Giuseppe Cottolegno

Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo

Imbruniva. Nella sagrestia della chiesa del Corpus Domini in Torino, passeggiava soletto e pensoso un buon canonico. Pareva che volgesse in mente qualche gran progetto, perché lui – abituato ad un sorrisetto bonario ad un far trasandato – era a capo chino e si tormentava colle dita le labbra.

Ad un tratto si volgeva allo scaccino:
– Va, dà quattro colpi di campana.
– Per far che?
– Dà quattro colpi di campana e accendi due candele all’altare della Madonna.
Chiamate dall’insolito suono, accorrevano alcune donne del popolo ed oravano col buon canonico senza sapere il perché.

Finita la preghiera, il canonico raggiante di gioia esclamava:
– La grazia è fatta.
E scompariva nella mistica penombra del tempio senza dir altro.
Un’ora dopo il canonico Cottolengo si trovava a mensa coi colleghi della collegiata della Trinità.
– Sentile, cari miei, oggi ho provato una gran pena che m’ha suggerito un’opera buona. Siatene giudici. Verso il mezzogiorno, mentre mi trovavo in sagrestia, fui chiamato in fretta per assistere una moribonda qui vicino, all’albergo della Dogana vecchia. Povera donna! era una certa Giovanna Gonet, giunta ieri da Milano col marito, un milanese, certo Pietro Ferrario, e tre figliuoletti e si dirigeva a Lione sua patria.
Doveva ripartire stamani, quando l’incoglie un male così triste e pericoloso che il medico ne ordina il trasporto immediato all’ospedale.
Ma si! al San Giovanni la rifiutano perché prossima a diventar madre, alla Maternità la respingono perché affetta da malattia pericolosa, al Mauriziano perché il regolamento s’oppone alla accettazione di malati forestieri; insomma dopo un triste pellegrinaggio viene ricondotta in fin di vita all’albergo, dove giungo in tempo per confortarne l’agonia. Intanto nasce un bambino e muore, il padre dà in ismanie e pare, che perda la ragione, i bambini mi s’aggrappano alla veste e vogliono ch’io ridoni la mamma!…

Ho pianto, ho consolato, ho dato qualche sussidio, ho fatto tutto quanto ho potuto per mettere un po’ di calma in quegli infelici; – ma purtroppo chi è morto giace, e i superstiti non possono aver pace. Chissà se la poveretta soccorsa in tempo, non avrebbe vinto il male! ed è certamente doloroso. – anzi vergognoso. – che in Torino le Opere Pie respingano sotto questi pretesti i malati forestieri e in pericolo. Io avrei pensato di appigionare una camera, mettervi quattro letti e assistere i poveri infermi che sono respinti dagli altri ospedali…. Questo discorso, fatto alla buona ma con quel calore che gl’infondeva il gran desiderio di far del bene, convince i canonici, i quali fanno plauso alla sua iniziativa e lo incaricano di metterla in esecuzione.

Così nasceva l’Opera della Piccola Casa della Divina Provvidenza, nel 1828. Il 17 gennaio, pochi mesi dopo il fatto su accennato, il Cottolengo apriva il Deposito della Volta Rossa: quattro letti in due camere. Il suo primo fastidio fu quello di non aver subito i malati, perché egli,nella gagliardia del desiderio di far la carità, non si trovava bene che tra poveri ed ammalati.
Strano, ma vero! Anche negli anni seguenti, quando si trovò a capo di mille e più poveri infermi, non sbigottì mai del crescente numero di tribolati che cercavano da lui cure e tetto.
Egli aveva nella Divina Provvidenza, una fede cosi robusta che avrebbe tolto a proteggere il mondo intiero senza inquietarsi mai, perché egli strappava alla provvidenza del cielo soccorsi miracolosi.
Il deposito della Volta Rossa in meno di un anno s’accrebbe di parecchie camere, poi occupò tutto un piano e divenne un vero e proprio ospedale.
Nel 1831 per tema del colèra fu chiuso e le camere riadattate ad abitazione. Il Cottolengo non si preoccupò di questo contrasto. Un dì per la contrada d’Italia (l’attuale via Milano), è fermato da una fanciulletta sui dodici anni che gli domanda l’elemosina.
– E perché non lavori? Sei sana come una pera e vai accattando?….
– Padre, sono cenciosa, nessuno mi vuole. I miei parenti non hanno cura di me, non ho persona che mi soccorra, altrimenti lavorerei.
E il Cottolengo pensa che a quell’età i pericoli sono grandi e sono molti, la prende con sé, la conduce nelle camere del deposito della Volta Rossa e dà principio alle famiglie delle Orsoline e delle Genoveffe.
E di queste famiglie o riunioni ne fonda molte, per fanciulle, per bambini, per vecchi, per scimuniti, per ciechi, per sordomuti, per epilettici, ecc.

Nel 1832 il Cottolengo ritorna colla sua “Piccola Casa” e cerca di trapiantarla in altra località. Uscito a diporto per la via solitaria che conduce al cimitero di San Pietro in Vincoli, detto San Pier de’ cavoli, a cagion de’ molti orti circostanti, adocchia una casupola, perduta nella quiete campestre. L’acquista, l’adatta, vi ripone i suoi ammalati.
E poi aggiunge un braccio di edificio al casolare primitivo, poi un altro braccio, acquista altre catapecchie, qualche appezzato d’orto, congiunge queste disarmoniche case per mezzo di cortili, alza un muro di cinta tutt’all’intorno e fonda la gran città dove ogni miseria, ogni marciume di corpi viventi in dissoluzione, ogni sventura sono rappresentati.
Qual regola reggerà quest’opera immane?
Nessuna. Ogni povero o infermo o derelitto od orfano ha diritto di ripararvi e di trovar pane e riposo.
Quali fondi sosterranno la spesa quotidiana?
Nessuno. La carità di tutti basterà a provvedere il necessario ai ricoverati, i quali forse non sapranno mai a chi debbono gratitudine, perché i benefattori dell’ospizio sono quasi sempre ignoti allo stesso Cottolengo. Essi mandano i loro aiuti e si nascondono nel silenzio.
Si potrebbero citare centinaia di aneddoti che dimostrano la fiducia di quell’uomo meraviglioso nella generosità dei buoni, ed egli non esitò mai un istante nell’accingersi alle opere più ardue ed alle spese più ingenti.
Un dì Carlo Alberto, re di Sardegna, gli mandò un ministro di Stato perché colle buone maniere invitasse il Canonico desistere da nuove imprese. L’uomo di Stato visitò e vide meraviglie, il buon Canonico alla porta dell’ospizio accoglieva tutta quella poveraglia che a frotte si presentava a lui, senza dimandare se fossero cattolici od ebrei, piemontesi o turchi.

– Signor Canonico, ora ne avrà abbastanza, non è vero? Come farà a provvedere ai nuovi arrivati?
– Scusi, signor ministro, Ella avrebbe diritto di farmi quest’ osservazione quando la Piccola Casa fosse opera mia. Ma essa è istituzione della Divina Provvidenza, ed Ella non, ha diritto di fermare l’opera di Dio.

Un altro giorno il Re lo faceva chiamare al palazzo reale.
– Canonico, io lodo immensamente la sua carità. Ma mi hanno riferito ch’ella non tiene alcun conto delle entrale e delle uscite. Non ci sarà pericolo che i suoi creditori ne abbiano poi a soffrire?
– Maestà, e quando mai s’intese dire che la Provvidenza abbia truffato qualcuno? La Provvidenza soddisferà anche i debiti della Piccola Casa.
– Sta bene questo, ma se Ella venisse a morire, l’ospizio non avrebbe fondi, non credito, non un successore che come lei sapesse provvedere ai bisogni di tanti miserabili.
Il Cottolengo allora fece due passi verso la finestra, e indicando la sentinella che stava di guardia alla cancellata:
– Maestà, riprese, vede là quel soldato? Fra un quarto d’ora avrà finito il suo turno e se ne andrà. Un altro verrà a sostituirlo e la guardia non mancherà mai alla porta del suo palazzo. Cosi è della Piccola Casa. lo non sono che la sentinella. Altri verrà dopo di me e monterà la guardia. Noi siamo i soldati: la divina Provvidenza è la vera fondatrice dell’Ospizio.

E così è avvenuto. Al Cottolengo è succeduto il canonico Anglesio, a questi l’attuale canonico Bosso, ma la Piccola Casa non ha pericolato mai.
Carlo Alberto, maravigliato di tanta carità, voleva prendere sotto la sua protezione la Piccola Casa, ma al Cottolengo sapeva male questo patrocinio regio che dava un carattere ufficiale all’Ospizio. Trovò modo di schermirsene celiando:

– Maestà, la Piccola Casa è già sotto il patrocinio della divina Provvidenza, e san Vincenzo de’Paoli l’ha presa sotto i suoi auspici. Avrei paura che questi benefattori si offendessero se dessi ad altri il patronato dell’opera. Lasci quei che ci sono. E vi rimasero.

La Società francese Monthyon e Franklin gli decretó la medaglia d’oro della virtù, e gli fu presentata dal duca di Savoia, Vittorio Emanuele II. Il Cottolengo non potė rifiutarla, ma promise di tenerla solo fino a che i suoi malati non ne avessero bisogno.
Carlo Alberto lo decorò della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, ed ei soleva dire che era la più gran croce della sua vita.

A raccogliere le testimonianze delle virtù singolari di quest’uomo meraviglioso, ci vorrebbero volumi. Egli era il servo dei servi dei poveri, e compiva verso i malati gli ultimi uffici con serenità edificante e sorprendente. Nel primo anno che fondò la Piccola Casa raccolse trecento poveri, dieci anni dopo i suoi ricoverati erano saliti a milletrecento. Le case componenti l’ospizio erano valutate ad oltre un milione di lire, ed il buon canonico in dodici anni aveva consumato in beneficenze quindici milioni di lire.

La Piccola Casa novera presentemente più tremila seicento poveri, sani ed infermi. Quasi cinquanta milioni di lire furono consumate a pro’ di questi infelici nei cinquantacinque anni di esistenza dell’Ospizio. Esso è presentemente una vera città. V’hanno strade, piazze, orti, grandi tettoie, cortili, anditi sotterranei, cavalcavie, portici, lavatoi, laboratori d’arti e mestieri, opifici, forni, ecc. Occupa circa 5 ettari di terreno. Otto sono le famiglie di maschi: tomasini, fratini, vincenzini invalidi, sordomuti, cronici, epilettici, infermi. Ventiquattro le famiglie di femmine: vincenzine, eliane, carmelitane, laidine, sordomute, penitenti, genoveffe, invalide, epilettiche, luigine, inferme, ecc. Sono tanti piccoli mondi che vivono separati e tutti in accordo, che vestono altrettante divise e sono tutte membri dello stesso corpo.

Nell’Ospedale Cottolengo si consumano più di venti sacchi di farina ogni giorno, pei quali si pagano annualmente di dazio circa venticinque mila lire. L’opera paga pure circa cinquanta mila lire all’anno per imposte sui fabbricati e sui terreni.

Di questo grande benefattore dell’umanità ricorse il primo centenario dalla nascita il 3 maggio corrente. Bra, sua città natale, ne celebrò la memoria con feste civili, non potendosi celebrare le feste religiose essendo tuttora in corso il processo di beatificazione. Il Cottolengo nato nel 1786, morì il 30 aprile 1812 in Chieri, lasciando di sè cosi pia e santa memoria che tutti ne levano a cielo la virtù. Egli riunì la modestia all’operosità, la grandezza all’umiltà, l’eroismo alla mansuetudine.

* Il ragionamento del Cottolengo era semplicissimo, Egli diceva: Dio provvede agli uccelli del bosco ed alle fiere del deserto e non ha bisogno della mano dell’uomo per questo. Nello stesso modo provvederà a questi suoi figli sventurati. E infatti, i benefattori maravigliati di quell’opera mandavano somme vistose e abbondanti provviste senza declinare quasi mai il proprio nome.

Articolo tratto da: L’illustrazione italiana rivista settimanale degli avvenimenti e personaggi
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Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo (nato a Bra, 3 maggio 1786 – deceduto a Chieri, 30 aprile 1842 di febbre tifoide) è stato un sacerdote italiano che fondò la Piccola Casa della Divina Provvidenza e congregazioni di fratelli, suore e sacerdoti per gestirla. Si festeggia il 30 aprile.

Per le sue opere venne dichiarato beato da papa Benedetto XV il 29 aprile 1917 e proclamato santo della Chiesa cattolica il 19 marzo 1934 da papa Pio XI. (Wiki)