A PROPOSITO DI LITURGIA

di Don Armando Trevisiol

La liturgia è veramente un rebus poco interessante per il popolo cristiano; il linguaggio, i gesti e le vesti sono talmente strani da risultare una recita in costume, piut­tosto che la più sublime azio­ne sacra.
Ritengo sia ormai tempo che la liturgia impari le parole, lo stile e la men­talità degli uomini del nostro tempo.

Cari parrocchiani, il discorso che vorrei farvi oggi non è pro­priamente indirizzato “agli addetti ai lavori”, anzi questi sono invi­tati a voltar pagina perché, per loro, le cose che vi son scritte sono conosciute, scontate, banali, imprecise e forse teologicamente non esatte.
Non scrivo per loro. In parrocchia gli esperti in questo settore sono certamente molto pochi; per questi ci sono maestri sopraffini e libri specializzati, per cui non possono ritenersi né trascurati, né allo sbando, lo vorrei parlare alla gente non preparata, e quella che non s’intende di queste cose, sia perché rappresenta la stragrande maggioranza, sia perché io ho quel tanto di preparazione per cui posso parlare solamente agli “Ignoranti” in questa materia.
Di frequente si sente parlare di preti, di liturgia, di preghiera liturgica, di vesti e di segni liturgici. Il sacerdote normalmente ado­pera questi termini con disinvoltura quasi si trattasse di pane co­mune, di pane integrale, o di pane all’olio o con l’uvetta.
Non so però se i più sappiano che cos’è questa benedetta liturgia. Anzi, a dir il vero, so che per la stragrande maggioranza la parola “liturgia” è una parola pressoché misteriosa e magica, che non dice assolu­tamente nulla! Allora oggi vorrei spiegarvi con semplicità che cosa sia questa “liturgia”, o meglio che cosa dovrebbe essere; perché sono convinto che quello che è, lo è solo in teoria, ma in pratica spesso finisce per non soddisfare il motivo per cui è nata. Liturgia, dice il vocabolario, è il modo pubblico e solenne con cui il popolo dei credenti manifesta il suo amore, la sua gratitudine e la sua lode al Signore.
In una parola, essa si esprime con la Santa Messa, i Vesperi, i canti, l’acqua santa, l’incenso, le vesti che il prete mette durante le funzioni religiose, i gesti che compie, la parola che dice, il comportamento che tiene sull’altare e il modo con cui la comuni­tà dei credenti manifesta al Creatore la sua gratitudine e la sua ammirazione.
La liturgia è quel modo di pregare assieme, un po’ ereditato dall’antica tradizione cristiana e un po’ costruito oggi, teso ad esprimere a Dio la riconoscenza, la lode, la richiesta di aiuto. L’insieme di orazioni, di canti, di gesti, con la cornice delle vesti e dell’ambiente dovrebbe creare canali e tensioni capaci di esprime­re quello che c’è nel cuore della comunità cristiana, che si riunisce per parlare al suo Signore e per ascoltarne la parola. Tutto questo dovrebbe risultare da un sapiente ed armonioso assemblaggio tra “pezzi” levigati dal tempo e parole, musiche, colorì e segni colti dal linguaggio corrente.
Non a caso però ho detto che questo assemblaggio dovrebbe essere sapiente ed armonioso, perché capita, e non di rado, che si determini, per poca intraprendenza, per pigrizia o per mancanza di sensibilità, che il tutto si sclerotizzi in forme statiche e sorpassate, per cui lo strumento non è più capa­ce di trasmettere al cuore della comunità, finendo per ridarsi ad un linguaggio arcaico, incomprensibile e di cattivo gusto, bisognoso di spiegazioni costanti o comunque non fluido e vibrante quanto do­vrebbe.
Per questi motivi si cantano in chiesa canti che nessuno si sognerebbe di cantare fuori del tempio, si pronunciano parole fuori corso da un secolo, argomentazioni incomprensibili dai più, fogge di vestiti che hanno linee così lontane dal costume per cui le vesti cosiddette liturgiche sono più simili a quelle del magazzino di un teatro di lirica che al guardaroba capace di esprimere con le linee e i colori la sublimità di quanto si compie sull’altare. Il guaio s’accre­sce perché il tutto viene prescritto con norme categoriche da gente segregata dalla vita corrente, spesso incapace di cogliere la sensi­bilità dell’uomo d’oggi, e viene recepita da altra gente che ritiene sacro ed intoccabile quello che invece è frutto di immobilismo e cattivo gusto.
Oggi fortunatamente c’è qualcuno che ha il coraggio di infrangere vecchi tabù, ma tuttavia sopravvivono ancora troppi canti che sembrano nenie per incantar serpenti o romanze per l’ope­ra, vestiti abbastanza vicini al grottesco e gesti assolutamente insi­gnificanti, parole obsolete e fuori corso, concetti che non hanno alcuna presa sul modo di pensare dell’uomo della strada.
Quando si spezza quella sana e saggia evoluzione per attardarsi su ciò che forse era valido un tempo, si finisce per rompere quella tensione in costante dinamismo, la sola capace di raccogliere ed esprimere tutte le tensioni di cui vibra il cuore dell’uomo contemporaneo.
An­che in questo campo c’è sempre bisogno di tentativi prudenti, ma attenti alle nuove tonalità della cultura e della sensibilità che muta costantemente, affinché la preghiera liturgica sia vera preghiera della comunità e non formula magica stereotipata e misteriosa, creduta erroneamente liturgica solamente perché è fuori corso nel mercato della vita.
Questo adattamento leggero, ma costante, non può di certo arrivare dagli uffici competenti, ma deve consistere nel contributo vivo e costante dell’intera comunità, contributo che non porta a stravaganze o a rotture plateali con la tradizione, ma che invece ne mette a fuoco in maniera intelligente la finalità per cui deve esistere la preghiera comunitaria.

Don Armando Trevisiol