IL GENIO DELLA FELICITÀ

(Leggenda Olandese)

Nacque nel paese un fanciullo e alla sua cuna un genio, che si chinò sul bimbo, dicendo sotto voce: «Sii felice, piccino!» E ogni sera quando moriva l’ultimo tuono della ninna-nanna materna, il genio s’avvicinava e carezzava il bambino, dicendo: «Sii felice, figlio mio!»
Poichè ebbe fatto ciò più volte, il fanciullo cominciava a conoscerlo e quando esso gli portava nel sogno il saluto notturno, la bocchina innocente si moveva con un sorriso, che gettava un riflesso di gioia sul volto della madre, la quale stava spiando ogni moto del tesoro suo.
Qualche volta il ragazzo sognando stendeva le braccia paffute all’amico invisibile, e la madre diceva con cura: «si fa inquieto.» Ma la madre nè vedeva nè sentiva il genio accanto al fanciullo assopito che gli cantava una dolce canzone della felicità della vita.
Il bambino cresceva e il genio gli mostrava la sera uno specchietto, rinchiuso in una cornice magnifica piena di gemme dai colori scintillanti. Il bambino cominciava a voler afferrarlo, e quando il genio fuggiva col cristallo magico, il fanciullo si risvegliava piangendo. «Il piccolo si fa sempre più inquieto.» – diceva la madre e lo chetava sul seno.
Quanto più cresceva il fanciullo, tanto più grande diventava anche lo specchio, che il genio gli recava ogni sera, tanto più vividi erano i colori che scintillavano intorno al chiaro cristallo, ed il ragazzo cominciava a rammentarsi del bel sogno nella giornata.
Lo raccontava alla madre e ai compagni, ma questi non sapevano nulla dello specchio, nè desideravano di vedere quei brillanti colori della sua visione, pure il ragazzo se li vedeva dinanzi ovunque andasse, e senza darsi all’intorno per trovar cosa che gli somigliasse.
Svegliò la primavera le farfalle variopinte dal sonno di morte e volarono nei campi con tutto la loro bellezza presso al fanciullo che si slanciò a seguirle con grida di gioia.
– Ecco i colori del mio sogno, – sclamò – Ecco le cose belle che ho sempre cercate. Saranno mie!
Allora segui le farfalle e non si stancò finchè le ebbe colte.
– Le ho prese, sono mie! disse con soddisfazione, – voglio mostrarle ai miei compagni
Ma come apri la mano per far ammirare le vaghe farfalle, una si schivo – benchè con ali rotte e l’altra ohimė! i più bei colori aveva appiccicati alle dita del ragazzo e disadorna e scolorita la farfalla stava tutta tremante nella piccola mano. Gli altri ragazzi beffarono la bellezza appassita, e scoraggiato e vergognato il bambino gettò nella sabbia la farfalla che non gli pareva esser cacciata da lui con tanto ardore.

Giunse la state con la sua profusione di fiori e il fanciullo vedendo sbocciare i piccoli bottoni, esclamò pieno di gioia:
– Ecco i colori che m’incantano nel sogno! son scesi sui fiori, i fiori debbon esser miei!
Ridendo si mise a coglierne e passeggiò sempre più lontano sul sentiero fiorito, cogliendone, finchè si stancò e poi, via coi tesori.
Ma i fiorellini strappati dallo stelo non potevano sopportare il caldo del giorno, si seccaron nella mano che li aveva colti e caddero appassiti e sfogliati, quando li sparse sulle ginocchia della madre. Egli l’abbracciò piangendo e disse:
– Dov’è il sublime che non si perda e il bello che non rimanga mio?
Ma non lo capiva la madre.
Poi nel sogno gli apparve di nuovo il genio dallo specchio luccicante. Il fanciullo volse gli occhi tutto scoraggiato e non volle pur dare un’occhiata al cristallo magico, ma il genio cantò la dolce sua canzone e il ragazzo rialzò la resta chinata e visti ad un tratto gli splendidi colori, gli balzò il cuore di gioia e di desiderio. Si risvegliò lieto, dicendo:
– Or ora viene! La troverò un giorno quella bellezza, quella sublimità o qualcosa che le rassomigli.
L’autunno gettò le sue nebbie sopra la foresta, penzolavano i fili autunnali dagli steli appassiti dei fiori caduti: si alzarono le tempeste, scesero le burrasche, nel mezzo delle nebbie tenebrose apparve uno splendido arcobaleno. In estasi stava lì il ragazzo, esclamando:
– Perchè stai cosi lontano! davvero questi sono i colori della mia visione.
Ma i colori divennero più pallidi, il sole s’abbassò all’orizzonte e l’arco era sparito.
Venne l’inverno col vestito di stelle brillanti e il fanciullo non si stancava mai di contemplare quegli astri.– Hanno tutta la luce della mia visione! – esclamò – Son essi d’una bellezza che non si può descrivere.
Non sono fragili come la debole farfalla che non soffre d’ essere tocca; non si seccano e non appassiscono come quei fiori che non sopportan d’esser colti, non esistono in apparenza solo come quell’arco ingangalore nelle nebbie. Sono sublimi e belle, ma perchè così lontane, a una distanza cosi infinita per me?
Allora gli prese amore per le stelle e non sentiva più il freddo dell’inverno quando era incantato del loro splendore.
Più volte s’arrampicava sopra un grand’albero perchè voleva vedere sempre più quelle stelle e si doleva sentendo che non potevan mai appartenergli, eran alte, tanto alte, e credeva esser ciò la sua sventura.

Cosi cresceva e un giorno disse alla madre:
– Non sono fanciullo, devo andar lontano per cercar la felicità! Voglio attraversar gli oceani, per veder anche le stelle dall’altra parte della terra, là dove non vi son nebbie per impedirmi la vista, dove niente limita la mia prospettiva; potrò avvicinarmi e contemplare tutta la splendida luce, che vedo spesso nei miei sogni!
– Ho udito talvolta che là le stelle son ancor più parte lontane da noi che lo sieno qui, – riprese la vecchierella.
Ma bolliva il sangue del giovane, gli palpitava il cuore, sentiva un impulso invincibile d’andarsene.
Nella notte il genio gli fu accanlo. Cantò la felicità della vita con suoni più dolci che mai, e tenne lo specchio diritto al viso del giovane, ma questi guardò di sopra e supplico:
– Ah datemi quella bellezza suprema, quella maggiore dolcezza!
– Non posso cederti lo specchio mio! – disse il genio, – poichè non è per te solo, ma per tutti: vi guarda e prendi la parte che sola può esser tua. –
Ma il giovane continuò a chiedere lo specchio lucente, finchè il genio era sparito.
Attraversò l’oceano e passò per monti e fiumi, per valli e foreste, si fermò nelle città, nei paeselli, non gli fu troppo grande nè fatica nè privazione alcuna; sagrificò il vigore e la salute e il tempo per ogni ombra dell’immagine veduta nel sogno. Il giovane divenne uomo, ma non aveva trovato nulla che somigliasse allo specchio magico che solamente l’incantava, e la vecchiezza gli venne prima ch’avesse trovato cosa alcuna che gli ricordasse il sogno.
Allora si stizzì contro la terra che non gli aveva prodotto che cardi, contro le stelle che gli stavan sempre lontane. Stanco della corsa inutile, maledisse il genio che per tutta la vita l’aveva tormentato e ingannato.
Ma il genio disse:
– Stolto che sei, tu li lasci sempre abbagliare dalla cornice variopinta del mio cristallo, e non ti sei mai curato di dar un’occhiata alla profondità di questo specchio.
Là avresti veduto l’uomo che offriva sempre un inciampo alla tua felicità, che la distruggeva sempre quando spuntava; avresti anche veduto colui che è il miglior amico tuo, che non conosci e che hai sempre fuggito, il solo che possa renderti felice, tostochè domandi a lui.
– Oh, fatemelo conoscere, – disse supplicando lo stanco viaggiatore, – voglio pregarlo ginocchione per mia felicità, sia pure nella sera della mia vita.
– Non fissare più la cornice variopinta, ma interroga quello specchio della verità per conoscer il tuo nemico e dimmi ciò che vedrai!
– Vedo un uomo burbero, egoista, di vecchiezza prematura e rotto da passioni violente. La stanca sua fisonomia è tutta solcala da rughe. Mi guarda ancora con gelosia e con disperazione, come se avesse deciso tra sé la mia perdizione, oh purtroppo lo comprendo che deve esser quel malavvisato che m’ha sempre impedito d’esser felici! Ma vi prego, Mostratemi ora il mio miglior amico, perchè sappia chi sia che osa liberarmi da questo nemico ed offrirmi finalmente la felicità. Mostratemi quello che ho cercato in tutta la mia vita!
– Che vedi? — domandò il genio volgendo lo specchio.
– Vedo un uomo, a prima vista molto somigliante a quel nemico, ma dallo sguardo supplicante che mi volge, traluce l’amore e un nobile desiderio, come se mi pregasse: «permettimi di renderti felice,» vuole aiutarmi e lo farà, lo leggo nel suo volto. Ma dove trovarlo?
– E tu non hai riconosciuto queste due immagini? Hai veduto le due nature nostre. Scaccia da te quell’egoismo freddo e burbero, che ci sprona a porre la felicità nel godere e nel possedere, ascolta la voce della miglior parte di te che li prega di diventare e d’essere qualcosa e di non più andar per la tua strada come una fosca ombra di te stesso, ma di svelar la tua individualità con tutto lo splendore della immagine di Dio.
– Quanto lontano l’ho cercato e quanto mi era vicino!
– sospirò il vecchio. – Dunque quel tesoro inestimabile si trova nel cuor mio! –
Cantò il genio per l’ultima volta:
– Felicità per te, figlio mio! –

Tratto da: La ricreazione raccolta illustrata di racconti e novelle per la famiglia – 1881

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