I Monasteri di Venezia

Pompeo Molmenti

Nei monasteri si manifestava più profonda la corruttela, che già datava da tempi lontani. Provvedimenti severissimi erano tornati troppe volte frustranei.
Allorchè nuovi costumi temperarono le rudi usanze dei Veneziani, nella casa di Dio, accanto agli altari, penetrava la licenza del costume, e nel mistero della sua cella la monaca accolse qualche ardito che avea scalato le mura del convento.
Nel 29 giugno 1349 fu approvata in Consiglio una parte contra illos qui committunt fornicationes in monasteriis monialum Ducatus Venetiarum.
Questi fornicatori furono in appresso chiamati monachini o moneghini.
La legge, che escludeva dai diritti civili gli schiavi, ammetteva a prestar testimonianza in giudizio le schiave delle monache, nel caso di fornicazione delle loro padrone.
Chi tesseva l’elogio del doge Andrea Contarini (1368-82) gli faceva merito grandissimo per aver resistito alle seduzioni delle monache.
Marin Sanudo parla a varie riprese di monache incinte e di ribellioni avvenute per gravi scandali nei monasteri (1).

(1) SANUDO, t. VI, c. 135; t. XVIII, c. 185; t. xxv, c. 203, ecc.

Fra le altre narra di una suor Maria, priora di santa Maria Maggiore, che aveva un’infame tresca con un prete Francesco di sant’Eustachio.
Il prete fu condannato a dieci anni di prigione, e la monaca fu confinata a Cipro (1).
Ogni tentativo di riforma dei conventi fu sempre vano, come furono inutili gli energici provvedimenti presi dal patriarca Antonio Contarini, eletto il di 30 novembre 1508.

Tali tristissime condizioni continuarono anche nei secoli XVII e XVIII, ed erano generali in Europa e nella stessa Roma.
Nè a Venezia il lusso e la mollezza dei conventi di donne erano maggiori che in altre grandi città: forse vi erano e maggiore l’eleganza, e più belle le monache, o più splendidi i ricevimenti, e più ricercate le musiche, il che dava occasione a scandali, se non più frequenti, certo più numerosi.

Si contavano da trentaquattro a trentacinque monasteri in Venezia, e in alcuni si menava vita ritirata e pia, ma in altri invece le monache si coricavano e s’alzavano non secondo la regola, ma secondo il talento; pregavano in coro quando più loro piaceva e, invece di digiunare, mangiavano ogni sorta di dolciumi e di ghiotte vivande.
Molte avevano preso il velo costrette dai genitori, e nella solitudine del chiostro vagheggiavano mille immagini di bellezza e di piacere.
Si facevano per esse corredi come se andassero a nozze, e, anche dopo proferiti i voti, proseguivano nelle abitudini mondane, si acconciavano elegantemente, con busto di bisso a piegoline, capelli arricciati e col seno mezzo scoperto (2).
In lieta e piacevol maniera si passavano le ore di solitudine; e potevano rivaleggiare colle conversazioni delle case patrizie quelle che si tene-

(1) SANUDO, t. iv, c. 143, 22 agosto 1502.

(2) Nell’opera del Racinet (Le cost. Hist., Paris, Didot 1876, livraison 1re) sono effigiate una Benedettina di san Zaccaria elegantemente vestita e scollata, un’Agostiniana in abito bianco e col busto ricamato, e un’altra Benedettina colla cuffietta e col ventaglio.

-vano nei parlatorî, dove i rinfreschi erano a dovizia profusi e dove facevano bella mostra di sè le giovani suore in tutto il fiore della loro fresca avvenenza.
E il silenzio del chiostro era perfino interrotto da trombe e pifferi, e talvolta dalle grida liete di giovani patrizi che ballavano colle monache (1), le quali non di rado osavano uscire notte tempo insieme coi loro amanti.
Quindi non esagerava di molto quel satirico che in un libello contro Venezia, scritto in Roma nel tempo dell’interdetto di Paolo V, faceva delle monache venete la seguente descrizione:

« Le monache sono in Venetia in numero grande et per
« ordinario tutte nobili, per che tutti quei Clariss.mi che
« hano figlie femine, da putte le mettono nel Monasterio
« e come per forza le fano far monache, per non spendere
« tanto nelle doti, che sono grandissime, e per lasciare i
« maschi ricchi; da che nasce che come monache sforzate
« et havendo il fomento della nobiltà e licentiosissime et
« indisciplinabili dicono publicamente, che già che se sono
« fatte monache per forza, vogliono fare il peggio che pos-
« sono; e quando vi sono stati prelati che l’hano volute
« riformare, con violenza, l’han cacciati e col braccio de
« Clariss.mi parenti hano ogni cosa revocato, quindi è che
« vivono senza spirito e devotione. Vestono alcune Monache
« più lascivamente con ricci, con petti scoperti, quasi dell’i-
« stesse seculare, e molte hano loro innamorati, i quali
« usano spesso a visitarle e confabulare, essendo tra loro
« continuo trafico de presenti, e perchè quasi tutti Monasteri
« hano quattro e cinq. couerse, che vano per la Città cer-
« cando elemosina e facendo altri servitij, molte ne ser-
« vono come per Ruffiane; e perchè per abuso va una
« vecchia et una giouane accopagnate insieme, la giovane

(1) SANUDO, t. VIII, c. 147, 23 maggio 1509. « Alcuni patricij zoveni, nel tempo che la Badessa nova electa feva el suo pasto, a la Zelestia in monasterio con trombe e pifari, serati balono tuta la note con le monache. »


« ben spesso fa del male. Il Carnevale molte se ne masca-
« rano, et i loro innamorati con le gondole vengono a pi-
« gliarle, e poi a piedi vano per tutta la città e festini, e
« tornano quando gli pare; e l’ano passato in un Monastero
« de’ principali furono trovate gravide un numero grande,
« e perciò furon fatti prigioni molti, che solevano prati-
« carvi, e processati con grandissimo rigore, e convinti del
« delitto, mentre in quella furia volevano farli morire, un
« Senatore salì in Arrenga in Senato e persuase che questi
« tali no si facessero morire, perchè cosi venivano ad
« infamarsi lor stessi, essendo del sague loro, e che però
« saria stato meglio assolverli e dichiararli innocenti, che
« così si restituiva l’honore al Monasterio e a loro stessi, e
« che si facessero partorire segretamente e si spargesse voce,
« che quel moto era stato fatto dalle male lingue; e la
« proposta parse tanto ragionevole, che così fu ottenuto » (1).

Da tutto ciò è facile comprendere come nell’ovile di Dio dovesse non rade volte comparire l’austera figura del magistrato. Durante il secolo XVI il Consiglio dei Dieci vietò i colloqui delle monache con persone estranee, minacciò severe punizioni a chi avesse condotto monache fuori del convento: non permise che il frate potesse ascoltare la confessione che dalle finestre della chiesa: proibì i pranzi in occasioni di vestizioni, cercando ogni mezzo a fine di regolare la non bona e licentiosa vita de monasteri de monache (2). Ma i frequenti processi (3)

(1) Biblioteca Corsiniana in Roma. Relatione del Stato, Costumi, Disordini et Remediis de Venetia. Ms. del sec. XVII (Col. 39, Bå 7). Forma parte di una Miscellanea che porta il titolo seguente: Raccolta di varie scritture e maneggi fatti sull’affare dell’Interdetto di Paolo V, pubblicato contro la Serenissima Republica di Venezia, con suo Indice di carte 4 nella seguente facciata.

(2) Arch. di Stato — Misti, c. x, 1514, 9 agosto, reg. 37, c. 73 tergo. — 1514, 30 agosto, c. 92 t. 1519, 4 maggio, reg. 43, c. 22 t. 1547, 22 giugno, Comune, reg. 18, c. 34 t.

(3) I processi relativi ai conventi, che si custodivano negli Archivi del Consiglio dei Dieci, furono distrutti. Nell’archivio dei Provveditori sopra monasteri si conservano però ancora venti grosse buste di processi, quasi tutti per mal costume.

mostrano che i rimedi non erano sufficienti a prevenire ed estirpare il male. Sceglieremo qualche triste esempio di scostumatezza monastica negli ultimi due secoli della repubblica.

Intorno al 1645 una tal Cecilia Ferrari, d’umile condizione, si propose d’educare ed allevare figliuole povere ed orfane, loro insegnando i lavori d’ago. In breve si sparse la fama della sua pietà, e potè trovare i mezzi per fondare un ospizio, nel quale si raccolsero fino a trecento fanciulle.
Un nobile di casa Ruzzini offerse gratuitamente un grande e bellissimo palazzo alla Ferrari, la quale potè erigere in Padova sotto la sua direzione un altro ospizio che andava a visitare di quando in quando.
Coi lavori d’ago Cecilia ricavava ogni settimana dai 400 ai 500 ducati, e le case più doviziose gareggiavano nel fare elemosine all’ospizio.
Quand’ecco Cecilia viene accusata al tribunale della Santa Inquisizione di colpe infami, e si scoprono nel processo turpi delitti. Un contemporaneo ne fa una pittura efficace:

« Divenuta superba, Cecilia cominciò a vagheggiare se stessa, voleva mostrar sembiante di persona esemplare col portar di sopra un’ habito di lana fratesco alquanto ruvido, ma sotto teneva vesti di seta et oro, calzete di seta ricamate, e qualche gioia.
Haveva diviso l’ospizio in due parti con ingiunzione di non poter visitare le figliole nemeno da’ propri padri e madri, senza la sua assistenza, e senza l’ordine d’uno dei capi del Consiglio dei Dieci; tenute le predette donzelle sotto l’ubbidienza, e severi rigori di non trasgredire, nè manifestare le regole dategli. »

E qui si narra particolareggiatamente come molte fanciulle fossero ammaestrate sotto il rigore della sferza , e come ad alcune predilette era data licenza d’introdurre notte tempo nell’ospizio i loro amorosi in habito mentito.

« Questa donna », continua il documento, « o divenuta pazza o troppo acciecata dalla vanità, si era fatto lecito di fare le fonzioni di sacerdotessa col celebrar messa e poi far l’atto di comunicar le figliole, dalle quali si faceva venerare non altrimenti che fusse papessa, con farsi baciar il piede: et alla sua andata in Padova, o ritorno in Venezia, le predette figliole andavano fino alla porta dell’ospizio processionalmente ad incontrarla, e riverirla con la croce, cantando Te Deum laudamus, Te Cecilia veneramur.
Dava ad intendere di havere spirito profetico, mediante le confessioni delle donzelle, da lei udite dietro un tavolato del confessionario, che haveva assegnato al confessore, in ascoltarle senza che lui avesse mai potuto accorgersi di tanta frode.
Onde n’è seguito che le povere figliole accortesi, ch’era rivelata la lor confessione, cominciarono ritirarsi da confessare i peccati più gravi, e conseguentemente andarono a ricevere dal vero sacerdote l’eucaristia.
Dava ad intender spesso le visite dei santi e dei beati, coi quali tenesse colloquij spirituali; ma alla fine si è scoperto esser state visite di amorosi umani.
In qualche hora di orazione mostrava atti di esser rapita dalla contemplazione, e due o tre volte trovatasi da una di sue maestre essere stata chiamata per qualche facenda importante, ella senza darli risposta attendeva a dire: oh che soavità, oh che gloria, oh che diletto è la visione del paradiso! Diceva che sua madre all’hor che la diede alla luce, non sentì dolor del parto, e la partorì con un’erba alla bocca; volendo inferire, ch’era venuta al mondo, per viver d’herbe, e per nutrire i poverelli d’altri cibi.
In somma questa donna con le severe regole date in ospizio di non doversi palesare le azioni, e facende, e modi di vivere, che si teneva dentro, pretendeva di farsi stimare per una beata, e si persuadeva che non potessero scoprirsi le sue sporcherie di godersi con suoi amorosi, e di dar a godere le più belle figliuole.
Fu pubblicamente martedì mattina condotta al tribunale della Santa Inquisizione, lesse ad alta voce le sue colpe, all’udita de’ quali tutti gridavano: fuoco, fuoco. Gli fu fatta abiurare l’eresia, e poi il padre inquisitore disse: – Cecilia, ti doniamo tutte le depositioni fatte contro di te da gran numero di testimonij e solo con li tuoi constituti, e con li testimonij da te prodotti, ti condanniamo in sette anni di prigione, obbligo di recitar ogni giorno una corona del Rosario, digiunare una volta alla settimana, confessarti e comunicarti una volta al mese.
Al che ella rispose: – Mi appello da questa sentenza alla Santa Inquisizione di Roma. – Al che, notata l’appellazione, soggiunse il detto padre: – Pensaci bene e penseremo ancor noi, per far in questo medesimo luogo ritorno hoggi otto venturo – » (1).

Fra i tanti esempi dei mali gravissimi che portavano le forzate professioni monastiche, il più celebre fu quello di Arcangela Tarabotti, nata in Venezia da famiglia bergamasca nel 1605. Costretta ad undici anni, e contro il suo volere, a prendere il velo nel chiostro di sant Anna, incominciò subito a sentire un odio invincibile pel suo nuovo stato.
Sola colle sue angoscie, coi suoi desideri, colla sua anima ardente e vaga di affettuose emozioni, le parve che tutto intorno a lei fosse orribilmente muto e desolato, e fu monaca solo di nome, ma non d’abito, nè di costumi, quello pazzamente vano, e questi vanamente pazzi.
Cercò distrazione negli studi, e fra le altre opere che la resero illustre fra i contemporanei, scrisse la Semplicità ingannata, l’Inferno monacale e la Tirannia paterna, quest’ul-

(1) Arch. di Stato Genovese. Carteggio diplomatico, Roma, B4 32.
Questo documento, che dobbiamo alla gentilezza dell’egregio nostro amico L. T. Belgrano, segretario della Società Ligure di storia patria, fu trasmesso alla Repubblica genovese da Ferdinando Raggi, agente della stessa, presso la Corte papale. Le cose narrate sono tanto sin. golari, da dubitar perfino della loro verità. Nei veneti archivî non ne abbiamo trovato conferma, ma non possiamo non prestar fede all’autorità dell’ambasciatore di una potente e gloriosa repubblica. Del resto abbondano esempi di profonde corruzioni nei monasteri.

tima posta all’indice dei libri proibiti. Gli avvertimenti saggi del cardinale Federigo Cornaro, patriarca di Venezia, fecero ravvedere Arcangela, la quale si rassegnò alla vita del chiostro, e a riparo dei libri precedenti, ne scrisse altri di ascetici (1)

Procedeva il tempo, e i costumi cadevano più al basso. Non v’era monaca di bella apparenza, la quale non avesse parecchi corteggiatori (2).
Il Presidente de Brosses narra che nel 1739 tre conventi si disputavano l’onore di offrire un’amasia al nuncio pontificio, che doveva giungere a Venezia; di che lasciamo ogni responsabilità all’elegante, ma un po’ leggiero viaggiatore.
Nei parlatorî, dove alcune volte si davano festini, le venete vestali ridevano, erano avide di pettegolezzi, si occupavano della cronaca più intima della città e vivevano colla mente fuor delle mura claustrali (3).
Il Lamberti, che fu l’ultimo poeta allegro di Venezia repubblicana, descrisse, con uno stile trascurato, ma ricco di vivacità e schiettezza, i monasteri del secolo scorso. Ecco le sue parole:

« Benchè nei monasterj tutto spirasse devozione, reli-
« gione e modestia, gli effluvj dell’aria mondana, che per
« mezzo del parlatorio si comunicavano a quei chiostri ,
« contaminavano a passo a passo la purità di quella che
« in essi spiravasi, E nuove forme avendo preso i costumi
« e lo spirito nazionale, e resesi più frequenti le visite ai
« parlatorj e la convivenza coi secolari, tanto si avvici-
« narono alla società, quantunque si fosse stabilita in tutti
« i monasterj la clausura, che sul cadere del XVII secolo,

(1) Cicogna, Iscriz. venez., vol. I, p. 135. TARABOTTI, Lettere famigliari e di complimenti. Venezia, Gaerigli, 1650.

(2) Il BUSINELLO scriveva:

La monega ch’a Dio xe consacrada
Xe ogni di alle finestre col so amante.

(3) Il Longhi in un quadro che è al Museo Civico ha rappresentato il parlatorio delle monache di san Zaccaria, che ha l’aspetto di un elegante salotto. Nel mezzo del parlatorio v’è un castello di burattini!


« e sino quasi alla metà del XVIII i parlatorj furono i ridotti
« delle più qualificate persone d’ambo i sessi, e le monache
« figurarono ed influirono singolarmente (1). Le donne, e
« principalmente le dame, a cui per una certa severità di
« costume non era permesso di sortire dalle loro case e di
« conversare cogli uomini, se non se nelle pubbliche fun-
« zioni, ne’ casi di sponsali, di nozze e di vestizioni di mo-
« nache e nei tempi che erano permesse le maschere, trova-
« vano una risorsa nella loro ristretta condizione, visitando
« le monache e frequentando i loro parlatorj, risorsa che,
« qualunque essa fosse, riusciva di un qualche sollievo alla
« monotonia della loro vita. Nè poteva esser ad esse vie-
« tato di portarsi in quei sacri luoghi, come quelli che non
« dovevano spirare che santità e religione. Ma siccome il
« bel sesso trae con insensibile forza gli uomini, natural-
« mente destinati ad ammirarlo, a prestare ad esso una
« specie di culto, così, coperti da lodevoli pretesti di pa-
« rentele, di divozione, di pietà e beneficenza, se li videro
« a poco a poco concorrervi anche essi. I giovani, gli uo-
« mini di matura età, gli accigliati barbassori, e perfino i
« più qualificati ecclesiastici, assistevano a quei crocchi,
« e divennero i parlatorj le più fiorite conversazioni di
« moda a quel tempi (2). Fu allora che le monache assun-
« sero lo spirito sociale il più raffinato, unirono alle ma-
« niere secolaresche e ai modi più seducenti quella riser-
« vatezza e decenza che ne accrescono ognora l’efficacia,
« e si coltivarono perfino nelle belle lettere » (3).
Queste monache, che si rivolgeano ai negozi terreni più

(1) Qui nota il LAMBERTI: « Parlasi sempre di monasteri, di regole non austere, che erano la maggior parte; mentre negli altri pochi, come quelli di Cappuccine, Eremite e simili, vissero sempre le monache nella più esatta osservanza della loro regola, e totalmente segregate dal mondo. »

(2) Anche qui nota il LAMBERTI: « Veggansi i quadri dei parlatorj del celebre pittore Longhi. »

(3) LAMBERTI, op. cit.

presto che ai celesti, rendendosi necessarie agli uomini di governo e alla minuta plebe, non durarono fino agli ultimi anni della repubblica. Allorchè Venezia agonizzava, fu bandita dai parlatorî ogni gaiezza, e le melense monachette , come le chiama il Lamberti , passarono il tempo fra i sermoni e le messe, i tortelli e il cioccolatte.
Chi avrebbe potuto comparare questa vita modesta e pia colle usanze splendide e corruttrici , che alla metà del secolo aveano trasformato alcuni conventi in luoghi di piacer disonesto?

Il Governo continuò sempre a studiare ogni modo a fine di reprimere nei monasteri i disordini, che talvolta erano originati dai preti confessori.
Nel 1758, ad esempio, monsignor Giustinian, vescovo di Murano, significava agli Inquisitori di Stato, come il monastero di santa Chiara in · Murano, fosse pieno di turbamenti, a causa del confessore abate Calogerà, il quale aveva detto esservi fra le monache una strega e due ossesse.
Il Tribunale faceva intendere all’abate che doveva ben guardarsi da qualunque corrispondenza diretta o indiretta col convento di santa Chiara, e raccomandava in pari tempo al Vescovo la destinazione di un confessore prudente.
Furono provvedimenti inutili, giacchè, il 18 marzo 1759, un’altra nota degli Inquisitori ci avverte che erano state scoperte false chiavi in dosso ad alcune monache, le quali aveano intenzione di fuggire, e che l’abate Calogerà era pienamente informato d’ogni cosa.
Il Tribunale allora avverte l’Abadessa ad avere l’occhio al contegno delle religiose, e confina senza più il Calogerà alla Badia della Vagandizza (1).

Ma se i monasteri non erano immacolati santuari, di chi è la colpa ? esclama uno scrittore di cose veneziane, non meno accurato che vivace. Nei genitori che sforzavano le figlie a rendersi religiose, che condannavano tante inno-

(1) Arch. di Stato – Inquisitori di Stato, anni 1755, 1759.

centi fanciulle a quella vita di sacrificio. Ai miserandi casi della monaca di Monza, resi immortali dal Manzoni, noi possiamo soggiungere la storia di Maria da Riva.
Maria, nata di gente antica, fu costretta, benchè renitente ai voti, a seppellire il fiore dei suoi anni nel convento di san Lorenzo.
Ma, come ella medesima confessa, non poteva adattarsi alla professione monastica, per la quale non era stata mai chiamata, nè da Dio ispirata.
Il Froulay, ambasciatore francese in Venezia, che aveva la procacità e lo spirito di avventura propri del suo paese, vide un giorno al parlatorio di san Lorenzo la monaca da Riva; se ne invaghì e fu riamato con quell’ardore che ispirano la lunga prigionia, i desiderî combattuti, le lotte incessanti.
La passione di Maria non ebbe più alcun ritegno; ella seguiva in maschera il Froulay tra lo splendore dei festini, e, solo quando apparivano i primi albori, rientrava nascostamente in convento.
Ma gl’Inquisitori ebbero sospetto della tresca, e fecero proibire alla Riva di più comparire al parlatorio per vedere il Froulay; il quale, ritenendosi offeso da questo divieto, ricorse a Parigi, e incominciò quindi una serie di conversazioni vivaci tra lo Zeno, ambasciatore veneziano in Francia e il guardasigilli Chauvelin.
Stimolato dall’ambizione e dai nuovi ostacoli, il Froulay, uomo sulla cinquantina, risoluto ed ardito, non volle abbandonare la pratica scandalosa; finchè, dopo qualche tempo, la Riva fu trasportata in un monastero di Ferrara, dove essendosi innamorata di un colonnello Moroni, fuggi con lui dal chiostro e si condusse in Bologna a celebrare le nozze (1).

Non è difficile immaginare come il celebre Casanova, che dovette conoscere a fondo i casi della da Riva, se ne sia servito nelle sue memorie per colorire le avventure della monaca M. M. e dell’ambasciatore Bernis, nelle quali, come è ben noto, attribuisce così larga parte a se stesso.

(1) FULIN, Studii nell’Arch. degli Inquisitori di Stato, pag 431 e seg. Venezia, 1868.

Tratto da Google Libri
La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica
Di Pompeo Molmenti