IL Carnevale a Venezia – 1840


di Defendente Sacchi.


Mentre l’Italia nei tempi di mezzo era corsa dai Barbari, desolata dalle guerre, rapita nelle sostanze e nelle persone, era serva scaduta da ogni dignità, sorgeva nell’ Estuario Altino una città che faceva il commercio dell’Oriente, raccoglieva grandi ricchezze sopra tutte le nazioni, si faceva bella, grande e doviziosa: era Venezia.
Quindi è facile il pensare che quivi fra gli agi fossero più lieti i tripudj che altrove: Venezia infatti fino dal 1094 avea, mercè una concessione del doge Foledro, permesso il carnevale, cioè rallegrare con festività inusitate i giorni che precorrevano la quaresima.
Nel 1162 ribellatosi a Venezia il patriarca d’ Aquilea con alcune città del Friuli, e ridotto a devozione dal doge Vital Michele, si pensò porre un tributo ai vinti che rallegrasse il carnevale, cioè che inviassero a Venezia nel giovedì grasso un toro e dodici porci per dare spettacolo alla moltitudine.
La festa che si ordinò rappresentava la guerra friulana. Pochi giorni innanzi al giovedì si costruivano nella sala del Piovego alcuni piccoli castelli di legno con torri e merli, in sembianza di alcune rocche del Friuli: al giovedì poi teneva sua ragione in quel luogo il magistrato del Proprio, il quale faceva vista di comporre vari piati fra i cittadini, finchè non si annunziava che erano giunti il toro e i porci; allora il Tribunale, rimessa ogni altra cura, dopo alcune richieste, recatosi in sè stesso, pronunziava gravemente sentenza capitale contro gli sciagurati animali.
Traevano tosto innanzi alcuni soldati, a cui si commettea l’esecuzione della sentenza, ed innalzato lo stendardo della Repubblica, andavano fra molti suoni ove gli attendevano quei dannati, e fra le grida popolari gli accoltellavano tutti, meno il toro, recidere il capo del quale era privilegio de’ falegnami, onore di cui avevano merito per certe imprese condotte in Istria.
Usciti i primi colpi, la moltitudine si gittava su quelle bestie, le copriva di brani, se le divideva, se le contrastava, e quali cocendo in pentole, quali arrostendo su spiedi, ne faceva molte vivande che manicava in pubblico, bombava fra’ bicchieri, e cantava San Marco.
Mentre il popolo cosi gavazzava, solvevano altra parte della festa il doge e i senatori, perchè armati di mazze, andavano ordinati nella sala del Piovego, e datone il segno dal doge, si mettevano a colpi a distruggere quelle castella di legno, ricordando d’avere così la Repubblica fiaccata l’oltracotanza friulana.

Nè qui aveva termine lo spettacolo, poichè uscita la Signoria dal palazzo ducale, e ridottosi sulla piazza di San Marco, sedeva in sito eminente intorno al doge collocato sul trono, che sovente era innalzato nel luogo più augusto ove possa ossequiarsi il soglio del potere, cioè sulla loggia che corre sopra la porta del tempio fra le scolture e i mosaici, fra i cavalli di bronzo che da Costantinopoli vennero a testificare sulla veneta laguna, delle vittorie e del valore italiano, e quel Senato, quel trono e quel doge si eminentemente collocati, conciliavano venerazione al popolo ed agli oratori delle più grandi nazioni.
Come erano colà adagiati, e il cenno del Capitan Grande avea cessati i clamori popolari, era stesa una corda, la quale partiva dall’albero di una nave che appostavasi in canale dal lato di piazzetta, saliva sulla torre di San Marco, e di là ad angolo scendeva a rappiccarsi innanzi al trono ducale: lungo questa faceano potesse scorrere come a volo un marinajo, mercè di certe anella che teneva affibbiate alla schiena e due cordicelle che vi scorrevano per entro e giravano sulla gomena maggiore per alcune carrucole.
Dato il segno, faceasi salire il marinajo dalla nave lungo la corda fino sulla torre, e di là collo stesso ordigno discendere innanzi al doge, a cui presentava con bel garbo un mazzo di fiori, e rivolando spargeva intorno poesie accomodate all’occasione.

Traevano poi sulla piazza due bande mascherate, che diceansi di Castellani e di Nicolotti, e facevano diversi giuochi ginnastici, fra quali le forze d’Ercole, che riponevano nell’ordinarsi molti uomini, e gli uni salire sulle spalle degli altri, e formare alcune piramidi a maniere bizzarre , alcuni sostenere in alto un maggior numero de’ loro colleghi, altri porsi in attitudini difficili, tutti a gara nell’ostentare maggiore forza.
Apparivano quindi parecchi mascherati a varii costumi, ed in ispecie alla moresca, che frammischiavano sulla piazza lotte, giuochi, e sovente al suono allegro de’ pifferi ballavano la furlana, finchè non discendeva la notte, al cui chiarore rinnovavano parecchi tripudj e convegni in pubblico, nè li partiva che la nascente aurora, solita in Venezia ad annunziare l’ora del riposo.

A questa pubblica festa che ricordava glorie veneziane, si associarono poi altri giorni di tripudio, e nel 1269, il Senato decretò che s’avesse per festivo l’ultimo giorno di carnevale.
Quindi si aggiunsero sempre nuovi ricreamenti, e le danze e le maschere che a un tempo erano di comodità per accomunare le diverse classi dei cittadini. Acconciati in istranee foggie diveniano eguali i senatori e i barnabotti, gli stranieri, i sacerdoti e il popolo, e tutti liberamente insieme si dilettavano di conviti, di danze e di teatri.
Mentre i senatori in abito lungo e in gran contegno carolavano nelle stanze del doge, il nunzio di Roma in maschera si insinuava fra loro e alternava gli scambietti colle belle Veneziane; e mentre alcune dame stavano severe a far corteggio alla dogaressa, alcune altre, travestite, correvano i caffè, fra i crocchi, sulla piazza, i ridotti e le sale ove i marinai allegramente ballavano e la gagliarda e la furlana.
Aveasi a condurre un’avventura galante, a scoprire un altrui segreto, creare novelli amori, o a rinfrescare gli antichi, e la maschera copriva la bella e il drudo, e tutto, se togli al Cancellier Grande, andava coperto di un denso velo. Nè i più gravi procuratori di San Marco, né la severità del doge, né la pudicizia delle fanciulle, nè l’austera regola dei frati e delle monache, rifuggiano dall’avvolgersi in un doppio zendado, dal farsi schermo al volto con una maschera, mettersi in una gondola, rendersi nella frequenza dei convegni, correre il palazzo ducale, la vivace conversazione dei caffè, il teatro, le banche dei giuocatori di fortuna, il clamore della ripa degli Schiavoni e i tumulti delle taverne.

La maschera a poco a poco divenne un’intangibile divisa a Venezia, e valea meglio a conciliare il rispetto che non ottenessero il nome, l’età o i gradi, e per alcune ordinanze del Consiglio de’Dieci si puniva con maggiore severità un’offesa fatta ad una maschera, di quello non fosse ad un uomo scoperto. Tutti così trasmutati teneansi per eguali, e gli Inquisitori di Stato, che non avevano rispetto nè ai segreti delle matrone, nè al decoro dei senatori, nè alla dignità del doge, faceano vista di usarne assai alle maschere, e loro fino si faceva libero penetrare nelle sale del Granconsiglio allorchè agitavasi pubblica seduta.

Con siffatta franchigia non è a dirsi quanto briosi corressero i giorni carnevaleschi a Venezia, e quante allegrezze vi si alternassero. Regate , luminarie, fuochi artificiati, giuochi di saltatori e di mimi, veniano del continuo succedendosi, e di giorno e di notte erano piene di banchetti e di suoni la piazza di San Marco, la ripa degli Schiavoni, la Giudecca e Canalazzo, quella contrada che a diritto Comines chiamò la prima del mondo, perchè ivi e non solo la magnificenza dei palagi, ma la serie storica dell’architettura dall’orientale in fino a noi.
Su quell’onda queta, fra que’sontuosi edifizj, solcavano le brune gondole piene di gente da diletto, di maschere e di donne leggiadre, e mentre specchiava la laguna l’affaccendarsi di tante gente abbigliate in istrane foggie, eccheggiavano intorno gli evviva dei festeggianti e il prolungato canto del gondoliere che ricordava le belle rapite e riprese ai pirati, le guerre chiozzotte e il conquisto di Costantinopoli, fatto da quel cieco immortale che rifiutò la porpora d’Oriente per serbare incontaminata la gloria della sua patria.

IL Carnevale a Venezia – 1840
di
Defendente Sacchi.