Ara belara

Ara belara
Descesa cornara
De l’or e del fin
Del cont Marin;
Strapazza bordocch,
Dent e fœura trii pitocch,
Trii pessit e ona mazzœura,
Quest’è dent, e quest’è fœura.

MOLTE persone avranno sovente udito recitare questi versi in dialetto milanese, ma non avranno saputo interpretarne il senso, come accadde sempre a me, finchè non me lo chiarì un semplice caso.
Era nel verno, e sedea in una sala intorno al fuoco una brigatella di pochi e buoni amici, fra quali parecchi fanciulli che chiedevano di prendere qualche ricreamento: fu proposto il più innocente del guancialin d’oro, che in lombardo è denominato sguralatazza. Consiste nell’inchinarsi uno della brigata col capo boccone in grembo di chi tiene circolo, e sporgere una mano sul dorso col palmo aperto, e i circostanti la toccano e il penitente deve indovinare chi il percosse: se coglie nel vero, questi gli succede nella pena, e si rinnova, finchè piace la prova.
Disputavasi fra i figliuoletti chi dovesse per il primo porsi all’esperimento; e tosto il più grandicello, chiamati tutti i compagni in giro, si mise a recitare i versi che sopra abbiamo riportati, toccando ad ogni parola un compagno, e quello a cui fu riferita l’ultima si tenne dalla fortuna designato.
Piacque il modo disinvolto con cui quel fanciullo avea tirata la sorte; e mentre alcuni vi applaudivano, la sorellina rivoltasi alla madre le diceva: mamma, che vuol dire Ara belara? e la madre e i vicini tutti, per torsi d’imbarazzo rispondevano al solito: non vuol dir nulla.
Era presente una zia, tutta buona, tutta soave, che amava tanto i fanciulli; e di recente sposa e contenta, solo desiderava che il cielo anche di questi la facesse beata a compenso delle afflizioni sostenute nella sua giovinezza; ma l’infelice avea un desiderio, del quale l’essere esaudita dovea riescirle mortale.
Raccolse ella affettuosa quei fanciulli intorno a sè, e soggiunse che quella cantilena era in versi e volevano pur dire qualche cosa, e giovare ne sapessero il significato, come, ella già alcuni anni passati, avealo udito narrare da un buon parroco in una collina di Brianza.
Tutti si strinsero intorno a lei, e quieti quieti la riguardavano colle bocche semi-aperte come per beverne le parole: si associarono ai fanciulli anche gli adulti, desiderosi di sapere quanto avea di sovente invano mossa la loro curiosità.
Allora volto ella uno sguardo dolcissimo allo sposo, che spronato dall’egual curioso desiderio, stava tutto inteso a udirla, e pregatolo piacevolmente a non ridere, se non s’esprimeva da romanziere, così incominciò a parlare.
Dovete sapere, miei cari, che, come narrava quel buon pastore, hanno ben ducent’anni era in Milano un magnifico signore chiamato il conte Marino, di origine Genovese. Siccome in que’tempi i signori credevano ancora, che gli altri uomini non fossero della stessa loro natura, peccava nella sua gioventù di un po’ di superbia, disprezzava i cittadini e fino i pellegrini che viaggiavano allora in gran numero per devozione o alla Scala Santa di Roma, o a San Giacomo di Galizia; ma ne aveva un grave castigo nella pubblica disapprovazione, perchè il volgo il soprannominava Strapazza bordocch, che vuol dire conculcatore dei pellegrini, ed altri credono dei sacerdoti.
Era inoltre sì audace che poco curava degli nomini e delle leggi, perchè faceva di molte prepotenze con certi suoi servi che allora si chiamavano bravi e il volgo per disprezzo diceva pitocchi, e specialmente pessit que’di casa Marino dallo stemma onde avevano fregiate le mazze, che era di tre pesciolini.
Se non che gli accadde in breve un’avventura per cui gli convenne cambiare modi e costumi, e pentirsi della sua vita passata.
Un giorno mentre andava cavalcando per Milano, vide uscire dalla chiesa di San Fedele una giovanetta accompagnata da altri signori, e gli parve tanto avvenente, che credette fossero appena più belli gli angioli del paradiso. Tenne dietro a quella gente e la vide entrare nella casa del Console Veneziano; e chiestane notizie seppe che la giovane si chiamava Ara ed era figlia dell’eccellenza Cornaro, gentiluomo veneziano, che vantava la propria origine dalla regina di Cipro: erano venuti in Lombardia per ricreamento e alloggiavano dal loro Console. Il conte Marino fu tosto preso di quella si grande avvenenza, e più della modestia con cui portavasi la buona tosa; le tenne presso in varj luoghi e sempre più le piacque e tanto se ne invaghì, che la fe’dimandare per isposa al padre.
Ma il gentiluomo il quale sentiva assai la grandigia di una nazione che allora dominava sui mari, rispose non convenirsi alla virtù di giovane veneziana i prepotenti costumi del Marino, nè che avrebbe mai patito albergasse in unile casa Milanese chi nacque nei palazzi eretti sul legno d’India lungo Canalazzo; poichè dovete sapere, che a Milano non si aveva ancora incominciato ad innalzare, come ora de’bei fabbricati, mentre Venezia ne era doviziosa più che ogni altra città italiana.
Ne fu della ripulsa crudelmente corrucciato il conte e più gli accrebbe la brama di ottenere quanto desiderava. Volle prima però accertarsi di non essere sgradevole alla fanciulla; e saputo ch’ella rendeasi ad un ballo nella casa Durini, vi si recò, condusse con lei qualche danza, usandole tutte le cortesie che a gentil cavaliere si convenivano, e s’accorse di non esserle indifferente.
Rinnovata allora l’inchiesta e avutone lo stesso rifiuto, disse, che avrebbe provato come i signori di Milano sapeano domare i pantaloni: i Veneziani dall’innalzare, ove spesso vinceano, la loro insegna che era un leone, godeano chiamarsi pianta-leoni, dalla cui abbreviatura ne derivò loro quel soprannome.
Strettosi ei tosto co’suoi bravi, ordinò con imprudente consiglio di rubare la vergine; nè passarono molti giorni che gli prestò favorevole occasione un’altra festa, a cui la bella Ara fu condotta; poichè nell’uscirne, mentre accompagnata dal genitore stava per salire nel cocchio, le fu sopra co’suoi, e lei gridante invano mercede pose nella propria carrozza e la trasportò al palazzo ove abitava, verso Porta Romana.
Ivi presentò la piangente fanciulla alla propria madre e affidandola alla di lei custodia, rassicurò la trepidante, ch’ei non avrebbe mai osato apparirle innanzi ove fosse sola, e unicamente si era condotto a tanto estremo, perchè le venisse concessa in isposa.
Chiuse tutti gli ingressi della casa, tranne la maggior porta, armò tutti i suoi satelliti e li tenne appiattati nel cortile, pronti a sostenere qualunque difesa; e solo di mazze ornati, pose a continua guardia i tre più forti, due fuori della porta ed uno dentro, per ricevere e dare avviso ai compagni se mai venivano assaliti.
Al nuovo giorno fu un gran rumore per Milano; e il Console del Doge andò dal Governatore di Spagna, chiese giustizia di tanta offesa, e asseverò di farne rendere ragione al potente Senato Veneziano. Ma tornarono tutte vane le ambasciate che se ne mandavano al conte Marino, perchè ei rispondea pur sempre, essere pronto a rendere Ara al padre, se prima glie la assentiva in moglie, e minacciava, se pur le era dinegata, di sposarla nella propria privata cappella. Aggiungeva essere parato ad espiare qualunque colpa, che potesse imputargli la sua vita passata, rendersi degno della virtuosa amata, ma non dargli paura, nè il consolo, nè la Serenissima Repubblica.
Non parve savio partito usargli forza, perchè già si erano stretti a sostenere le ragioni del loro amico contro l’orgogliosa risposta del Cornaro molti signori milanesi, sicchè il governatore si avvide che era muovere pericolosa ventura riacquistare la fanciulla coll’armi, e mettere in sommossa la città. Pensò convenirsi meglio mezzi di pace, e chiamato a sè un savio cappuccino che era presso tutti in grande opinione di santità, gli commise di trovare modo a ricomporre questa grave contesa.
Il saggio veglio primamente resosí al Veneziano signore, ottenne con molte persuasioni di concedere Ara al conte, ove prima gliela rendesse, e accennasse sentire doglianza della grande offesa che gli avea fatto. N’andò poscia dal Marino, e gli parlò gravi e forti parole dell’inconvenevole maniera che avea tenuta; e richiamatogli quanto spettava all’onore e ad un uomo dabbene, profertigli i patti del Senator veneziano, il condusse ad arrendersi.
Fe’ perciò il Conte salire la bella Ara colla propria madre sur un ricco cocchio, e la rimandò al padre. L’accolse trepidante di gioja l’affettuoso parente, e mentre le scambiava teneri amplessi, la savia matrona lo accertava che la figlia di lui era sempre stata in propria custodia e che ella pure desiderava di esserle madre d’amore.
Intanto traeva al Consolato veneziano il conte Marino arredato di splendide vesti alla spagnuola, in compagnia di dodici patrizi milanesi, seguiti da molta turba di servi e di bravi tutti a cavallo. Salito il Marino co’ suoi, ove era Cornaro, gli chiese per isposa la figlia, dicendogli: che s’ella scendea da regia stirpe, avrebbe avuto a marito un concittadino di coloro che aprirono la strada del nuovo mondo; se era figlia d’un probo veneziano, le proferiva un compagno che nella sua vita avvenire avrebbe dimostrato quanto fosse la lealtà di un nobile genovese; che le sarebbero state amiche e seguaci prestanti e virtuose dame lombarde, e che avrebbe albergato in palagio da non invidiare que’ splendidi che si specchiavano nell’adriatica laguna: – avrà dovizie pari a quelle che i suoi padri raccolsero nel commercio di oriente, avrà uno sposo cui niuno vincerà in amarla.
Ondeggiava Cornaro combattuto da diversi pensieri; ma sorto fra loro il venerando cappuccino, li prendea per le mani, e richiamando le promesse, gli stringeɣa in amichevole amplesso. Venne pure chiamata Ara come colomba di pace fra questi sdegni, e fidanzata all’amante.
Dopo alcuni dì furono celebrate le nozze belle e grandi, e il conte Marino banchettò i gentiluomini concittadini al Cornaro e i milanesi, e fece corte bandita a tutti i veneziani che erano a Milano. Ordinò indi che fosse innalzato un magnifico palazzo meritevole della sua sposa nel luogo stesso ove la prima volta l’ebbe veduta, cioè presso la chiesa di S. Fedele. Sorse diffatti questo in breve giro di pochi mesi, tanta fu l’operosità e i tesori che vi profuse il conte, e recatosi ad abitarlo poichè la sua compagna il fece padre di un amabile fanciullo, ivi a lungo vissero insieme fruendo una dolcissima beatitudine. E sì era fregiata di amabili virtù la bell’Ara che ne ingentili i costumi dello sposo, talchè divenne l’amore di tutti; tanto può una buona moglie giovare sull’animo del marito!
Or sappiate adunque che quei versi i quali recitaste sono frammenti di una bosinata scritta da un volgare poeta milanese, quando si fecero quelle nozze: in essi accennavasi alla bell’Ara discesa dai Cornara, doviziosa di molto e fino oro, al conte Marino suo sposo, ai bravi che armati delle mazze coi tre pesciolini, vegliavano il palazzo di lui quando rapì la figlia veneziana.
Ecco pertanto che questi versi non sono senza significato, come tutti credono, e per tali gli ebbe anche il valente poeta Porta, perchè a tradurre certe parole sempre tenute inintelligibili che Dante mette in bocca a Satanasso, sostitui i primi della leggenda di Ara creduta inestricabile. Però giacchè fu mostrato che quelle parole dantesche sono in ebraico, e furono anche svolte assai bene, siccome mi narrò un certo mio maestro che non è lontano, giovi sia nota anche l’origine della poesia milanese, la quale perchè diciate senza errori vi voglio ripetere.
Poichè ebbe recitati que versi col vezzo di ingenuità e di modestia, che le era sì naturale, riprese: però ricordatevi, miei cari figliuoletti, che il conte fe’male di adoperare la forza, sebbene poi con una vita esemplare mostrasse pentirsi e di questo e di tutti i suoi trascorsi: intanto gliene è restata in una tradizione popolare pubblica riprovazione, ove è ancora chiamato con quel brutto soprannome, onde era segnato quando aveva in dispetto i savii. Perciò ponete bene nell’animo, che è sempre buona cosa usare le virtù, e doversi evitare che nelle proprie azioni sia nulla che possa riescire di rimprovero, affinchè passi il nostro nome senza macchia presso quelli che verranno.
Tacque quell’angelica creatura, e tutti guardandola con un compiacente sorriso, parevano dirle, che appunto adorna di tante virtù era ella sempre stata, e i fanciulli tutti lieti del racconto, le volavano quali in grembo, quali alle spalle e la copriano d’innocenti baci. Una lagrima intanto di compiacenza spuntava sul ciglio dello sposo, sventurato! e non sapea essere foriera dell’interminato pianto che l’attendeva, quando in breve, perdendola, dovea rimanere il più misero dei viventi.

Tratto dal libro di Defendente Sacchi
Cose Inutili Volume primo
Google Libri


Dal Vocabolario milanese-italiano, Volumi 1-2
Di Francesco Cherubini

Ara belara

Voci usate dai ragazzi in alcuni giuochi come segue: Per esempio nel giuoco di capo a nascondere qualora siano in due soli recitano questa cantilena:


Ara belara
Descesa cornara
De l’or e del fin
Del comarin ( o del cont Marin)
Strapazza bordocch,
Dent e fœura trii pitocch,
Trii pessit e ona mazzœura;
Quest’è dent, e quest’è fœura;


e alternando un verso per ragazzo, additano nel dire l’ultimo, quale dei due debba andare a nascondersi e quale ricercarne. Se sono in più di due sostituiscono all’Ara belara quest’altra cantilena:


Pan vun, pan duu,
Pan trii, pan quatter,
Pan cinqu, pan ses,
Pan selt, pan vott,
Panigada e pancott.


Mi si assicura che i ragazzi lucchesi nella medesima circostanza dicano a questo modo:

Pan uno , pan due,
Pan tre, pan quattro,
Pan cinque, pan sei,
Pan selte, pan otto,
Casca in terra, e fa un botto
Come un bei salsicciotto;
Cenci cenci rattoppati
Comperati in stracceria ,
Comperati in pelleria,
Comperati in beccheria,
Salta fuori o ladro o spia.

La nostra Ara belara de ses e cornarara ( enigmatica per tutti noi, e forse anche pel nostro Porta che perciò egregiamente la sostituì al dantesco Pape satan Pape satan aleppe) trovò un illustratore nel ch. Defendente Sacchi il quale ne fece una briosa Novella per un almanacco del 1832, da cui il sig. Gio. Ventura trasse soggetto d’un Dramma che intitolò Ara ecc., o sia il Ravvedimento del conte Tommaso Marino. Milano, presso Carlo Vermiglio, 1833.


Palazzo Marino – sede dell’Amministrazione comunale di Milano.

La bella fanciulla Cornaro – Arabella fu trovata impiccata al baldacchino del suo letto