Festa della Madonna della Salute

Dopo la Dieta di Ratisbona del 1630, ai Veneziani fu restituito tutto il terreno da essi perduto in quella sventuratissima guerra.
Il prospero fine di questi avvenimenti meritava certamente di venir celebrato in Venezia, come sempre usavasi di fare, con feste solenni; ma troppo generale era allora la tristezza per dar luogo a idee di solazzo.
Il miasma pestilenziale erasi già introdotto nella metropoli stessa. La filosofia, le scienze, e tutte le provvide cure del governo non avevano potuto impedire che questo terribile flagello non si dilatasse grandemente.
Ad ottener ciò avrebbe bisognato il concorso unanime di tutte le potenze; ma queste non erano ancora abbastanza illuminate per potere, come si è fatto dopo, relegarlo in Oriente, dove sotto la tutela dell’ignoranza e della superstizione si conserva tuttavia, e sempre si riproduce. I nostri padri non avevano mai cessato di far il possible per distruggere sì fatal malattia.
Tutte le regole, tutti gli ordini, tutti i soccorsi d’ogni genere usati per la pestilenza, particolarmente del 1578, e per altre, furono anche in questo incontro puntualmente eseguiti, ottimamente disposti, ed opportunamente applicati.
Anzi per quel lume che viene dalla trista esperienza, novelle previdenze si aggiunsero in tale occasione; ond’è, che il codice sanitario veneto riuscì poscia sì compiuto, che meritò di venir preso a modello da tutte le più colte nazioni europee.
Ad onta di tutto questo, il mortifero crudelissimo veleno infettava ogni giorno un gran numero di persone. Lo spavento e la disperazione stavano dipinti sul volto di quelli che non ne erano ancora tocchi.
Il Doge Nicolò Contarini ed il Senato, dopo lunghe preghiere e digiuni, risolsero di ricorrere all’intercessione di Maria Vergine, ed alle suppliche aggiunsero il voto di erigere in suo onore un tempio col titolo della Madonna della Salute, obbligandosi di andar a visitarlo tosto che si avesse ricevuto il favore così vivamente implorato. Ed un altro voto pure aggiunsero; di rinovare ogni anno tal visita nel giorno della Purificazione di Maria Vergine.
La peste, che cominciato avea in luglio 1630, e che in sedici mesi avea distrutte nella sola città di Venezia circa 80,000 persone, e più di 600,000 nelle provincie, cessò nel mese di novembre 1634. Immediatamente il Governo si affrettò di adempiere alla solenne sua promessa. Fu scritto agli ambasciatori presso tutte le Corti (siccome si usava di fare ogni qualvolta trattavasi della miglior scelta o di persona o di cosa), affinchè invitassero gli artisti più celebri di tutte le nazioni a spedire i loro disegni o modelli per un Tempio grande e magnifico, da erigersi sul Canal grande, vicino alla Dogana di mare, e degno d’esser dedicato alla Madonna della Salute.
Ma la pietà del Senato non volle indugiar sino alla erezione del Tempio ad attestare solennemente la viva riconoscenza sua e dei Veneti per un sì segnalato benefizio. Dietro gli ordini emanati si vide, come per un prodigio, nel luogo stabilito innalzata in quattro giorni una Chiesa di legno atta a contenere un numero immenso di persone, e fu coperta di addobbi così sontuosi, da non potersi valutare il prezzo. Fu piantato ad una certa altezza un altare, sopra il quale si collocò l’immagine di Maria Vergine.
Apprestaronsi tutti i sedili per il Doge, la Signoria, gli Ambasciadori ed il Senato. E siccome per recarsi dal palazzo pubblico a quel sito conveniva attraversare il gran Canale, si fe’costruire un ponte artificiale, simile a quello che facevasi all’occasione della festa del Redentore, affidandone la cura ai nostri fidi ed esperti arsenalotti, che egregiamente si prestarono in questa e nelle successive occasioni.
La piazza di San Marco venne ornata in maniera da vestire l’aspetto di un teatro magico. Le colonne, i porticati, le finestre, furono tutte guernite di tappeti dell’Oriente, di drapperie di ogni genere, di arazzi e bronzi dorati. Vedevansi in oltre sparse qua e là tele dei nostri più celebri pittori.
Nel mezzo del porticato delle procuratie nuove erasi eretto un palco per il Magistrato della Sanità, sopra cui risplendevano gli stemmi dei patrizii che lo componevano; e questi contornati con una ricchezza mirabile.
Nel mezzo eravi un superbo quadro, opera distinta di Bernardino Prudenti, rappresentante la Santissima Vergine, avente al suo lato San Marco ed il beato Lorenzo Giustinian, ed alla sua sinistra San Rocco e San Sebastiano tutti ginocchioni, in atto di supplicarla della sua efficace protezione nella nostra grandissima sciagura.
Dalla porta principale della Chiesa di San Marco, sino al ponte artificiale a San Moisè sul Canal grande, stavano disposti tanti archi coperti di panno bianco, sotto i quali dovea passar la Processione. Nell’uscir dalla piazza uno di essi, più degli altri magnifico, portava pendenti festoni di lauro e pitture eccellenti.
Uno di consimile ve ne era pure all’imboccatura della strada che conduceva al ponte, ed un altro alla testa d’esso ponte. Allorchè tutto fu in pronto, pubblicossi il giorno della festa solenne, che fu per questa sola volta il 28 novembre.
Allo spuntar di questo giorno videsi, con istupore universale, il sole sì lucido come se fosse la bella stagione di primavera, benchè i giorni precedenti fossero stati oscurissimi per nebbia e per pioggia. All’ora di terza Sua Serenità, vestita nella sua maggior gala, ed accompagnata dal suo augusto corteggio, discese dalla Chiesa di san Marco, dove trovavasi tutto il Senato. Prese egli il suo luogo, e tutti gli altri similmente.
Il Magistrato di Sanità, ch’era al suo posto nella Piazza di san Marco, ordinò ad uno dei suoi Comandadori d’annunziare ad alta voce al pubblico, che per l’intercessione della Santissima Vergine Maria, l’Onnipossente Iddio aveva accordato la grazia di liberar Venezia e tutte le sue provincie dal terribile flagello della peste.
Questa tanto sospirata proclamazione, fu seguita da altissime grida di gioia della moltitudine, dal suono dei sacri bronzi, dal rimbombo dell’artiglieria, e dallo strepito delle trombe e de’tamburi.
Poscia si celebrò nella Basilica di San Marco una Messa solenne con musica bellissima. Indi cominciossi la processione.
Degno di ammirazione fu in essa lo sfarzo delle argenterie, e delle cere esposte dalle grandi Confraternite ed anche con debita proporzione dagli Ordini religiosi; ma più ammirabile apparve la divozione edificante di tutti i patrizii accorsi per mettersi spontanei nella processione colla loro torcia in mano.
Un numero ragguardevole di cittadini, mercadanti ed artisti, si posero essi pure nelle file; e la plebe stessa accompagnò la religiosa cerimonia portandovi un cuore ugualmente ripieno di gratitudine e di divozione. Cantossi nella nuova Chiesa il Te-Deum, che venne ripetuto da ciascheduno coll’accento della maggiore sensibilità; indi tutti rientrarono nelle loro abitazioni.
In questo modo finì quel commovente spettacolo. Ma il Governo Veneto non poteva certo credere di aver fatto ogni cosa in quest’occasione. Malgrado le immense spese sostenute nella guerra di Mantova, e ne’sedici mesi che durò il contagio, volle spargere in questo giorno molte largizioni ai poveri delle parocchie, agli ospitali e ad ogni ospizio bisognoso; ed offerse con ciò una bellissima lezione, che per adempiere ad ogni dovere della religione non bastano le preghiere, le genuflessioni ed i picchiamenti di petto, ma che fanno d’uopo sopra tutto gli atti di umiltà, di perdono e di beneficenza.
Poichè io qui scrivo più per i forestieri, che per i miei cittadini, credo bene di aggiungere qualche parola sulla Chiesa votiva, affinchè non possa mai correr sospetto, che un Governo fedele alle sue promesse, magnifico in tutte le sue opere, possa essersi contentato della semplice Chiesa di legno, costrutta solamente per non ritardare la decretata funzione.
L’Architetto che meritò la preferenza fu un Veneziano, chiamato Baldassare Longhena. Fec’egli un lavoro così mirabile, sia per la pianta del Tempio, che per la cupola, per la facciata grande e magnifica, e per l’imponente aspetto dell’ insieme, da far dimenticare gli errori del suo genio sregolato. Oltre la grande estensione di questa Chiesa, e l’abbondanza di marmi rari e preziosi, vi si ammirano e dentro e fuori un gran numero di statue dei migliori artisti di quel tempo. Io non entrerò in dettagli più minuti intorno a questo nobilissimo edificio.
Molti accreditati autori, fra’quali primeggiano l’illustre Ab. Moschini ed il sig. Quadri, ne parlarono da veri intendenti. Pure non saprei, come grande amatrice qual sono della Pittura, passar sotto silenzio i quadri che vi si trovano del Pittore della Natura, del nostro celebre Tiziano. Quivi pure, come nel palazzo Barbarigo, ammiransi raccolte in uno tutto le gradazioni dell’arte sua; la sua gioventù, la sua virilità, la sua vecchiezza sempre vigorosa. Osserviamo in prima sulla porta della Sagrestia quel San Marco seduto ad una certa altezza, avendo sotto di sè i Santi Sebastiano, Rocco, Cosimo e Damiano.
Tu in esso scorgi lo studio dell’imitazione de’ suoi maestri, sia nell’aria dei volti, che nel colorito; pure in quelle belle teste, particolarmente in quella di San Sebastiano, come anche nel panno bianco che gli ricopre una parte del corpo, tu vedi lampeggiare il suo genio creatore. Ma innalza gli occhi alla volta.
Non fremi tu alla vista del feroce Caino che sta immolando l’innocente suo fratello Abele? E non ti senti vivamente commosso al sagrificio dell’ obbediente Isacco? Non godi tu stesso della Vittoria di Davide sul gigante Goliath? Qual espressione in tutte quelle fisonomie! qual verità, qual disegno in tutti que’corpi seminudi, in quelle mani, in que’piedi! E chi mai lo eguagliò in quella perfetta cognizione del sotto in su?… Questi è il nostro Tiziano giunto al suo apogèo, al sublime dell’arte.
Ora rientriamo nel Tempio. L’invenzione, la composizione, l’espressione, per così dire, inspirata d’ogni testa nel quadro della missione dello Spirito Santo sopra gli Apostoli, ci fanno conoscere subito un’opera di lui; il colorito però c’indica che la sua vista viene indebolendosi; senza neppur saperlo, potrebbesi quasi quasi indovinare ch’egli avesse allora settantaquattro anni.
E qual altro pittore mai, fuor di Tiziano, avrebbe potuto dipingere oltre i settant’anni que’quattro Evangelisti ed i quattro Dottori della Chiesa, che, separati ciascuno in otto ovali, ci rapiscono, ed esaltano l’immaginazione anche degli stessi professori, per quei tratti franchi e sicuri? Arrestiamoci particolarmente su quel San Matteo, in cui al nostro pittore piacque di trasmetterci il proprio ritratto.
Possa quest’immagine venerabile servir di modello al ritratto da esser posto sopra un monumento degno di sì grand’artista, già le tante volte progettato senza effetto, benchè sempre più desiderato!

Tratto da Origini delle feste Veneziane
Di Giustina Renier-Michiel
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