IL CAFFÈ

ERNESTO BRUSCHI.

Sebbene gli storici Turchi vadano attribuendo al Dervis Haduschi la scoperta del caffè, come quegli che, scacciato dal proprio convento nel 1258, e rifugiatosi in una spelonca, per non morire di fame, si facesse una bibita tonica e nutriente con le coccole d’un certo arbusto che cresceva in que’ paraggi, e noto sotto il nome di Kakhawe; pure sulla fede di manoscritti antichi si ha motivo di affermare che al succitato non si può con giustizia attribuire tutto il merito dell’iniziativa.
Comunque sia però egli è un fatto incontrastabile che l’uso del caffè, come bevanda, era notissimo ai popoli più antichi.
Il cieco Omero lo accenna sotto il nome di nephentes, la bevanda favorita di Elena; e Murallo non mette dubbio che il noto brodo nero dei Lacedemoni non fosse che il nostro caffè. Hərbelot nella sua Biblioteca, Galand nel suo Trattato sul caffè, asseverano che dall’ Etiopia l’uso di simile bevanda passasse a Moka, e da là, s’introducesse poi nell’Egitto e nell’ India.
A Costantinopoli apparve verso il 1555 o 1556. Nel 1580 Prospero Alpino parlava con chiarezza di questo arbusto che egli aveva veduto in Egitto, ed invogliava i Veneziani a farne commercio con popoli orientali decantandone le toniche virtù.
Trentadue anni dopo un certo armeno, di cui non si ricorda il nome, apriva una bottega da caffè nella via San Germano in Parigi; e quasi contemporaneamente il signor De la Roque, ritornando dall’Oriente, mostrava le coccole del maraviglioso arbusto ai cittadini di Marsiglia.
Ad ogni modo chi fece ufficialmente conoscere il caffè fu Solimano Ago, ambasciatore della sublime Porta. Anche Londra nel 1652 ebbe varie botteghe da caffè – che però allora si chiamavano – ma queste vennero tutte da Carlo II proibite, come erano state vietate a Costantinopoli da Murak XI, sotto il pretesto che fossero pericolose all’ ordine pubblico.
Ed ora, quantunque Giovanni della Bona, nel suo Trattato dell’uso e dell’abuso del caffè, dica che la prima pianta portata in Italia la si debba al già citato Alpino, pure con la scorta di documenti pregevolissimi si può affermare che non quella, sebbene l’altra che dal giardino botanico di Amsterdam fu mandata a Cosimo III, Granduca di Toscana, e che prese stanza nel giardino di Pisa sia a tenersi per l’Adamo di quelle piante che attualmente crescono sotto il nostro splendido cielo.
Anche re Luigi XIV ebbe un eguale dono, o quella primitiva pianticella piantata nel giardino reale mercè le cure del distinto professore Antonio de Jussieu e del capitano Desclieux fu il capostipite di tutti quegl’innumerevoli arbusti che oggi popolano l’America, e l’arricchiscono di una produzione, il cui valore arriva all’annua cospicua somma di trenta e più milioni di lire.
La pianta del caffè – che i botanici appellano Coffea Arabica – è un alberetto sempre verde alto 17 centimetri, ma un diametro di pochi pollici, adorno della di rami apposti a due a due, molti, flessibili, apertissimi, nodosi, qua e là, con corteccia di colore giallognolo, abbelliti da foglie lanceolate, liscie e lucenti nella parte superiore come pallide nell’inferiore.
Al tempo della fioritura spiccano fra sue foglie mazzetti di fiori bianchi ed odorosi; ed a questi poi frutti carnosi, ovali, grossi come tante ciliegie: sono piccole bacche che contengono due semi piano convessi e sovrapposti l’uno all’altro, – ciò che noi chiamiamo propriamente caffè.
Fra tutto il caffè che l’America coltiva il migliore è quello di Moka, come il più noto fra noi è quello che ci vien mandato dall’isola di Borbone, dalla Martinicca, da San Domingo, dal Brasile. Da tutti questi luoghi sapete voi quanti chilogrammi di caffè si mettono all’anno in commercio? Niente altro che un trecento e più milioni! Difatti chi non fa uso attualmente di questa bevanda ? Dalla reggia al palazzo, dal gabinetto profumato della dama all’affumicata officina dell’operaio una tazza di caffè è altamente gradita.
Eppure nei primordi della sua esistenza ebbe a una ben lunga e vigorosa lotta contro una serie indefinita di serii nemici. La medicina, sostenuta da lato da decreti di principi, spalleggiata dall’altro da sacerdotali divieti fu la prima che scese, accanito campione, nell’arringo.
Allora le declamazioni insorsero; le satire più crude piovvero all’indirizzo della povera bevanda; chi lo disse opera di demoni, chi lo apostrofò bibita velenosa, chi ardì chiamarlo vampiro della vita! Si aveva ragione? Pare di no; imperciocchè l’amara bevanda uscì incolume dallo strano duello e si sparse, quasi prodigiosamente sui quattro lati della terra.
Allora, come sempre avviene, sorsero gli apologisti a tesserne le lodi. Napoleone I – il più gran distruggitore di teste che abbia mai portato corona – asseriva che senza caffè non avrebbe potuto vivere.
Anche Voltaire amava tanto la neterea bevanda – come la chiama Parini – da dire un giorno ad un suo famigliare: «Vedete caro mio, se fossi certo che in paradiso si bevesse caffè, affedidio che mi farei santo;» e il padre dell’Emilia e del contratto sociale, il ginevrino Rousseau, affermava che non avrebbe potuto lavorare senza più dosi di caffè al giorno; anzi è fama che, quando venne colpito da uno di quei fulmini a ciel sereno, che la scienza ha chiamato colpi appopletici, il grand’ uomo avesse finito allora di bere a centellini una tazza di Moka.
Con tutto questo non si può negare che il caffè sia uno stimolante bello e buono, e che apporta i suoi svantaggi se venga preso smodatamente e senza l’osservazione di tutti quei dettati che l’igiene suggerisce. Ma non si può mettere in dubbio del pari che una tazza di caffè, preparato come vuole il barone Liebig, agisca in modo speciale sulle facoltà intellettuali, combatta il sonno, sostenga l’uomo nelle lotte dell’animo, e si presti come giovevole medicina nei casi di emicrania e di diarrea ostinata. Tutto considerato adunque, sarà sempre meglio una tazza di caffè che un bicchiere, anche piccolo, di rhum!


L’Illustrazione popolare, Volume 2 – 1870
ERNESTO BRUSCHI.