DUE NOVELLE IN UN VIAGGIO

Ero un bambinetto di forse nov’anni, quando un giorno il mio povero babbo venne a farmi una visita là nel paese dov’egli m’avea messo con un buon prete a studiare. E il dì innanzi a quello ch’e’ ripartisse, presomi amorosamente in sulle ginocchia (sebbene egli procurasse di nascondere agli occhi miei il bene grandissimo ch’e’mi volea), presomi dunque in collo mi parlò presso a poco in questo modo:

«Giacchè il Piovano m’ha detto che tu sei stato buono e che hai avuto sempre voglia di studiare, io ti menerò a casa a far la Pasqua e starai con noi fino alla Domenica in Albis; e se tu seguiterai a portarti bene e imparerai, anche per le altre solennità io ti farò un regalo com’è questo».

Io che a star lontano dalla mamma, dal babbo, dai fratelli, dalle sorelle ci pativo tanto, provai una consolazione, un contento, una gioia per questa nuova inaspettata, che balzai giù dalle ginocchia del babbo, e mi detti a correre e saltare per la stanza, come se già fossi colla persona là dove in un istante ero volato col pensiero. Mio padre mi guardava tranquillo e sorridente; ma vedendo poi che lo schiamazzo andava in lungo, s’alzò e mi disse: «È vicino a notte; andiamo a salutare il Piovano, e poi ceneremo e anderemo a letto, perchè domattina a levata di sole dobbiamo partire».

Avete mai veduto uno di questi cuccioletti quando si menan fuori? che danno una corsa innanzi, poi tornano indietro, spiccano un lancio, vi saltano addosso, vi si cacciano tra piedi, urlano, abbaiano e fanno tante pazzie, che quasi quasi vi noiano. Così feci io per tutta la strada: sorte che èramo in campagna. E tanto il pensiero di ritrovarmi in famiglia mi teneva dolcemente agitato, che in tutta la notte non potei chiudere occhio.
Alla fine quando fu vicino a giorno, stanco di tanto almanaccare e di tanta veglia, mi si chiusero gli occhi e m’addormentai; ma se il corpo riposava, non riposava però lo spirito, che seguendo quel filo di pensieri già incominciato, i sogni erano la mamma, i fratelli, le sorelle, tutta casa mia.
E quando appunto in ragione della stanchezza avrei incominciato a gustare un po’ di quel sonno quieto e profondo che è benefico dono della natura alla fanciullezza, sentii la voce di mi’ padre che mi chiamava, ch’egli era già ora di partire.
Balzai dal letto e in un attimo fui vestito. Ma guardate un po’! quella nuova inaspettata del giorno innanzi m’ avea tanto scompigliato la testa, che in un battibaleno ero corso coll’ immaginazione a casa mia senza neppur pensare in che modo avrei fatto quel viaggetto; perocchè mio padre non aveva altro che un cavallo a sella, sul quale egli era venuto.
E questo pensiero mi cadde in mente quand’eramo proprio vicini a partire; mi cadde in mente a un tratto e mi stordì, sicchè dopo vestito rimasi immobile e grullo senza saper che mi fare.
Il babbo, andavo fantasticando fra me, non può aver fatto celia, egli è un uomo serio, non si piglierebbe di queste confidenze, ma dall’altra parte qui non si troverebbe nè un calesse, nè un cavallo a pagarli a peso d’oro.

Chi sa quanto mi sarei lambiccato il cervello, se il babbo vedendomi a quel modo meditabondo e serio, non avesse interrotto il filo di questi nuovi pensieri, col dimandarmi perchè tutto ad un tratto m’ero cambiato.
Io gli dissi francamente la verità, e lo pregai a levarmi di pena; ed egli amorosamente sorridendo mi prese per mano, e nel tempo che si scendeva la scala mi diceva: «Non hai veduto mai questi contadini che stanno un po’ lontano, come fanno quando vengono a cavallo qui nel paese a qualche festa e portan con seco qualche bambinetto?» Ci pensai per un momento, e poi tutto allegro gridai: «Ho capito, ho capito: il babbo sta sulla sella e il figliolo in groppa».

«E così faremo noi».

Infatti non era ancora mezz’ora di sole, quando si viaggiava in verso Siena in quella conformità. Da principio la faccenda andò bene; il fresco di un mattino d’aprile fiorito e sereno, il pensiero più sereno e più fiorito ancora che fra quattro o cinque ore mi sarei trovato a casa mia, il vedermi sulla groppa d’un grosso cavallo, che avrebbe vinto in pazienza e in bontà una pecora, erano tutte cose, che mi davano una dolce commozione e mi tenevan gaio e svegliato.
Ma dopo un’ora di viaggio queste novità avevan cominciato a invecchiare, e a poco a poco sentii che perdevano il loro potere sull’animo mio; e invece faceva capolino insidiosamente un traditore, al quale non parea d’avere avuto la sua parte nella notte passata.
Questo traditore si chiamava il sonno; e io lo sentivo; lo sentivo perchè mi si metteva a cavalluccio in sul collo e mi faceva abbassare il capo, lo sentivo perchè parea che mi tirasse la rena negli occhi, e persino mi faceva dimenticare tutto il presente e il vicino futuro, verso il quale m’ero mosso con tanta gioia.
E mio padre, a cui non era isfuggito quanto avessi dormito poco la notte, s’accorse ben tosto delle insidie che mi tendeva quel traditore del sonno; se n’accorse, perchè sentiva che le mie piccole braccia non gli stringevan più la vita, ed egli avvolte le briglie al pallino, tenea le mie nelle sue mani; e lo sentiva anche, perchè spesso spesso avveniva che per quegli inchini del capo gli desse delle capate.
Egli dunque tentò molte vie per frastornarmi il sonno; ora m’accennava a destra un bell’albero fiorito e mi domandava che pianta fosse, ora a sinistra mi mostrava un fortilizio e mi diceva come si chiamava, a chi era appartenuto in antico e chi lo possedeva al presente; un’altra volta m’avrà detto dove portava una certa strada o un certo viottolo, un’altra che borro era quello che si vedeva laggiù in quello sprofondo, di dove veniva e dove metteva; ma tutte queste distrazioni valevan poco e talvolta nulla, e non v’era modo di tenere fermo il capo, che non andasse a battere dietro la vita di mio padre.
Una volta poi fu così forte la scossa che se ne tenne offeso perfino il mio berretto, il quale credè bene di saltare in terra.

«Tutto il male non vien per nuocere,» disse mio padre, fermando il cavallo. «Andiamo, scendi pian pianino ch’io ti reggo, ripiglia il berretto, e poi ti ritirerò su in groppa». E così fu fatto; ci volle però tempo e destrezza, e soprattutto quella pazienza esemplare del nostro cavallo.

Questa operazione, come aveva preveduto il babbo, giovò per tener lontano alcun poco il sonno; ma come avemmo passato a guazzo l’Arbia che è a mezza via, e ci fummo messi per un’ erta ombrosa che va salendo piuttosto risentita su per un bosco di querci, il sonno ritornò con impertinente insistenza e ricominciarono gl’ inchini e le capate. Mio padre che aveva con me tanta pazienza, perchè mi voleva altrettanto bene, non mi sgridò mica, ma tenendomi al solito per le mani, colla briglia fermata al pallino, mi disse: «Figliol mio, io aveva fatto proposito di tenerti divertito per questo viaggio, ma siamo già a mezza strada, e tu non ti sei ancora scordato di dormire».

«Perchè, babbo?» domandai io cogli occhi imbambolati, senza sapere quel che mi dicessi. «Perchè ti volevo raccontare una novella, che tu non ha’ mai sentito; ma a questo modo è meglio che mi risparmii il fiato». Voi sapete il gusto che hanno i ragazzi a sentire le novelle; io poi che n’ andavo matto, e mio padre lo sapeva, sentii tutt’ a un tratto andarmi via il sonno, e feci le più larghe promesse di star desto e attento.
Allora mio padre mi disse: «Ell’è la novella della GATTA DI MASINO: o sta e senti». E principiò così: (1)

«Al tempo che Berta filava, e fors’anco prima, e’ v’era in certi luoghi, molto da questi lontano, un vecchio rifinito e cadente che per tutta la sua vita avea avuto addosso tanta miseria, che neppure una volta gli era riuscito di cavare il corpo di grinze. Ed ora condotto agli estremi della vita, chiamò presso di sè i due suoi figlioli, Goro e Masino, e così disse: «lo sento che sono arrivato dappiedi alla mia strada; povero entrai nel mondo e povero n’esco, e questa è tutta la mia consolazione. Quello che posso lasciarvi, o figlioli, è un Vaglio e una Gatta; il vaglio lo do a te, sai, Goro; perchè con quello tu vada a girare il mondo e tu campi la tua vita vagliando; ma guarda di non ismettere mai di lavorare per qualunque fortuna tu potessi avere, e non ti venisse-

(1) Questa novella non è tolta dal noto libro del Perrault, come forse alcuno potrebbe darsi a credere, ma da lo punto de li cunti de Gianalesio Abbatutis, che è una raccolta di novelle, scritte in dialetto napoletano, innanzi la metà del secento, dal cav. G. B. Basiles. Questo libro, che a suo tempo fu tradotto anche in qualche dialetto italiano, è già noto ai bibliografi, ma innanzi che a loro fu ben noto al Perrault, il quale, oltre a questa novella, ne portò via di peso altre quattro, senza dir niente a nessuno.

-voglia di dormire nemmeno una notte lontano dal tuo vaglio, ch’e’ ti piglierebbe la ruggine e non potrebbe far più l’ufficio suo. E se anche la gente, vedendoti girar sempre il tuo arnese, ti dicessero per canzonarti: «Gira, Goro,» non te l’aver per male, fa orecchi di mercante e tira innanzi». E poi voltato il capo dalla parte di Masino, gli disse: «E tu pigliati la gatta, voglile bene e tienne di conto; e sappi che se tu la liscerai per el verso del pelo, buon per te; ell’è una coppa d’oro, che ti può fare il più fortunato uomo del mondo. Ma bada, bada, figliol mio bello, di non la strapazzare, di non le fare sgarbi, perchè quant’ell’è saputa, altrettanto ell’è risentita e trista; e tieni a mente che se non se la può legare al dito, e’ se la lega bene all’ugnone e a’ denti occhiali».

Dette queste parole, il vecchio serrò gli occhi e spirò; e dopo ch’egli fu sotterrato, Goro pieno di belle speranze e di buona volontà si caricò il vaglio sulle spalle, e via pel mondo a campare col suo faticoso mestiero. Ma Masino era tristo e dolente; e recatosi sulle ginocchia la gatta, la guardò un pezzo e poi disse: «Meschino a me poveretto, che trista redità m’è toccata! Una gatta! Così invece di fare le spese per me solo, bisognerà ch’e’ le faccia a due. Eh! gatta mia, se non t’importa lo stentare, si farà una vita beata. Se almeno tu fossi stata un cane, anderei a caccia; se fossi stata un asino, ti porterei alla fiera, o anche al bisogno ti scorticherei e venderei la pelle; mi sarei contentato se anche eri un galletto, perchè almeno ti potevo allungare il collo, e per un giorno scialarla; ma una gatta! Povero Masino, o tu sì che ci ha’ dato!»

La gatta ascoltò tutta questa filastroccola a occhi chiusi e facendo le fusa, ma appena Masino ebbe finito di dire, ella aprì gli occhi, gli dette una sguerciata e con grande maraviglia di lui rispose: «Ah Masino, Masino, è proprio vero il proverbio, che l’orzo di piano non è fatto per gli asini di montagna; tu se’ come colui ch’ ha il nèo e non se lo vede; ma io non mi vo’vendicare però; sta e vedrai di quel che son capace».

Masino, tutto stupito che la gatta parlasse, non seppe che rispondere, e avrebbe pur voluto chiederle perdono; ma ella che era più da fatti che da parole, senza metter tempo in mezzo, spiccò un salto e fuggì via. E giunta in riva a un fiume, s’appiatto sotto una vetrice, e stando pur cogli occhi chiusi, parea ch’ella dormisse la grossa; quand’ecco che ‘l caso portò lì presso la più bella tròta che avesse mai notato per acqua. Vederla, saltarle addosso, aggranfiarla e fuggir via con quella in bocca, fu per la gatta tutt’una; e tornata in città andò a dirittura dal re e gli disse: «Sagra Corona, pigliate questa trota, che il mio padrone vi manda». E non finì qui, perchè quella bestia di gatta tornò più e più volte dal re, portandogli sempre a nome del su’padrone ora una lasca, ora un barbio, ora un gadèbano e altri pesci, che sarebbe lunga a rammentare.

E vedendo com’egli gradiva que’regaletti, s’attentò a portargli anche qualche uccello, com’essere pernici, starne, quaglie e lodole, ch’ ella aveva la furbizia d’andare a chiappare la notte quand’e’ dormivano. Una volta poi ella chiappò il più bel fagiano che si fosse mai visto, e glielo portò caldo caldo; e il re maravigliato al vedere un così bell’uccello, disse alla gatta: «Egli è già un pezzo che il tuo padrone mi manda di questi regali, ma fa almeno ch’io sappia chi egli è, affinchè lo possa invitare alla mia corte e ringraziare, qualmente si merita». E la gatta rispose: «Il mio padrone è il più ricco signore del mondo, e si chiama il principe Masino, e se tu vuoi ch’io gli faccia la’mbasciata, fa conto ch’e’l’abbia bell’e saputa; ma quanto al venire da te, subito non potrà, perchè stanotte per isbadataggine delle cameriere s’è bruciato tutto il guardaroba, ed egli è rimasto persin senza camicia. «Questo non fa nulla», disse il re, «tocca a me a rimediarci».
E fatta preparare una paniera della più fina biancheria e d’altri panni da signore, consegnò tutte quelle robe alla gatta, che pensò a portarle a casa sua. E raccontato il caso a Masino e fattagli l’imbasciata, innanzi che fosse mezzodì ella lo aveva presentato al re, che lo ricevette con gran cortesia e lo tenne a pranzo con seco. Il sole era bell’ e tramontato quand’ebbero finito di mangiare e di bere, e Masino, che in tutta la vita non avea mai fatto una scorpacciata a quel modo, si sentiva il capo peso, lo stomaco gonfio e le gambe gli si piegavano; il perchè presa licenza, se n’andò diritto a casa dove fece la più bella dormita del mondo. Allora il re, che rimase a conversazione colla gatta, le domandò dov’erano e in che consistevano quelle grandi ricchezze del suo padrone, ch’egli non ne sapea nulla; e la gatta gli rispose: «Sagra Corona, se vo’non lo sapete, peggio per voi, che dovreste saper tutte le cose; e se così fosse, non vi sareste beccato tanto il cervello per trovare uno sposo alla vostra figliola senza concluder nulla. Avete dunque da sapere che il principe e barone Masino in certe parti lontano di qui, che si chiamano le Maremme, e possiede più di cento ville, e più di cinquanta castella; quanto poi egli abbia di quattrini, nessuno, nè computista, nè ragioniere, nè maestro di casa potrebbe arrivar mai a saperlo, chè in tutte quelle ville e castella egli ci ha oro e argento a palate».
Nondimeno il re non si fidò di tutti questi discorsi, e comandò a certe sue genti che si facessero accompagnare dalla gatta in quelle parti, per vedere se quel ch’ella diceva era la verità. La gatta dunque ce le menò; ma come furono entrate nelle Maremme, ella ogni tanto scappava innanzi, colla scusa di fare apparecchiare il luogo, dove potessero riposarsi; ma veramente ella andava dicendo a tutti i bùtteri, a tutti i bifolchi, a tutti i contadini che trovava, e per le tenute e per le ville e per le castella, che pensassero bene ai casi loro, perchè dietro di lei veniva una frotta di ladroni, che bruciava, rubava e ammazzava. Ma se avean caro di salvare la roba e la vita dicessero che quelle eran tutte possessioni del principe Masino, chè allora nessuno avrebbe a loro torto un capello.

Così i messi del re andarono avanti un pezzo, e da tutte le parti sentivano la stessa musica, finchè poi stanchi di girare, tornarono indietro e dissero al re, che non ci poteva essere nessuno al mondo, che avesse tante ricchezze quante Masino, e che però era degno d’imparentarsi con qualunque più grande imperatore.
Allora il re disse alla gatta, ch’ella aveva avuto ragione a rimproverarlo, perchè innanzi questo tempo non avea pensato a Masino, volendo dar marito alla figliola; ma si scusò facilmente, dicendo ch’egli non aveva mai avuto contezza di lui, e che ora che la sorte glielo aveva messo innanzi, avrebbe riparato a un errore d’ignoranza involontaria.
E avendo di poi pregato quella bestia a adoperarsi per concludere il matrimonio, innanzi che fosse passato un mese, la bella Biancaluce (chè così avea nome la figliola del re) era stata sposa di Masino. E fatte le nozze e finite tutte le feste di corte, che durarono un altro mese, Masino prese la sposa e se la portò nei paesi delle Maremme, dove colla dote avuta dal Re, che era grossa non si può immaginare quanto, comprò per consiglio della gatta tenute, ville e castella, e si fece barone.

Or dunque Masino vedendosi arricchito e doventato un gran signore, una volta prese la gatta in sulle ginocchia, com’ avea fatto il primo giorno che l’avea redata, e le parlò presso a poco in questa conformità: «Povera bestia, che potrò fare io mai per te, che hai saputo adoperare sì bene l’arte e l’ingegno, che di straccione affamato m’ hai fatto un ricco e potente signore? S’io avessi la virtù di farti doventare una donna, tu saresti la prima dama di compagnia della mia sposa.; s’io ti potessi cambiare in uomo, tu saresti il mio primo ministro. Ma giacchè bisogna che tu resti gatta come tu sei, sappi che tu sarai in ogni tempo donna e madonna in casa mia, e resterai sempre e poi sempre presso di me, anche dopo morta; perchè io ti farò fare un’ urna d’oro, tutta adorna di perle e pietre preziose, e la terrò nella mia camera per memoria dei benefizii grandi, che ho ricevuto da te».

La gatta ascoltò questa filastroccola, come la prima, a occhi socchiusi e facendo le fusa; e volendo mettere a prova la gratitudine e le promesse di Masino, eccoti che una mattina la si fece trovare dalla sposa in un viale del giardino tutta distesa, come s’ella fosse morta. Appena Biancaluce la vedde, cominciò a gridare: «Aimè poveretta, che sventura, che disdetta! la gatta è morta, la gatta è morta».
A queste grida corse subito Masino per veder che fosse, e trovata la gatta a quel modo, e’ fece una bella risata e disse: «Al resto di tutti i gatti! meglio lei che io. To’l’urna d’oro che tu va’ cercando, ell’è in fondo alla fogna». E presa quella bestia per la coda si disponeva a scaraventarla in una chiavica, ch’era laggiù disotto al muro del giardino; ma la gatta ch’avea finto e non era morta, quando vedde quella tanta ingratitudine, tutta inviperita gli s’arrovesciò a un tratto su per el braccio, e saltatagli cogli ugnoni aperti agli occhi, glieli cavò tutti e due di netto e disse: E così sia di tutti gl’ingrati, che usano a questo modo con chi gli ha fatto del bene». E poi via di gran corsa lontan lontano, e chi ci badi, la fugge ancora.

Qui mio padre si fermò, perchè la novella era finita; allora io che avevo ascoltato tutto senza batter occhio, e che della fine di Masino non ero rimasto troppo contento, domandai al babbo che era stato di quell’altro fratello, che si chiamava Goro. E il babbo rispose: «Giacchè vedo che tu hai caro le novelle e ti tengono desto, io ti racconterò anco quella di Goro, se tu m’imprometti che per questo altro resto di strada tu non dormirai».

La promessa fu presto fatta e di gran cuore, e mio padre incominciò così:

«Come t’ho detto dinanzi, Goro prese il suo vaglio, se lo caricò a reni, e via a girare per el mondo a cercar di lavoro; ma egli di vagliare non ne sapeva nulla, perchè non era mai stato vagliatore, e però si maravigliava forte che su’ padre l’avesse destinato a quel mestiero. Nondimeno sebbene con ripugnanza, e’ ci si messe; ma il lavoro veniva male, la fatica era dimolta e il guadagno poco; e tanto poco, che avveniva spesso che per isdigiunarsi e’ dovesse accattare un tozzo a’ contadini, e cavarsi la sete all’acqua corrente. E come colui che non avea casa nè tetto, i giorni ch’e’ non trovava da lavorare bisognava che si raccomandasse di qua e di là pe’ poderi e per le fattorie, perchè almeno se non si fidavano di lasciarlo dormire nel canto del foco, si contentassero ch’e’ passasse, come poteva, la nottata in forno o in capanna. Egli era già un pezzo che durava questa vita meschina, e sentiva che da ora in là e’ non ci poteva aver più pazienza, tanto più che da tutte le parti lo canzonavano; perchè i contadini vedendo com’e’ compicciasse poco e non sapesse nemmeno dare il giro al vaglio, e’ gli avean messo nome Vaglia poco, e che è che non è, nel mentre ch’e’ lavorava, gli andavan per di dietro, gli pigliavan con du’dita la falda di quel cappellone da frati, ch’e’ portava, e facendoglielo girare in sul capo come una trottola, e’ gli diceano: «Gira, Goro».
Egli aveva fatto dunque pensiero di lasciare il vaglio in un canto, e mettersi a fare qualunque altra cosa per buscar da vivere, purchè vagliar non fosse; e l’avrebbe fatto davvero, se, quando men se l’aspettava, dalla stessa disgrazia non gli fosse saltata fuori la fortuna. Era un giorno di verno inverso sera, e la neve, che avea principiato la mattina, seguitava a venir giù come fette di ricotta, quando Goro, dopo aver girato tutto il giorno, capitò a una fattorìa, e più per iscusa che per altro chiese da lavorare. «El mi’ omo,» gli disse il fattore, «egli è ora questa di andare a letto e non di cercar lavoro, specie per te. Ma bada, che se tu avessi voglia davvero di vagliare, i’te la potrei cavar cotesta voglia: anzi, giacchè tu ha’ chiesto da lavorare, o vattene o lavora». E senza farlo passare nemmeno in casa perchè si riscaldasse un poco, lo menò a dirittura nel granaio e gli disse: «Mi’, quelle son cento sacca di gran gentile; se di qui alla levata del sole le saranno vagliate tutte, tu arai da mangiare e da dormire in fattoria per fin che non è strutta la neve, e poi vénti monete giùnta: ma se la vagliatura non è fatta, i’ ti farò legnare fitto fitto e poi ti manderò via».
E senza dargli nemmen tempo di rispondere «ci sto, non ci sto» gli voltò le spalle e lo chiuse a chiave li nel granaio. Immaginatevi come rimanesse Goro a sentire quella sonata: intirizzito dal freddo, cascante dalla fame, zuppo fino all’ossa e’ si sarebbe dato anche a’ cani, se fosse potuto fuggir di lì; ma e’ c’era e bisognava starci. Questo pensiero, che gli toccava a fare della necessità virtù, gli dette rassegnazione e coraggio; e preso sulle ginocchia il vaglio, incominciò ad asciuttarlo ben bene e in ogni parte con un cencio, perchè non gli pigliasse la ruggine, qualmente gli avea detto su’ padre.
Ma in questa operazione s’accorse d’una cosa molto strana, che non gli aveva mai dato in occhio: il suo vaglio non era bucato come gli altri, ma aveva certi fori nuovi, che rappresentavano stelle, comete e mezze lune, e più in su triangoli, serpentelli e pesciolini. Nel centro c’era il sole tutto cinto di raggi, e torno torno ai raggi giravan certi forellini minuti come crune d’aghi, che pareano e non pareano lettere.
Goro tutto attento a queste novità non sentiva più fame nè freddo; anzi tanta curiosità gli era entrata addosso, che dopo essersi persuaso che quelle veramente eran lettere, pose il vaglio di contro al lume, con animo di decifrare quel ch’elle dicessero. E dopo aver girato e rigirato, chi sa le volte, quel vaglio, alla fine e’ venne a leggere queste parole:

Vaglio, vaglio delle fate,
Falle ben le tue vagliate,
Vaglio una, due e tre,
Vaglio, su ch’e’ tocca a te.

Se tutti que’segni di mezze lune, di comete, di triangoli e d’altro eran per Goro un mistero, anche queste parole erano un altro mistero; nondimeno dal tutto insieme e’ prese coraggio, e si sentì venire una voglia di lavorare, come non avea mai avuta.
Allora rizzate le pertiche e attaccatoci il vaglio, si volle mettere a lavorare; ma quel benedetto vaglio gli parea che pesasse il doppio di prima, e per quanti sforzi e’ facesse, non gli riusciva a farlo. girare, e intanto andava pensando che volessero dire que’ pesciolini, que’ serpentelli, quelle stelle e quelle parole che avea lette; e non potendo da queste cose staccare il pensiero, una volta si messe persino a ripetere così sotto voce la scrizione: «Vaglio, vaglio». Ma appena ch’ egli ebbe detto l’ultime parole «Vaglio, su ch’e’ tocca a te,» il vaglio principiò a moversi, a scotersi, a girarsi così bene, ch’egli era una maraviglia, e in quattro balletti ebbe bell’ e finito la prima vagliata.
Allora Goro, che ‘ntese il segreto, fece lavorare tutta la notte ‘l vaglio così all’allegra, che innanzi la levata del sole non pur quelle cento sacca di gran gentile eran vagliate tutte, ma anco cent’ altre sacca fra càscola e calbigia.
E quando la mattina venne fattore, che credeva di trovare Goro bell’e stecchito dal freddo e dalla fame, e’ rimase con tanto di naso a veder fatto il doppio lavoro, e come fatto!

E dopo quella volta non` ci fu più nessuno che lo canzonasse quel povero ragazzo e gli dicesse: «Gira, Goro;» ma anzi sapendo ch’e’ lavorava sì presto e sì bene, il lavoro gli piovevá da tutte le parti e guadagnava fior di monete; e quanto avea stentato prima, altrettanto si trovava ora nell’agio e nella dovizia.
Ma tu non credessi, figliol mio, che quel che avvenne a Goro non sia avvenuto e prima e dopo a tanti e tant’altri ancora, e ch’e’ non avvenga tuttavia: ella, vedi, non è cosa punto nuova, perchè quando uno si mette a una professione, a un’arte, a un mestiere, e’ bisogna ch’egli stenti e pata quanto Dio vuole, chè subito alla bella prima non è possibile di trovare arnese, che faccia. E però bisogna mettere il cervello a partito e tirare innanzi, come s’ella fosse tutta diritta e piana; perchè poi adoperando continuo quegli arnesi, e’ si trova ‘l verso ch’egli hanno, e non falliscon più.
Bene, po’ dopo che s’è ‘mparato, bisogna guardarsi da una cosa, che è di strapazzare quegli arnesi, e tanto meno di buttarli via, come sferre d’asino rugginose: questo peccatuccio di superbia e d’ingratitudine costò caro, come tu ha’ sentito, a Masino. Ma Goro, che avea provato il morso del lupo e si ricordava bene degli avvertimenti del babbo, non solo tenne di conto del vaglio anco quand’e’ parea che non n’avesse più di bisogno, ma fatto vecchio e condottosi agli estremi di vita, e’ lo lasciò al su’ figliolo maggiore colle stesse raccomandazioni, com’e qualmente l’avea ricevuto un giorno.

Tratto da:Saggio di letture varie per i giovani
Di Temistocle Gradi
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