteva la piccina. Io ne soffriva sì dolorosamente che spesso, col mio frustino sulle spalle, alla testa del mio cavallo, io camminava piangendo più dirottamente della mia piccola Sofia.
Ma come porre un rimedio a questi eccessi? Ѐ cosa difficilissima contenere e domare una donna infuriata nello stretto spazio di una vettura, bisognava ch’io la picchiassi e per bene. Ciò avveniva talvolta, ma allora la povera bambina era ancor più atterrita, più abbattuta, e la madre faceva i suoi lagni alle prime persone che incontrava dicendo: « Guardate il pessimo uomo che batte sua moglie. »
La piccola Sofia era una brava e cara creatura, molto affezionata a suo padre. Aveva una ricca capigliatura nera naturalmente ricciuta: mi stupisco, adesso ancora, di non esser divenuto pazzo quando la vedevo innanzi alla vettura, fuggire alla madre incollerita – dalla madre che le correva dietro, la pigliava per i capelli, e trascinandola le menava ripetuti colpi.
Dissi ch’era una brava e cara fanciulla. Ah! ho ben ragione di dirlo!
– Caro padre, mi disse un giorno la poveretta a bassa voce, cogli occhi ancor umidi ed il visino rosso, non ci fate attenzione la prossima volta che la mamma mi batterà. Se io non griderò saprete che essa non mi avrà fatto del male: ed anche se griderò pensate che lo farò solo perchè la mamma mi lasci stare….
Povera bambina! sallo il cielo quant’io la vidi soffrire…. anche quando non zittiva alle busse che riceveva.
Del resto mia moglie aveva la più gran cura di Sofia; le teneva puliti gli abitini, linda la biancheria; non era mai stanca di lavorare per lei. Tale è l’inconseguenza delle cose.
Io credo che il nostro soggiorno in una contrada paludosa, in una stagione malsana, fosse la causa che Sofia contraesse una febbre di pessima natura. Non importa indagare il come, Sofia ammalò di febbre. Allora, per nulla al mondo, volle più lasciarsi toccar dalla mano di sua madre: appena le si avvicinava gridava con ribrezzo: « No, no! » e celando il suo viso sulla mia spalla, mi abbracciava strettamente al collo.

Il mio commercio camminava quell’anno malissimo: per una ragione o per un’altra (sopratutto, io credo, colpa le strade ferrate che finiranno per rovinare affatto questa industria) io era corto a danari. Una sera, che la piccola Sofia aveva peggiorato di molto, non avrei potuto offrirle nulla da mangiare o da bere, se non avessi fatto a tutti i costi una vendita. Non potei persuadere la cara creatura ad andare a coricarsi, nè a lasciarmi un sol momento; e per vero dire non ne avevo il coraggio. Mi avanzai adunque sul dinanzi della carrozza colla bambina qui sospesa al collo. Gli avventori, i curiosi si misero a ridere vedendoci, ed un imbecille (sento che l’odio ancora) grido: « due pence per la fanciulla! »
– Ed ora, zotici campagnuoli, cominciai io col cuore spezzato, vi annunzio che saprò tirarvi il denaro dalle saccoccie, e darvi in cambio oggetti che varranno il doppio di quanto me li pagherete, tanto che sabato futuro ritornerete qui colle vostre paghe, sperando di fare ancora così un aureo mercato; non ma non ritornerete più… no, mai più. E perchè? Perchè io ho fatto la mia fortuna col 70 per 100 di perdita, e la prossima settimana sarò creato pari col titolo di Lord Da-per-nulla. Vediamo adunque ciò che vi garba di comperare stasera a questo mio ultimo incanto. Ma piccola prima voglio dirvi perchè io abbia questa mia figliuoletta al collo.
A voi non importa di saperlo? ragione di più perchè io ve lo dica. Essa è una piccola fata, un’indovina. Ella può dirmi all’orecchio tutto ciò che vi riguarda, e rivelarmi se comprerete o meno gli oggetti che vi offro. Tenete: volete una sega? No, la piccola maga mi dice, perchè voi siete troppo maldestri per trattarla. Tanto peggio per voi, ma questa sega sarebbe una fortuna per un uomo abile e destro. – una sega a quattro scellini, – a tre scellini e sei pence, – a tre scellini, – a due e sei, – a otto pence? Ma nessuno l’avrà a niun prezzo, causa la vostra ben conosciuta disadattaggine, che ne farebbe nelle vostre mani un istrumento di morte.

La stessa obbiezione va applicata a questa marra, che io non vi venderò… non mi fate adunque offerte.
Ora dimanderò alla mia piccola fata quello che volete comperare. E chinandomi all’orecchio di Sofia, le dissi: Bambina mia, la tua testa arde, io temo che tu sia molto sofferente; ed essa, senza alzare le sue palpebre pesanti mi rispose: « Un pochino soltanto, babbo. » Ah! la mia piccola maga mi dice che voi bramate un libro-nota. Allora, perchè non dirmelo, voi medesimi? Eccolo, guardate, duecento pagine di bella carta; se non credete, contatele. – Duecento pagine, tutte rigate, per iscrivervi le vostre spese, una matita inalterabile e già tagliata, un temperino con due lame, una lavagna per calcolare i vostri guadagni… Vi aggiungo uno sgabello portatile, su cui sedervi ovunque vi piacerà di fare i vostri conti. Tenete, anche questo parasole per preservarvi dall’influenza della luna in notte buia.
Ora, non vi domando quale alto prezzo, ma qual prezzo minimo disposti ad accordare per tutte queste belle cose. Per miserabile che sia la vostra offerta, non abbiate rossore di farmela, giacchè la mia indovina la sa. (E qui facendo mostra di dire una parolina in un’orecchia a Sofia, le diedi un bacio ch’essa mi rese). Che! ella pretende che voi m’offrirete solo tre scellini e tre pence!
Non ve lo crederei se dessa non me ne assicurasse. – Tre scellini e tre pence! e vi esibisco una tavola di moltiplicazione che vi basterà per calcolare un patrimonio di quaranta mila lire sterline di rendita, e voi esitate a spendere tre scellini e tre pence! Ebbene, io disprezzo talmente i tre pence, che voglio ricevere solo tre scellini… A tre scellini dunque, tre scellini! il mercato è concluso. – Si diano tutte queste belle cose al fortunato mortale. »
Siccome nessuno aveva parlato, ciascuno guardava ridendo il suo vicino, mentre io toccando la fronte alla mia piccola Sofia le andavo chiedendo se si sentisse più male.
« Si, un poco, babbo, ma passerà! » Volgendomi di nuovo verso il pubblico, ed in luogo dei begli occhi pazienti della mia bambina non iscorgendo che occhi allegri e beffardi, continuai nel mio stile di venditore ambulante:
« Ov’è il beccaio? (I miei occhi velati di lagrime avevano scorto il giovane macellaio tra la folla). La mia piccola maga dice che il beccaio è il fortunato mortale. Dov’è? »
Gli astanti spinsero il macellaio sin presso a me, ed egli si vide obbligato in mezzo ai loro scrosci di risa a mettere le sue mani in saccoccia e comperare gli oggetti da me posti all’incanto. Simili fatti avvengono spesso intorno alle baracche dei cerretani.
Ripetei il giuoco, e questa volta rilasciai la mia merce col ribasso di sei pence, la qual cosa provocò uno scoppio d’ilarità. Esibii quindi un paio d’occhiali, che per solito mi producono magri guadagni; ma io faccio cosi: mi pongo gli occhiali sul naso, e dico ciò che vedo attraverso le lenti: quali sono le imposte che dovranno venire soppresse; ci vedo cosa fa in quel momento il tale o tal altro personaggio; qual è l’amante di quella fanciulla laggiù, tutta avvolta nel suo scialle; vedo le pietanze che si mangia quel giorno il vescovo a pranzo, vedo tante altre cose, atte a mettere il mio pubblico di buon umore, e s’egli è di buon umore pone volentieri mano alla borsa.
Dopo gli occhiali posi in vendita utensili graditi alle massaie, alle donne in generale: un vaso per il the, una zuccheriera di cristallo, una mezza dozzina di cucchiaini ecc.
Di tanto in tanto mi volgevo verso la mia creatura e scambiavo qualche parola con lei. Ad un tratto sentii Sofia alzare la testa per guardare al disopra della mia spalla in fondo alla strada buia.

– Che hai, carina? le chiesi.
– Nulla, babbo, ma parmi vedere laggiù un bel cimitero.
– Sì.
– Dammi due baci, caro babbo. Mi poserai in quel cimitero, sull’erba verde e molle.
– Mi ritrassi precipitosamente nell’interno della vettura, colla testa della povera Sofia pendente sulle mie spalle, e dissi a mia moglie:
– Presto, presto, chiudi la porta: non permettere che la gente guardi qui entro col suo riso grossolano.
– Che c’è di nuovo? sclamò ella.
– O donna, donna! le risposi, non trascinerai più la mia piccola Sofia pei capegli: ella t’è sfuggita dalle mani per sempre.

Forse le mie parole le suonarono più dure di quello che io avessi voluto; il fatto si è che da quel giorno mia moglie s’intristì: restava delle ore intiere tacita, sia nella vettura o fuori, ritta in piedi, cupa, gli occhi fissi, le braccia incrociate.
L’assalivano ancora i suoi furori, ma più rari e in altra maniera: si percuoteva allora colle proprie mani cosi violentemente che io era obbligato a trattenerla con tutta la mia forza. S’era pur data al bere; ma non ne aveva sentito durevole sollievo. Per vari anni l’andò cosi; ed io mi andava chiedendo spesso se fossi da tutti considerato siccome il re dei mercanti girovaghi.
Una sera d’estate, mentre uscivamo d’Exeter, vedemmo una donna che batteva una bambina, e la bambina gridava: « Non battermi più, mamma, mamma, mamma! » Mia moglie si turó le orecchie e fuggì via come una forsennata. L’indomani si trovò il suo corpo nel fiume.

II

Restammo allora nella vettura soli il mio cane ed io. Lo ammaestrai a fare un breve abbaiamento quando la gente rifiutava di comperare, poi a fare sentire un grido diverso accompagnato da un segno della testa quando io gli dicevo: « Chi ha offerto una mezza corona ? questo signore qui? »
Il mio cane acquistò una immensa popolarità; ma finì per invecchiare, ed una sera che io faceva ridere tutta la città di York coll’incanto degli occhiali, la povera bestia venne assalita da un improvviso accesso convulsivo, ed in breve morì.
Essendo d’un carattere amoroso e sensibile, sentii dopo ciò tutta l’amarezza della solitudine. La soffocava nelle ore della vendita, avendo una riputazione da conservare (senza contare la necessità di conservar me medesimo); ma la tristezza prendeva bene la sua rivincita quand’ero solo. Tale è il destino di tutti gli uomini pubblici. O ci vediate sur una baracca da cerretano o sur una tribuna, dareste tutto il vostro avere per trovarvi al nostro posto. Vedendoci nel nostro privato vi rincrescerebbe moltissimo d’essere stati presi in parola.
In uno de’ miei momenti d’umor nero feci la conoscenza di un gigante. Mi sarei creduto troppo superiore a lui per rivolgergli discorso, se la mia solitudine non mi avesse pesato tanto: la regola del nostro commercio è la linea di demarcazione. Quando un uomo non è capace di guadagnarsi da vivere coi suoi talenti personali, lo consideriamo come al di sotto di noi; e questo gigante apparteneva ad una carovana, in cui non figurava che da romano.
Era un giovane fiacco e cascante, la qual cosa io attribuisco alla distanza che separava le sue estremità. Egli aveva una testa piccola, ed un cervello ancora più piccolo, occhi languidi, ginocchia deboli. Tutto sommato non si poteva guardarlo senza pensare ch’egli era troppo grande per le sue membra e per la sua intelligenza. Ma era buon giovane, benchè alquanto timido. Sua madre lo aveva abbandonato dopo aver consumato quanto gli spettava d’eredità. Feci conoscenza con lui quando egli conduceva a spasso il cavallo del suo padrone. Gli dava nome Renaldo di Velasco; ma il suo vero nome era Pickleson.
Questo gigante Pickleson mi confidò, sotto il sigillo della segretezza, che la vita gli era doppiamente pesante causa la crudeltà del suo padrone verso una bella bambina sorda e muta. La madre di questa piccola sordo-muta era morta, e, non avendo chi potesse prendere le sue difese, la povera fanciulla era maltrattata. Essa viaggiava colla carovana perchè il padrone non sapeva dove lasciarla; ma il gigante Pickleson giungeva persino a sospettare che il padrone avesse più volte cercato di smarrirla.
C’era tanta fiacchezza in questo giovane gigante che gli bisognò del gran tempo per conoscere tutta questa storia; ma alla fine essa era pervenuta a circolare per tutte la parti del suo individuo e giungere all’estremità superiore, la testa.
Quando il gigante Pickleson mi ebbe narrato questa storia, e detto che la povera sordo-muta aveva de’ lunghi capegli, pei quali il padrone la trascinava allorchè la batteva, non ci vidi più, gli occhi mi si erano riempiti di lagrime. Diedi a Pickleson sei pence, perchè egli era corto a denaro quant’era lungo di persona.
Egli spese in due volte i due pence in altrettanto gin allungato con acqua, che l’eccitò talmente da indurlo a cantare una delle canzoni più in voga, aria che il suo padrone aveva invano tentato di fargli cantare nel suo costume da romano.
Il nome del suo padrone era Mim, uomo dalla voce rauca. Risolsi di parlargli. Mi recai alla fiera come un semplice borghese, lasciando la mia carrozza fuori della città. M’aggirai intorno ai carri della carovana durante gli esercizii e scorsi la povera bambina sordo-muta che dormiva appoggiata ad una ruota lorda di fango.
Al primo aspetto avrei potuto prenderla per una delle bestie selvaggio della carovana; ma osservandola meglio pensai che se ella fosse meglio tenuta e meglio trattata somiglierebbe un poco alla mia Sofia; poteva giusto avere l’età che avrebbe allora avuto mia figlia, se in quella sera fatale chinando la sua leggiadra testolina sulle mie spalle non fosse spirata.

Per farla breve parlai a Mim, e gli dissi :

– Questa fanciulla vi è di peso; che dimandate per cedermela?
– Mim era un gran bestemmiatore; non ripeterò adunque per intiero la sua risposta, ne riferirò solo la parte più interessante:
– Un paio di cinghie.
– Ascoltate, gli dissi, ciò ch’ io vo’ fare per voi! Andrò a cercare nella mia che carrozza una mezza dozzina delle mie migliori cinghie, e ritornerò per prendere questa fanciulla e condurla meco.
– Vi credero quando avrò le cinghie nelle mani, disse Mim colla sua aria feroce.
lo corsi lesto alla mia carrozza, per tema che Mim si disdicesse, e il mercato si conchiuse.
Pickleson ne provò un vero sollievo. Uscì dalla porta di dietro, col suo passo languido ci venne incontro e, in segno di addio, ci cantò un’arietta.

Il giorno che principiammo a viaggiare insieme nella mia vettura fu proprio un bel giorno per me e per Sofia. Le diedi subito il nome di Sofia, perchè ella occupasse presso di me il posto di mia figlia.
Non tardammo a comprenderci l’un l’altro quand’ella vide quali erano le mie intenzioni a suo riguardo. In breve tempo ella mi rese con usura la mia affezione.
Non potete farvi idea di ciò che voglia dire avere qualcuno che ci ami, a meno che non siate voi pure passati per le prove dolorose che vi ho narrato.
Avreste riso, o avreste pianto, secondo la vostra disposizione di spirito, se mi aveste veduto provarmi ad istruire Sofia. Ricorsi dapprima per aiutarmi (non lo indovinereste mai) ai segni militari. Aveva in una scatola alcuni grandi alfabeti: le lettere scritte separatamente su grandi pezzi d’osso.
Ora supponiamo che andassimo Windsor; io rimetteva a Sofia, nell’ordine che forma questo nome, le lettere W, I, N, D, S, 0, R; e, ad ogni limite miliare, le mostrava ancora in questo medesimo ordine, la direzione di questa residenza nel Regno.
Un’ altra volta, le dava le lettere V, E, : T, T, U, R, A, e le segnava colla creta sulla nostra carrozza. Un’altra volta le diedi Dottor Marigold, e m’attaccai alla veste un cartello col mio nome. La gente che c’incontrava ne rideva; ma che importava a me, pur che raggiungessi il mio scopo?
Sofia per qualche tempo confondeva Windsor colla vettura e con me. Alla fine, a forza di cure e di pazienza, essa imparò in questa maniera a scrivere; allora l’andò fra noi a meraviglia.
Avevamo pure i nostri segni particolari per comunicarci le nostre idee, e poi ell’era (od io credeva che fosse, non importa) cosi somigliante alla mia Sofia, cogli anni di più che la mia Sofia avrebbe avuto, ch’io mi figurava che fosse lei. Aveva un geniale visino, ed ora che nessuno la trascinava più pei capegli, la sua fisionomia aveva acquistato un non so che di patetico che andava al cuore.
La sua facilità a comprendere i miei sguardi era davvero sorprendente. La sera, quand’io faceva le mie vendite, ella restava nella carrozza, invisibile al pubblico, ed io non avevo che a darle un’occhiata perch’ella mi porgesse gli articoli che mi abbisognavano. Lieta di avere indovinato, la fanciulla rideva allegramente e batteva le mani. Io poi, al vederla così contenta, e ricordandomi in quale stato l’avevo veduta la prima volta, mezza morta di fame, la sera, coi lividori alle carni dalle percosse, non era meno felice di lei e mi sentivo sempre più in vena nel fare le mie improvvisate arrinche ai curiosi che s’accalcavano intorno alla mia carrozza. La mia fama aumentò per conseguenza.
E questa felicità durò nella mia carrozza insino a che Sofia ebbe raggiunto l’età di sedici anni. Allora pensai che non avevo compìti perfettamente i miei doveri verso quella fanciulla, e che sarebbe stato giusto di procurarle una istruzione migliore di quella ch’essa avrebbe potuto ricevere da me.
Quando spiegai a Sofia le mie intenzioni e’ fu un gran piangere d’ambe le parti; ma ciò ch’è giusto, nè da pianto, nè da riso può mai essere modificato.
Presi adunque la mia figliuola adottiva per mano, e la condussi allo stabilimento dei sordo-muti a Londra.
Quando il direttore di questo stabilimento venne a parlarci, gli dissi:
Signore, vi spiegherò in brevi parole la mia proposta. Io non sono che un venditore ambulante; ma da qualche anno ho posto qualche cosa in serbo per i giorni tristi. Vi conduco la mia i figlia (d’adozione), che è certo la più sorda e la più muta di quante si trovano in questa casa. Insegnatele tutto ciò che potrete insegnarle nel più corto spazio di tempo, che vi preghero di fissare, lo sono in istato di pagarvi di mese in mese, cominciando dal darvi oggi una lira sterlina anticipata:
Eccola!
Quel signore sorrise e mi rispose:
Bene! bene! ma io vorrei sapere cos’ abbia imparato fin qui la fanciulla. Come v’intendete voi con lei?
Gii feci allora vedere che e Sofia sapeva già tracciare in caratteri da stampa varie parole e delle frasi intiere; poi ebbimo insieme, io e lei, una breve conversazione sur una storiella contenuta in un libretto, che il direttore le aveva dato a leggere.
– È sorprendente! esclamò egli. Ma è egli mai possibile che voi siate stato il suo solo istruttore?
Il solo, risposi, aiutato da lei.
– In questo caso, rispose il direttore, voi siete un brav’uomo!
Giammai alcun complimento mi fece maggior piacere. E quando egli ripetè a Sofia nel linguaggio dei muti la stessa cosa, ella applaudì con ambe le mani, baciò quelle del direttore, rise e pianse dalla contentezza.
Ritornammo quattro volte in tutto insino presso il direttore, e quando iscrisse il mio nome volle sapere perchè mi chiamassi Dottore, Trovò ch’ero nipote del medico che aveva assistito mia madre quando mi mise al mondo.
Questa circostanza rese i nostri rapporti più facili.
– Ed ora, Marigold, mi disse, che volete voi che vostra figlia impari di più di quello che già sa?
– Desidero, signore, ch’ella sia istruita quanto lo può essere una creatura priva come lei della parola e dell’udito; che possa leggere facilmente e con piacere tutto quello che è scritto.
– E quand’ella sarà istruita secondo il vostro desiderio, che vi proponete di fare con lei? condurla con voi nei vostri viaggi?
– Nella carrozza, signore, ma nella carrozza soltanto. Ella menerà nella carrozza una vita ritirata. Non vorrei mai esporre le sue infermità al pubblico. Farla vedere per denaro, oh! no, a nessun prezzo.
Il direttore chinò il capo in segno di approvazione.
– Ebbene, mi disse, potete separarvi da lei per due anni?
– Pur ch’ella sia istruita, e pel suo bene, sissignore.
– Un’altra domanda, soggiunse egli volgendosi verso Sofia: e potrà ella vivere due anni disgiunta da voi?
Quest’altra risposta era più difficile ad ottenersi, ma alla fine l’ottenemmo a gran fatica. Quanto ci costo questa separazione, a me ed a Sofia! La memoria della sera in cui diedi l’addio alla mia figliuola adottiva, là, sulla porta dello stabilimento, è ancora sì amara per me, che non passo mai davanti a quella porta senza provare uno stringimento di cuore… Tutta la mia vena mi abbandonerebbe s’io dovessi porre all’incanto le mie mercanzie di faccia a quello stabilimento.
Nondimeno la tristezza che mi cagionò la mia solitudine nella vettura non somigliava più a quella d’una volta, giacchè, per quanto mi paresse lunga, ne intravedevo il termine, e quando mi sentivo abbattuto più del solito, dicevo a consolarmi: « Sofia mi appartiene ed io son suo » e sognavo intanto il suo ritorno.
In capo a qualche mese comperai una seconda carrozza, e, indovinate mò a qual uso? Ve lo dirò: voleva disporvi intorno delle scanzie come per una biblioteca, e fornirle di libri per Sofia: collocarvi una seggioletta, su cui mi andrei a sedere per vederla leggere, dicendomi ch’era stato il suo primo maestro. Non avendo alcuna fretta per realizzare questo progetto, feci intanto fare sotto la mia istruzione tutto il mobiliare per la mia seconda vettura: un letticciuolo in una piccola alcova col suo cortinaggio, un tavolino per leggere, uno scrittoio per scrivere, ed infine le scanzie della biblioteca per ricevere ogni sorta di libri, legati e non legati, con incisioni e senza, secondo che avrei potuto procurarmeli percorrendo il paese d’un capo all’altro, coi tempi belli ed i tempi brutti, sulla via maestra, o perduta al di là dei monti, e più lontano ancora…
Non feci tutto ciò in un giorno, ed i due anni trascorsero in tal guisa, andando a raggiungere quelli che li avevano preceduti… chi da dove?
E la mia seconda carrozza era terminata e in bell’ordine, dipinta in giallo, con de’filetti rossi, ornata di grossi chiodi dalla capocchia di lucido ottone. V’attaccai il mio vecchio cavallo e preso un garzoncello a servizio per guidarlo. Vestito del mio meglio, mi recai a prendere Sofia.

III

– Marigold, mi disse il direttore dello stabilimento dei sordo-muti, sono lieto di rivedervi.
– Dubito, signore, che voi possiate esserlo più di me.
– Il tempo v’è sembrato lungo, n’è vero, Marigold?
– Non dirò che due anni siano per sè stessi un tempo molto lungo, ma…
– Perchè avete trasalito in tal guisa, mio buon amico?

Ah! era proprio lei che appariva in quel punto sull’uscio? Quella bella giovane d’una fisonomia si intelligente ed espressiva? Sì, era Sofia, la mia figliuola adottiva, tanto simile a quell’altra! Eppure, se il direttore non me ne avesse accertato, non avrei mai potuto riconoscerla.
– Siete commosso, mi disse il degno signore con voce affettuosa.
– Sento, ahimè! d’essere un rozzo mercante girovago.
– Ed io sento, disse egli, che siete voi che l’avete tratta dalla miseria e dalla degradazione per metterla in rapporto co’ suoi simili. Ma perchè discorriamo noi, noi due soli, quando possiamo sì bene conversare con lei? Parlatele il vostro antico linguaggio.
– Signore, io sono un goffo personaggio colla mia veste ad ampie maniche, ed essa una graziosa giovanetta, là, immobile sull’uscio.
– Provate s’ella sa ancora rispondere ai vostri segni d’una volta.

Essi avevano preparato questa scena per me.
Quando io le ebbi fatto i miei segni d’una volta, Sofia si precipitò a’ miei piedi, e, rimanendo a ginocchio, mi tese le mani versando lagrime di tenerezza e di gioia.
La rialzai e la tenni strettamente abbracciata. Non so come non impazzii di felicità quando ci ponemmo tutti e tre ad intrattenerci per via di segni, senza il menomo suono di voce, come se ci fossimo trovati in una sfera incantata che ci isolasse dal resto del mondo.
La gioia e la felicità risalirono con noi sulla vettura del venditore ambulante e su quella che, – a causa della collezione di libri che conteneva, – io chiamava la vettura-biblioteca. Ero beato, ero superbo di veder Sofia intenta a leggere i fare i libri che avevo acquistato per lei.
Ma avevo dimenticato qualche cosa ne’ miei calcoli.
Eravamo a Lancastre. Mim, col suo gigante (Pickleson), trovavasi pure in quella città, e aveva preso a pigione per esporre quel fenomeno la sala degli incanti, sulla cui facciata si leggeva, come per gli spettacoli straordinarii: « Entrata gratuita sospesa; vi fanno eccezione i membri della classe, di cui va sì superbo un paese libero, vale a dire, i rappresentanti della stampa; –gli scolari vengono ammessi a prezzi ridotti. – Non v’ha nulla che possa fare arrossire la gioventù pudica. » Ad aiutare questo enorme avviso Mim aveva fatto distribuire per le botteghe de’ foglietti stampati in cui era detto che la storia di Davide e di Golia rimarebbe sempre incomprensibile per chi non avesse veduto il gigante. Ad onta di tutto ciò gli spettatori giungevano rari e scarsi, e Mim bestemmiava atrocemente.
Entrai nella sala, che trovai affatto vuota. Non v’era che Pickleson, seduto sur una tavola coperta d’una specie di stoffa rossa. Io n’era contento, giacchè desideravo parlare in confidenza e da solo al gigante Pickleson, incominciai, io vi sono debitore di una gran somma di felicità, ed avevo pensato a sdebitarmi con voi lasciandovi in testamento un legato di cinque lire sterline; ma, per risparmiare le spese, ecco che ve ne offro oggi quattro, le quali vi saranno ugualmente grate, e i nostri conti sieno saldati.
Pickleson, che sino dal principio del discorso aveva l’aspetto cupo d’una candela romana che non si può accendere, brillò alla conclusione e mi ringraziò con parole ch’erano per lui della più alta eloquenza. Egli mi narrò che Mim, in seguito ad un contrasto tra loro, gli aveva soppresso la sua razione di birra. Mim, che ci aveva uditi, lo confermò con un brontolio, che fece tremare lo sfortunato gigante in tutte le sue membra.

– Dottor Marigold, mi disse poi il povero giovane con un accento sì debole ch’io tenterei invano di rendere, chi è il giovane straniero che segue le vostre vetture?
– Il giovane staniero! sclamai io pensando ch’egli intendesse parlare di Sofia e che nella languida circolazione delle sue idee errasse nella pronunzia.
– Dottore, riprese egli con un’emozione capace di trarre le lagrime dagli occhi più restii, son debole, ma non tanto da non conoscere le parole che uso. Lo ripeto, dottore, il giovane straniero!

Seppi allora che Pickleson, essendo forzato ad andare a stirare le sue gambe nelle ore in cui non si poteva vederlo gratis, vale a dire durante la notte o sul fare dell’alba, aveva scorto due volte aggirarsi intorno alla mia carrozza un giovane.
Questa notizia mi turbò, senza ch’io ne potessi capire il motivo. Nondimeno, trattai con Pickleson leggermente la cosa, e mi congedai da lui esortandolo a spendere il mio in bibite toniche e ristoranti.
L’indomani, prima che apparisse il giorno, mi posi in agguato, e scorsi diffatti il giovane straniero. Era ben vestito e di bell’aspetto. Passeggiava intorno alle mie carrozze come se fosse incaricato di averne cura.
Quando il giorno fu fatto egli s’allontanò. Gli gridai dietro, ma egli non fece moto, non volse il capo, nè badò punto ai miei richiami.
Lasciammo Lancastre un ora o due dopo levato il sole per renderci a Carlisle.
L’indomani, in sul far del giorno, stetti di nuovo a spiare il giovane straniero, e non lo vidi. Ma all’alba seguente egli c’era. Gli gridai come la prima volta: « Olà! he! » ma parve non aver nulla sentito. Dopo aver bene riflesso, dopo averlo per più giorni esaminato, pensai che il giovane fosse sordo-muto. Questa scoperta mi sconcertò perchè sapevo che nello stabilimento in cui avevo collocato sofia per due anni c’erano sordomuti d’ambo i sessi, e dissi fra me: « Se la fanciulla lo ama, che ne sarà di me e di tutti i miei progetti? » Ma speravo ancora che essa non lo amasse. Confesso questo mio sentimento egoista. Non mi rimaneva che accertarmene. Alla fine riuscii ad essere testimonio di un loro colloquio all’aria aperta, senza esser veduto da essi, nascosto com’ero dietro un abete. Era un colloquio ben commovente per le tre persone interessate. Io ascoltavo co’ miei occhi, che erano giunti a capire il linguaggio dei sordo-muti tanto bene, come le mie orecchie intendevano la lingua parlata.
Il giovane le diceva ch’egli doveva partire per la China in qualità di commesso di una casa bancaria, posto che suo padre aveva occupato prima di lui: che i suoi mezzi gli permettevano di mantenere agiatamente una famiglia, e la pregava di divenirgli consorte e seguirlo. Sofia persisteva nel risponder no. – Il giovane le chiedeva se adunque non lo amasse. – Sì, Sofia lo amava teneramente; ma non si sentiva cuore di ingannare le speranze dell’uomo generoso che le aveva servito da padre… parlava di me, del mercante girovago dalla veste a larghe maniche; e diceva di non volerlo abbandonare, di voler vivere con lui, dovesse morirne dal dolore. E così dicendo, Sofia piangeva amaramente, e le sue lagrime mi fecero prendere una risoluzione.
Insino a che io era nel dubbio s’ella amasse o no il giovane, mi rincresceva d’avere parlato a Pickleson e rimpiangeva le mie sterline; perchè, diceva, senza le parole del debole gigante io sarei stato tranquillo; ma ora che l’aveva vista a piangere l’era altra cosa.
Sofia ed il giovane s’erano intanto separati. Egli era andato ad appoggiarsi ad un altro abete – ce n’era lì un boschetto – colla fronte china sul braccio.
Me gli avvicinai e gli toccai la spalla; egli alzò il capo e, scorgendomi, mi disse nel linguaggio dei sordo-muti:

– Non vogliate essere in collera.
– Non sono in collera con voi, mio giovane, sono vostro amico. Seguitemi.
Lo lasciai fuori della vettura-biblioteca e salii solo. Trovai Sofia che asciugava le lagrime.
– Hai pianto, mia cara?
– Sì, padre.
– Perche?
– Un male di capo.
– Il dottor Marigold ha la ricetta pel tuo male di capo.
Ella sorrise e scosse la testa in segno negativo.
– So bene che non mi vorresti per tuo medico, Sofia; ne ho un altro.
– Che volete voi dire?
– Egli è qui.
Introdussi il giovane e posi la mano di Sofia nella sua… poi li lasciai soli

Il giorno dello sposalizio misi un bell’abito bleu coi bottoni di metallo, la prima e l’ultima volta ch’io ne abbia portato uno simile. Non eravamo che noi in chiesa e il direttore dello stabilimento dei sordo-muti. Il pranzo di nozze per quattro, si fece nella vettura-biblioteca, e consistette: in un pasticcio di piccioni, un prosciutto marinato e del buon vino. Feci un brindisi agli sposi, e il direttore ne fece un altro. Tutti i nostri discorsi perduto ci fecero ridere e furono brillanti come fuochi d’artifizio. Durante il pranzo spiegai a Sofia che io serberei la vettura-biblioteca per abitarla quando non fossi in viaggio, e custodirei i suoi libri perchè essa li potesse leggere il giorno che tornerebbe in Inghilterra.
Ella partì adunque con suo marito. Gli addii furono tristi ed io mi vidi per la seconda volta solo, guidando il mio vecchio cavallo colla frusta sulle spalle perchè io non viaggiavo più che con una carrozza, ed avevo licenziato il famiglio, dopo avergli trovato un altro servizio.
Sofia mi scrisse molte lettere, ed io scrissi molte lettere a lei. Verso la fine del primo anno ne ricevetti una scritta con mano tremante che diceva:
« Diletto padre, non sono ancora otto giorni che ho avuto una figlia; ma io sto sì bene che mi permettono di scrivervi. O il più caro e il migliore de’padri! spero che la mia bambina non sarà sordo-muta; ma non ne so nulla ancora. »
Quando io scrissi alla mia volta gliene feci domanda; ma siccome Sofia non mi diede risposta, pensando che questa dovesse essere triste, non ripetei più la mia inchiesta. Per lungo tempo la nostra corrispondenza seguitò regolarmente; poscia si fece grado a grado interrotta.
Il marito di Sofia aveva cangiato residenza, ed io era continuamente in viaggio. Ma anche senza che ci fossero lettere, ero certo ch’essa pensava a me, io pensavo a lei.
Erano trascorsi cinque anni e alcuni mesi dacchè Sofia era partita. Io era sempre il re de’ mercanti girovaghi e più popolare che mai. Avevo fatto un antunno stupendo, ed il 23 dicembre 1864 mi trovavo a Uxbridge, nel cantone di Middlesex. M’incamminavo adunque verso Londra, col mio vecchio cavallo, lo spirito tranquillo, per godervi tutto solo le mie feste di Natale nella vettura-biblioteca.
M’intendo un po’ di cucina, e vi dirò ciò che mi avevo destinato pel pranzo della vigilia di Natale nella vettura-biblioteca; una bistecca, una dozzina di ostriche, dei funghi ed un eccellente pouding. Terminato il mio pranzo solitario, e riposti via i tondi, mi assisi nel mio seggiolone.
I libri di Sofia mi ricordarono la mia cara figliuola adottiva; vidi la sua geniale fisionomia brillare innanzi a me prima che mi addormentassi accanto al fuoco del caminetto. Niente di sorprendente adunque che durante il sonno io vedessi ancora Sofia ritta a me dirimpetto colla sua bambina sordo-muta in braccio. Sognando, mi pareva di girare qua e là, varcar il paese, coi tempi belli ed i tempi brutti, sulla via maestra, o perduto al di là dei monti, e più lontano ancora… ma Sofia rimaneva sempre accanto a me colla sua figliuoletta tra le braccia. Mi svegliai di soprassalto, e l’apparizione sembrò svanire, come se prima Sofia ci fosse realmente lì.
Il fatto sta che un rumore reale mi aveva svegliato: il rumore rapido e leggero di un passo infantile. Il mio orecchio conosceva da lungo tempo questa sorte di rumore, e mi parve di veder sorgere il fantasma d’una fanciulla.
Ma la mano d’una vera e viva fanciulletta aveva toccato il bottone della porta che si aperse a metà… e una graziosa testolina infantile dagli occhi neri ci fece capitolino.
Dopo avermi bene guardato quella graziosa creatura si levò il cappello di paglia lasciando liberi e ondeggianti i suoi capegli; aperse le labbra rosee e con la sua vocina disse.

– Nonno!
– Cielo! sclamai io, essa parla!
– Sì, nonno, e vi domando se io vi ricordi qualcheduno.

Un momento dopo entrava Sofia e mi abbracciava unitamente alla sua bambina, mentre suo marito afferratami una mano, se la teneva stretta al viso. Ripetemmo commossi i nostri abbracci. –

E poi ch’ebbino cessato d’abbracciarci, quando vidi Sofia a parlare alla sua figliuoletta coi segni medesimi ch’io aveva insegnato prima a lei, sentii fluirmi dagli occhi calde e abbondanti lagrime di tenerezza e di gioia.

Charles John Huffam Dickens

Tratto da: L’emporio pittoresco giornale settimanale.
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