Di Enrico Castelnuovo
Io non sono azionista di nessuna società ferroviaria, non ho garantito (ci mancherebbe altro,) il prodotto chilometrico di nessun tronco, non mi appassiono troppo nelle questioni del riscatto e dell’esercizio governativo, non ho un trasporto straordinario per le frasi di metodo sul fischio della locomotiva che è l’araldo della civilta’, ecc., ecc.; eppure vi dico: viaggiate in strada ferrata.
Non c’è un modo migliore di raccogliere osservazioni, di tener desta la fantasia. E non è punto necessario di accingersi a viaggi lunghi, di andare da Venezia a Pietroburgo e da Pietroburgo a Parigi. Basterà di tanto in tanto una breve corsa di un paio d’ore.
Se volete seguire per intero il mio consiglio, prendete il biglietto di seconda classe e scegliete i treni omnibus. Vi spiego subito il perchè. La terza classe è troppo incomoda; troppi uomini che sanno d’aglio, troppe donne sgangherate, troppe galline che legate insieme per le zampe e cacciate sotto i sedili fanno uno strepito d’inferno. La prima è troppo compassata; troppi Inglesi che consultano la guida del Baedeker e il dizionario tascabile, troppi senatori e deputati che discorrono di politica, troppi banchieri, troppi conti, troppi baroni. Nella seconda classe invece trovate la maggior varietà di tipi, quindi la più ricca fonte di osservazioni.
Quanto al treno omnibus, per chi non ha fretta, esso è di gran lunga il migliore. Coi treni diretti la compagnia non si muta che a grandi intervalli; invece coi treni omnibus è un continuo succedersi di figure diverse, come per effetto di una lanterna magica. — Ma, — direte voi, — se s’incontra una compagnia piacevole che gusto c’è a mutare?
Questa domanda mostra in chi la fa una grande inesperienza del vero carattere del viaggio in ferrovia dal punto di vista ond’io amo considerarlo. Anche astraendo dal fatto che le compagnie piacevoli non sono le più comuni, è indubitabile che l’impegnarsi in un dialogo nuoce al raccoglimento necessario all’osservazione.
Nel viaggio di ferrovia, come io lo intendo, è utilissimo il non imbattersi in nessuna persona di conoscenza, e l’andare a rilento prima di mettersi a conversare cogl’ignoti. Il carattere dei proprii simili s’indovina meglio quando tacciono che quando parlano con gente veduta per la prima volta. E, in strada ferrata, il meglio che si può fare a questo scopo è di rannicchiarsi in un angolo, aprire un libro e guardar di sottecchi. Non è poi una grande indiscrezione; a ogni modo è una indiscrezione che, qual più qual meno, commettono tutti. Che in compartimento si sia in quattro, in otto o in dieci, è certo che questi otto, sedici o venti occhi s’incontreranno con piglio scrutatore.
Si principia sempre nella stessa maniera. Le sacchette, le valigie portatili, gli ombrelli, gli scialli sono collocati alla meglio sulla reticella, le donne raccolgono le sottane, gli uomini si stringono quanto più possono, qua e là è bisbigliato qualche scusi sommesso, a cui succede un cerimonioso oh la prego; poi tutti si lagnano della Società ferroviaria che vuole stipare la gente nei carrozzoni come le sardelle in barile, tutti rilevano con impaziente ironia gli interminabili gridi di partenza senza partir mai; c’è l’uomo arguto che paragona la macchina che si provvede d’acqua ai cavalli a cui si dà la biada; c’è la donna di spirito che al sentir il campanello, al cui suono si parte davvero, dice con un sorriso pretenzioso: Ecco il campanello della messa. Finalmente il convoglio esce dalla tettoia e si stabilisce un certo silenzio. Guardiamo un po’ intorno a noi.
Trovo a questo proposito i ricordi d’una gita recente. Chi è quella signora dall’aria sentimentale, seduta presso il finestrino a sinistra con un libro in mano? Prima di tutto un’occhiata di sbieco al libro. Se non si può vedere il titolo contentiamoci per ora dei connotati esteriori. Formato in—12.°, coperta gialla; ahimè! indizio gravissimo, sulla coperta una macchia d’unto. La lettrice dovrebbe essere una cameriera. La letteratura della cucina ha quasi sempre questo segno caratteristico. Una cameriera? Eppure le vesti sono abbastanza eleganti. Sì, ma quando le si osservi con un po’ di attenzione si vedrà che sono vesti piuttosto fruste; senza dubbio gli abiti usi della padrona.
Però il vis—a—vis maschile (un giovinotto in calzoni caffè e latte e panciotto bianco a fiori lilla) non ha questi sospetti o è superiore ai pregiudizi di casta e comincia a slanciare alla viaggiatrice certi sguardi di fuoco che fanno temere un incendio. Il primo raggio di sole che entra nella carrozza dà appiglio alla conversazione: — Vuole tirare la cortina?…
Aspetti…. Ecco qua. — Poi c’è un buffo di vento importuno. — Vuol chiudere il vetro? — Se non disturba a lei. — Anzi, le pare? Ecco fatto. —
Questi due sono messi in movimento. Lasciamoli stare. Proprio di fronte a me c’è un bellimbusto in guanti chiari che par poco soddisfatto della compagnia. Nella signora che legge egli ha fiutato la cameriera e non vuole sprecare per essa le sue occhiate da conquistatore, nè si degnerebbe a ogni modo di competere con quel tipo di garzone di negozio che le fa la corte; la sua vicina immediata ha una circonferenza di due metri e una buona quarantina d’anni sulle spalle, e una giovine che è con lei e siede alla mia sinistra è magra e gialla come una carota. Il bellimbusto, esaminate tutte queste cose, si leva i guanti. Fra la signora magra e la cameriera patetica siede un uomo di mezza età e in occhiali, che tiene spiegata davanti a sè la Gazzetta dei Prestiti. Dirimpetto a lui, il numero dei quattro si compie con un vecchietto sudicio e tabaccone che va mangiando ciambelle e raccoglie e beccola le briciole che gliene cadono giù pei calzoni.
E il treno cammina, e gli alberi piantati lungo la strada paiono correrci incontro rapidamente, e i fili del telegrafo per una strana illusione ottica sembrano alzarsi e abbassarsi a vicenda, e i cantonieri ritti, impalati dinanzi alle loro garette, fanno il segnale d’obbligo, e la macchina fischia, rallenta il suo corso e si ferma alla prima stazione. Movimento. La signora grassa e la signora magrissima discendono. Un oh di soddisfazione esce da tutti i petti. Si amerebbe che scendesse anche il vecchietto sudicio, ma egli rimane e seguita a mangiar ciambelle e a raccoglierne le briciole con la punta del dito bagnata sulla lingua.
Restano due posti vuoti. Chi li prenderà? La gente passa davanti allo sportello e guarda dentro. Poi si ritira. Non le piace la compagnia. Il bellimbusto è inquieto e pare in forse di cambiar vagone. Quand’ecco il conduttore che precede due passeggieri e addita loro i due posti. Entra prima un signore maturo e urta nelle gambe della cameriera esageratamente protese verso quelle del suo vis—a—vis.
Al signore maturo tien dietro una giovinetta vispa, saltellante, vestita di percallo bianco e celeste, la quale con un passo di grazia evita l’ostacolo che arrestò un istante il suo signor padre e viene a sedersi proprio vicino al giovinotto elegante. Costui si ricompone, infila di nuovo i guanti e prende un atteggiamento pari alla circostanza. Il convoglio si muove. Il giovinotto, prima di riaccendere il sigaro che si è spento, chiede alla sua vicina se il fumo la disturba, e la vicina risponde con un garbatissimo — No, grazie.
Il signor padre intavola un discorso con la persona grave che ha in mano la Gazzetta dei Prestiti. La questione d’Oriente è il tema della conversazione. — Povero Abdul Aziz! Dicono che si sia suicidato, ma chi ci crede? — Lo avranno ammazzato, non ne dubiti. In Turchia si ammazzano tutti i sultani — dice il lettore della Gazzetta dei Prestiti, che è stato a Costantinopoli e conosce gli usi orientali. — Quell’Ignatieff — osserva l’altro con aria di mistero — voleva farla ai Turchi. — Si, e i Turchi l’hanno fatta a lui. — C’è l’Inghilterra. — Un osso duro — Altro! — L’Inghilterra vuole l’integrità dell’impero ottomano. — Se la vuole! ha letto l’articolo dello Standard, organo di Derby? — No signore. — Lo legga e vedrà. — Brutti affari. Perchè la Russia pesca nel torbido. Gran potenza anche la Russia. — Cospetto! Ma in mare l’Inghilterra la supera. — Non si può dir nulla come andrà a finire. — Non si può dir nulla. — Il meglio è stare a vedere.
Mentre i due politicanti deliberano di stare a vedere, il bellimbusto cerca di attaccar conversazione con la ragazza vestita di percallo, ma non riesce a cavarle di bocca che monosillabi. Allora egli si studia di produrle impressione in altra maniera, estrae di tasca un libro, e se lo pone sulle ginocchia in modo che la vicina ne veda il frontispizio e capisca che è un libro francese. Quando egli è ben convinto che la giovinetta ha acquistato questa importante cognizione, egli si mette a leggere, di tratto in tratto ripiega il volume sull’indice della destra e guarda nel vuoto come persona che medita.
Ma non c’è caso; la fanciulla non gli abbada e invece interrompe il padre nel bel mezzo delle sue disquisizioni politiche per chiedergli se prima di uscire di casa si sia ricordato di ordinare alla serva che dia da mangiare al canarino.
Il mangiatore di ciambelle ha lasciato cadere la testa sulla spalliera del sedile e dorme con la bocca semiaperta e con la barba piena di briciole. La cameriera e il suo galante continuano a intendersela molto bene e colgono ogni occasione per toccarsi le mani. Il giovinotto chic comincia a invidiare la sorte del compagno di viaggio meno esigente.
Nuova fermata e cambiamento di scena su tutta la linea. Discendono padre e figliuola, la cameriera, il bellimbusto, l’uomo della Gazzetta dei Prestiti e il vecchietto sudicio. Si resta per un momento in due: il don Giovanni di cucina ed io. Il don Giovanni di cucina, dopo aver seguito con l’occhio sin fuori della stazione la cameriera patetica, vede ch’io non posso certo risarcirlo di tanta perdita, e si rannicchia di malumore nel suo cantuccio.
Secondi avanti, grida il conduttore; sei posti vuoti. Ed ecco in primo luogo due signore in lutto strettissimo, poi una famigliuola di tre persone, marito, moglie e un bimbo di tre anni. Il marito mette a posto una sacchetta, una valigia di cuoio spelata, due ombrelli, uno sciallo, una cappelliera di cartone. Senza dubbio è un impiegato traslocato. Per due volte egli porta macchinalmente la mano al taschino del panciotto e la ritira con un gesto che non tradisce la più schietta soddisfazione dell’animo. Si rischia poco a scommettere che il pover’uomo ha impegnato in questi ultimi giorni l’orologio. La moglie ha un cerchio ribelle, che per quanto ella faccia, prende le più strambe posizioni e tiene alzata la gonna fino al collo del piede. Non ci guadagna proprio nulla. Il piede della signora è brutto per sè ed è reso ancora più brutto da un paio di stivali da uomo. Saranno stivali dimessi dal marito.
Il bimbo che sarebbe bellino non brilla neppur esso per buon gusto nell’abbigliamento. Invece c’è da scommettere che egli non istarà mai fermo, e comincia a cascarmi addosso appena il convoglio si rimette in moto. Poi piagnucola perchè non è presso al finestrino, nè può vedere gli alberi. Affine di chetarlo, lo faccio venire nel mio angolo, lo sollevo ritto sul sedile e lo tengo perchè non cada.
Ma di li a un minuto gli viene una voglia irresistibile di tornar dalla mamma e senza cerimonie eseguisce il gran passaggio sulle mie ginocchia. Scandalo e scuse dei genitori. Il marito mi conferma a bassa voce che è un impiegato traslocato. Non osa lagnarsi del suo destino perchè teme lo si traslochi un’altra volta. Tanto e tanto bisogna ringraziare il cielo che non sia accaduto di peggio. Era a Treviso e va a Lecce. Una bagatella di oltre a mille chilometri di distanza: ma se lo mandavano in Sicilia?
Mentre lo ascolto distratto, la mia attenzione si ferma sulle due signore vestite a bruno. Son giovani ancora, non però giovanissime, e hanno un aspetto triste e patito. Non parlan nemmeno fra di loro e tengono il viso basso e il velo calato. A un punto una d’esse, come per un segnale convenuto, tocca con la mano il ginocchio dell’altra, e alzando il velo spinge la testa fuori del finestrino.
La sua compagna fa lo stesso. Vinto dalla curiosità, guardo anch’io da quella parte. Non vedo sulle prime che una lunga distesa di campi; poi fissando la pupilla in lontananza, mezzo nascosta da una macchia d’alberi, discerno a fatica una casetta bianca sormontata da una banderuola metallica che scintilla ai raggi del sole. È là che le due donne appuntano gli sguardi, nè li rimuovono finchè la casetta bianca non scompare dall’orizzonte. Allora una d’esse, la più giovine, quella che ha l’aspetto più addolorato, si porta rapidamente una mano alle labbra e invia un bacio alla cara visione. Poi entrambe riabbassano il velo e ritirano il capo nell’interno della carrozza.
Quella stessa che inviò il bacio passa, sotto il velo, il fazzoletto, e si copre gli occhi. Intanto il mio vicino discorre del progetto Depretis sul miglioramento della sorte degl’impiegati, ma io non gli do retta. Penso al dramma intimo di cui le due viaggiatrici abbrunate portano seco il facile segreto, penso alla casetta bianca ove pochi giorni addietro qualcuno dava l’ultimo addio alla luce, penso a questo atto così universale, così costante della morte, eppur sempre cosi nuovo, così misterioso, cosi terribile.
— Adesso non si può; a momenti, alla prima stazione — dice la signora impiegata al suo bimbo. Il bimbo strilla un poco, quindi s’acqueta e ripiglia i suoi pellegrinaggi da una parte all’altra della carrozza. Fa caldo, la conversazione s’interrompe, le teste diventano pesanti, gli occhi hanno una tendenza a socchiudersi. Quand’ecco il silenzio è interrotto da una fiera protesta del giovinotto dai calzoni color caffè e latte, il quale, mentre sonnecchiava, senti lungo le gambe una impressione assai poco gradevole e incolpa del fatto il fanciullo, che ad avvalorare i sospetti, si trova precisamente da quella parte.
I genitori si profondono in iscuse, ma la vittima non si calma così presto.
— Non si conducono in viaggio bambini di questa età.
Questa proposizione stravagante fa montar la mosca al naso al Travet.
— Oh si…. Anzi un funzionario traslocato non condurrà seco la prole.
— E allora bisogna sorvegliarla, — replica il giovinotto guardando con stizza i suoi calzoni caffè e latte che presentano l’aspetto di una carta geografica.
Questo era il punto vulnerabile, e l’impiegato slancia un’occhiata fulminea alla sua metà che stava catechizzando il fanciullo e brontolava quasi parlando a sè stessa. — Sorvegliare…. sorvegliare…. Son cose presto dette…. Un folletto di tre anni…. Vorrei che il signore fosse al mio posto.
— Sicchè, a sentir la signora, dovrei ringraziare… chieder scusa io.
E giù un’altra occhiata alle gambe.
— Non dico questo; anzi scusi, ma santo Iddio, senza un po’ di pazienza a questo mondo…. Ce ne abbiamo tanta noi impiegati…. E poi, stia certo, non lascia macchia….
Il battibecco minaccia di non finir più quando il fischio della locomotiva annunzia l’avvicinarsi di un’altra stazione. Era quella a cui dovevo scender io e per buona ventura della famiglia del Travet anche il giovinotto, vittima del fatale accidente.
— Corpo di Satanasso! — esclama costui levandosi in piedi e guardando sempre quei benedetti calzoni. — Come si fa adesso?
— Perdoni, non ha un plaid? dico io intervenendo nella questione.
— Sì, signore.
— Lo tenga in modo che le cada sul davanti…. Così…. Benissimo…. Adesso non si vede nulla.
— Ma un bel gusto, sa, con questo caldo a tenersi il plaid fino ai piedi.
— Crederanno che abbia le febbri intermittenti….
Il peggio sarebbe….
— Che si vedesse…. Capisco….
— Dunque dei due mali il minore…. Oh non c’è tempo da perdere…. Qui il treno non si ferma che un mezzo minuto.
— Scende qualcuno? — dice il conduttore affacciandosi allo sportello.
— Sì, due.
E siamo in terra d’un salto.
— Ecco due posti, — ripiglia lo stesso conduttore voltandosi verso due viaggiatori, che dopo essersi accommiatati con molti baci da un gruppo di parenti e di amici cercavano una carrozza di seconda classe in cui salire.
Questi due non lasciano dubbio alcuno sull’esser loro. Sono due sposi novelli. Lo si vede all’aspetto raggiante, al vestito accurato, all’abbandono soave con cui la giovinetta si appoggia al braccio del valido marito. Entrati che sono nello scompartimento essi rinnovano l’addio agli amici e ai congiunti. I loro volti ilari che si toccano quasi nel vano del finestrino fanno un singolare contrasto con le fisonomie malinconiche delle due signore abbrunate: il loro saluto alla lieta schiera che li ha accompagnati alla stazione è ben diverso da quello che le due donne avevano mandato prima alla casetta bianca perduta nella campagna; per la coppia felice l’avvenire è tutto gioia e speranza. Chi sa che vicende le riserbi la sorte?
Il treno s’è dileguato, ma ancora si vede fra gli alberi il suo pennacchio di fumo. È scomparso anche il viaggiatore dai calzoni color caffè e latte. Il guardiano della stazione (una piccola stazione intermedia) mi squadra con curiosità dalla testa ai piedi. Che cosa faccio? Che cosa penso? In verità non faccio nulla, non penso a nulla…. Ma, dopo tutto, in due ore di ferrovia, che avvicendarsi di persone, che contrasto di faceto e di serio, e per chi conosce la voluttà del sorriso e delle lagrime, che miniera inesauribile di sensazioni!
Articolo tratto dal libro: Alla finestra di Enrico Castelnuovo.
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Enrico Castelnuovo (12 febbraio 1839 – 16 febbraio 1915) è stato uno scrittore italiano che ha avuto un ruolo attivo nel movimento di unificazione italiana. (Wiki)